«Detesto questo periodo dell’anno» dice Rachel. «Scusa, Sierra. So che lo ripeto spesso, ma è così.»
La foschia mattutina vela l’entrata della nostra scuola all’altra estremità del prato. Siamo ferme sul vialetto di cemento per evitare le chiazze di erba umida, ma Rachel non si sta lamentando per il brutto tempo.
«Ti prego, smettila» dico. «Mi farai piangere di nuovo. Voglio solo superare questa settimana senza...»
«Ma non è una settimana!» ribatte lei. «Sono due giorni. Mancano solo due giorni alle vacanze per il Ringraziamento, e poi starai via per un mese intero. Più di un mese!»
Mi aggrappo al braccio di Rachel mentre continuiamo a camminare. Anche se sono io che trascorrerò il periodo natalizio lontana da casa, Rachel si comporta come se fosse il suo mondo a essere messo sottosopra. Il suo viso imbronciato e le spalle abbassate sono un chiaro messaggio rivolto a me, per farmi sapere che sentirà la mia mancanza. Tutto sommato le sono grata per questa sua reazione melodrammatica. Anche se mi piace il luogo dove sto per andare, è sempre difficile lasciare le mie migliori amiche. Sapere che contano i giorni fino al mio ritorno rende, però, le cose più facili.
Indico la lacrima che mi è spuntata all’angolo dell’occhio. «Hai visto cos’hai combinato? Sei riuscita a farmi piangere ancora una volta.»
Stamattina, quando la mamma mi ha accompagnato qui dalla nostra tenuta agricola, il cielo era quasi sgombro di nubi. I braccianti, con le motoseghe che ronzavano come zanzare, tagliavano gli abeti destinati a diventare gli alberi di Natale di quest’anno.
La nebbia si addensava via via che scendevamo a valle. Si allargava sulle piccole fattorie, sull’autostrada e sulla città, portando con sé l’aroma tipico della stagione. In questo periodo dell’anno la nostra cittadina dell’Oregon profuma di abeti appena tagliati. In altre stagioni potrebbe odorare di granoturco o di barbabietole da zucchero.
Rachel mi tiene aperta una delle doppie porte a vetri e mi segue fino al mio armadietto. Poi scuote il suo orologio rosso glitterato davanti ai miei occhi dicendo: «Abbiamo ancora un quarto d’ora. Sono incavolata e ho freddo. Prendiamoci un caffè prima della campanella».
La regista del laboratorio di teatro, la prof Livingston, incoraggia spesso i suoi studenti, neppure troppo velatamente, ad assumere tutta la caffeina necessaria per allestire gli spettacoli in tempo. Dietro le quinte perciò c’è sempre un bollitore acceso. Rachel, in qualità di capo scenografa, può accedere liberamente all’auditorium.
Nel weekend il gruppo di teatro ha terminato le rappresentazioni della Piccola bottega degli orrori. Il set verrà smantellato solo dopo la pausa del Ringraziamento, quindi è ancora allestito quando io e Rachel accendiamo le luci in fondo alla sala. Seduta sul palcoscenico, fra il bancone del negozio di fiori e la grande pianta verde mangiauomini, c’è Elizabeth. Quando ci vede, si riscuote e ci rivolge un cenno con la mano.
Rachel si avvia per prima lungo il corridoio. «Quest’anno volevamo regalarti qualcosa da portare con te in California.»
La seguo oltre le file vuote di sedili rossi imbottiti. Alle mie amiche ovviamente non importa se in questi ultimi giorni di scuola sono una frignona. Salgo i gradini del palco. Elizabeth si alza e corre ad abbracciarmi.
«Avevo ragione!» esclama rivolgendosi a Rachel. «Ti avevo detto che avrebbe pianto.»
«Vi odio tutte e due.»
Poi mi porge due regali avvolti in una luccicante carta natalizia argentata, ma credo di sapere già cosa c’è dentro. La settimana scorsa eravamo insieme in un negozio di oggettistica in centro e le avevo notate mentre guardavano alcune cornici delle stesse dimensioni di queste scatole. Mi siedo per aprire i pacchetti e mi appoggio al bancone, sotto il vecchio registratore di cassa in metallo.
Rachel è seduta a gambe incrociate davanti a me, le nostre ginocchia quasi si toccano.
«State infrangendo le regole» dico infilando un dito sotto una piega dell’incarto. «Non dovremmo scambiarci i regali fino al mio ritorno.»
«Volevamo che portassi con te qualcosa che ti facesse pensare a noi ogni giorno» dice Elizabeth.
«Ci dispiace di non averlo fatto quando sei partita per la prima volta» aggiunge Rachel.
«Cioè quando eravamo ancora piccole?»
Per il mio primissimo Natale, mia madre era rimasta con me nella nostra azienda agricola nell’Oregon, mentre papà gestiva il vivaio di alberi di Natale in California. L’anno dopo la mamma avrebbe preferito restare di nuovo a casa, ma papà non voleva lasciarci sole un’altra volta. Piuttosto, aveva detto, avrebbe rinunciato alla sua attività stagionale per un anno e si sarebbe limitato a spedire gli alberi ai rivenditori sparsi in tutto il Paese. Mia madre però era dispiaciuta per le famiglie che ormai, per tradizione, venivano a comprare l’albero di Natale da noi. E benché fosse un’attività commerciale che papà aveva ereditato dal nonno, la coltivazione degli abeti rappresentava anche una piacevole consuetudine per entrambi i miei genitori. Si erano conosciuti proprio perché la mamma e i nonni erano clienti abituali del vivaio. Perciò è questo il luogo dove ogni anno, immancabilmente, trascorro il periodo che va dalla festa del Ringraziamento a Natale.
Rachel si distende, appoggiando le mani sul palcoscenico per sorreggersi. «I tuoi hanno già deciso se questo sarà il vostro ultimo Natale in California?» chiede.
Gratto via un pezzo di nastro adesivo che chiude un’altra piega. «Te l’hanno confezionato in negozio?»
«Sta cambiando argomento» sussurra Rachel all’orecchio di Elizabeth, ma abbastanza forte per farsi sentire da me.
«Scusate. Il fatto è che non sopporto l’idea che questo potrebbe essere il nostro ultimo anno. Per quanto vi voglia bene, mi spiacerebbe non andare laggiù. E poi – l’ho sentito per caso, i miei non me ne hanno ancora parlato – mi è sembrato di capire che sono preoccupati per lo stato dei conti. Finché non hanno preso una decisione, preferisco non aspettarmi niente.»
Se resistiamo per altre tre stagioni, saranno trent’anni che la nostra famiglia gestisce il vivaio. Quando i miei nonni acquistarono quell’appezzamento di terreno, la cittadina stava vivendo un momento di grande espansione. Negli agglomerati urbani più vicini alla nostra azienda agricola c’erano già dei vivai ben radicati sul territorio, anche se non erano numerosi. Oggi gli alberi di Natale si vendono dappertutto, dai centri commerciali ai negozi di ferramenta, oppure per raccogliere fondi da destinare in beneficenza. Le coltivazioni specializzate come la nostra non sono più molto comuni ormai. Se ci rinunciassimo, il nostro giro di affari si limiterebbe alla vendita ai supermercati o alle associazioni benefiche, oppure ad altri vivai.
Elizabeth mi posa una mano sul ginocchio. «Una parte di me vorrebbe che tu partissi anche l’anno prossimo, perché so che ti piace, ma se rimani qui potremmo finalmente passare le feste insieme per la prima volta.»
Non posso fare a meno di sorridere al pensiero. Sono affezionata a queste ragazze, ma anche Heather è una delle mie migliori amiche, e la vedo solo per un mese all’anno, quando vado in California. «Ci andiamo da sempre» dico. «Non riesco a immaginare come sarebbe... smettere di botto.»
«Te lo dico io come sarebbe» interviene Rachel. «Ultimo anno. Sci. Vasca idromassaggio. E il tutto in un paesaggio imbiancato!»
Ma io amo la nostra città californiana senza neve, proprio sulla costa, ad appena tre ore di viaggio a sud di San Francisco. Amo anche vendere gli alberi, vedere i clienti affezionati tornare da noi un anno dopo l’altro. Non mi sembrerebbe giusto dedicare così tanto tempo alla coltivazione degli abeti per poi spedirli ai grossisti.
«Sarebbe divertente, no?» mi chiede Rachel avvicinandosi e battendo rapidamente le palpebre. «Ecco. Immaginatelo con dei ragazzi.»
Scoppio a ridere coprendomi la bocca con la mano.
«O anche no» dice Elizabeth tirando indietro la spalla di Rachel. «Sarebbe bello passare qualche giorno soltanto fra noi, senza ragazzi.»
«Praticamente quello che succede a me ogni Natale» dico. «Ricordate? L’anno scorso sono stata mollata la sera prima di partire per la California.»
«È stato orribile» commenta Elizabeth, anche se ride sommessamente. «Poi lui che si porta quella tettona snob al ballo d’inverno e...»
Rachel le preme un dito sulle labbra. «Penso che se lo ricordi bene, Elizabeth.»
Abbasso lo sguardo sul primo pacchetto, ancora parzialmente avvolto. «Del resto, non posso dargli torto. Chi vorrebbe avere una relazione a distanza durante le feste? Io no.»
«Anche se...» interviene Rachel «l’hai detto tu stessa che nel vivaio lavorano dei gran bei ragazzi.»
«Certo.» Scuoto la testa. «Come se mio padre potesse mai permettere una cosa del genere.»
«Okay, non parliamone più» dice Elizabeth. «Apri i regali.»
Tiro un pezzo di scotch, ma la mia mente ormai è in California. Heather e io siamo amiche letteralmente da quando ho memoria. I miei nonni materni erano vicini di casa della sua famiglia. Quando morirono, i suoi genitori mi tennero con loro un paio d’ore al giorno per dare un po’ di respiro alla mamma e papà durante il periodo delle vendite. In cambio ricevettero un bell’albero di Natale, qualche ghirlanda, e l’aiuto di due o tre lavoranti per sistemare le luci sul tetto.
Elizabeth sospira. «I tuoi regali. Coraggio.»
Strappo l’involucro da una parte.
Naturalmente le mie amiche hanno ragione. Mi piacerebbe trascorrere almeno un inverno qui, prima di diplomarci e di partire ognuna per la sua strada. Ho sempre sognato di stare con loro per il concorso di sculture di ghiaccio e tutte le altre attività che si svolgono da queste parti.
Ma le mie vacanze in California sono l’unica occasione in cui posso incontrare l’altra mia migliore amica. Ho smesso anni fa di riferirmi a Heather semplicemente come alla “mia amica invernale”. Lei è una delle mie più care amiche, punto. Un tempo passavamo insieme anche alcune settimane d’estate, quando andavo a trovare i miei nonni, ma dopo la loro morte quelle visite cessarono. Quest’anno temo di non potermi godere appieno questo periodo con lei, sapendo che potrebbe essere l’ultimo.
Rachel si alza e attraversa il palcoscenico. «Ho bisogno di un caffè.»
«Ma sta aprendo i nostri regali!» le urla dietro Elizabeth.
«Sta aprendo il tuo regalo» ribatte Rachel. «Il mio ha il nastro rosso.»
Il primo pacchetto, quello con il nastro verde, contiene una cornicetta con un selfie di Elizabeth. Ha la lingua fuori da un lato della bocca e gli occhi che guardano nella direzione opposta. È simile a qualsiasi altra sua foto, ed è proprio per questo che mi piace così tanto.
Mi stringo la cornice al petto. «Grazie.»
Elizabeth arrossisce. «Figurati.»
«Ora apro il tuo!» urlo a Rachel oltre il palcoscenico.
Lei si avvicina lentamente con tre bicchieri di caffè fumante. Ne prendiamo uno ciascuno. Poso il mio da una parte mentre Rachel torna a sedersi davanti a me, poi inizio a scartare il suo regalo. Anche se staremo lontane solo per un mese, so che mi mancherà moltissimo.
Nella foto, Rachel appare di profilo, con il viso parzialmente coperto dalla mano, come se non volesse essere fotografata.
«In teoria volevo dare l’impressione di essere assediata dai paparazzi» spiega. «Come un’attrice famosa che esce da un ristorante alla moda. Nella vita reale probabilme...