Al buio le lancette della sveglia sembravano due piccoli neon che illuminavano le api e le rondini disegnate sul quadrante. Matteo strinse il cuscino con le mani e vi affondò la testa. Tic.
Chiuse gli occhi e contò i secondi. Quattro. Cinque. Sedici. Li riaprì per vedere lo scatto in avanti della lancetta dei minuti, ma come sempre aveva atteso troppo e il piccolo neon fosforescente adesso stava lì, più in alto, di nuovo immobile. Era un gioco che faceva con suo padre. Tac.
Matteo non era mai riuscito a cogliere quel movimento, ma da un po’ aveva imparato a non prendersela perché nella vita, come gli aveva insegnato suo padre, non serviva. Quando era bambino lui, diceva, non c’era tempo per prendersela o starci male, e infatti i bambini erano più svegli, non c’erano tutte queste comodità che avevano rovinato la gente. «Dovevi arrangiarti, ed era giusto così, altrimenti erano affari tuoi» ripeteva. «Siamo in guerra, vecchio mio, è meglio che ti dai una mossa.» Tic.
Spesso, dopo avere detto quella frase si fermava. Se stava fumando inspirava una lunga boccata e teneva il fumo dentro, se era in piedi alzava gli occhi e guardava lontano, all’orizzonte, come se stesse pensando a qualcosa di molto profondo. Si avvicinava a Matteo e si piegava sulle ginocchia, prendeva tempo per dare peso a ciò che stava per dire. Si massaggiava la fronte e poi ricominciava, pacato, con uno dei suoi proverbi. Tac.
«Ricordati, Matteo» diceva, «nella vita sono importanti tre cose.» Si fermava ancora, gli metteva una mano sulla spalla e stringeva per fargli capire che gli voleva bene, e che quelli erano gli insegnamenti fondamentali di un padre. «Tre cose, hai capito? Misurare, scavare e poi dimenticare.»
Con queste era cresciuto lui, e con queste doveva crescere anche Matteo. Tic. Quante volte suo padre le aveva ripetute. Sentiva la sua voce calda e rassicurante che lo tranquillizzava, anche ora che, scaduto il tempo delle riflessioni e dei dubbi, era giunto il momento di metterle in pratica.
Soprattutto l’ultima gli sarebbe tornata utile quel mattino. Tac.
Matteo ci pensava su, non ancora del tutto sveglio. Quella parola galleggiava sopra la sua testa come dentro una specie di bolla di vetro. Fluttuava a mezz’aria, era una cosa viva, elastica, una specie di serpente gommoso.
Tic. Altri secondi. Quindici, venti, chi poteva dirlo? Tac.
Allentò la presa sul cuscino e socchiuse gli occhi, rivolti verso la sveglia, mentre la bolla sospesa sopra la sua testa continuava a ondulare e poi si dissolse.
Tic. Un altro scatto che lui aveva mancato. E poi un altro ancora. Tac. Quel mattino non riusciva a concentrarsi. Un terzo scatto perduto.
Nuovi spostamenti delle lancette, non contati per via degli ultimi sogni notturni, brevi immagini isolate che irrompevano e si confondevano l’una nell’altra. Un momento era a fianco di suo padre che pescava in pantaloncini da calcio nella vasca delle chiuse dove confluiva l’acqua dei torrenti; un momento nella cucina di casa dove sua madre, rivolta verso i fornelli, gli parlava troppo piano.
Infine – Tic – scomparvero anche sua madre, suo padre, e tutto il resto venne cancellato via, e Matteo si ritrovò disteso nel letto con il cotone bagnato del cuscino all’angolo della bocca e gli occhi fissi al buio. Tac.
Si chiese chi poteva aiutarlo, ma prima di rispondere venne colto da una fitta allo stomaco a cui reagì serrando le labbra e stringendo i denti.
Negli ultimi tempi i crampi erano diventati intollerabili e lui si sentiva ogni volta strappato lontano e senza fiato.
Pensava a ciò che sarebbe successo poche ore più tardi, in un edificio anonimo della città, tra estranei che lo trattavano con tutti i riguardi anche se non sapevano nulla di lui.
Ma, come avrebbe detto suo padre, non serviva pensarci tanto. No, pensare non serviva mai. I suoi pensieri non lo avrebbero aiutato, né difeso. Tic.
Se lo ripeteva mentre il dolore alla pancia diminuiva e la fosforescenza delle lancette veniva assorbita nella luce della porta che si apriva.
Ecco, l’irruzione violenta della realtà nella sua vita.
Tac.
Sua madre, proprio ora. L’ultima persona che voleva vedere.
Tic.
Non gli restava che aggrapparsi agli ultimi secondi liberi, immaginare con gli occhi chiusi di essere da solo, e strappare quegli istanti fuori dal tempo per sé e basta.
Matteo si concentrò di più. Il dolore alla pancia era quasi scomparso, ora si trattava di tenere il respiro e fingere di dormire. Tac.
E poi, soprattutto, dimenticare. Aveva ragione suo padre.
Dimenticare, certo, niente altro che quello, mentre davanti a sé le lancette perdevano la loro magica luminescenza e tornavano due segmenti di plastica immobili, come i numeri del quadrante.
Tic.
«Matteo» lo chiamò sua madre. Si mise seduta sul bordo del letto e ora gli accarezzava i capelli. Forse anche lei aveva bisogno di raccogliere le idee, e quello era il momento. Le altre mattine non c’era tempo, troppe cose, la colazione, Clarissa, la cucina da sistemare, asciugare i piatti, pulire la tavola.
«Sei sveglio?» continuò. Non era raffreddata, la voce era nasale perché aveva appena pianto. Da quando era morto suo padre bastava un piatto fuori posto o una pentola che non entrava in lavastoviglie per farla piangere.
Si alzò in piedi con fatica, attraversò la stanza e tirò un poco su le persiane. Poi tornò da lui.
«Matteo caro» sospirò. Ora singhiozzava, il fiato strozzato, il respiro contratto, anche lei per debolezza, ma una debolezza diversa dalla sua, un non sentirsi all’altezza più che un vergognarsi.
«Matteo, non devi avere paura. Oddio, di cosa sto parlando. Però noi due... Noi due dobbiamo restare uniti. Se ci fosse tuo padre...»
In quei giorni ripeteva sempre gli stessi pezzi di frase, come se non fosse stata in grado di terminarle, o come se la frase successiva avesse schiacciato la coda della precedente.
Non c’era mai una soluzione, o magari non c’era nulla da dire, o da concludere, e quello era il suo modo per rassicurare se stessa più che per parlare con lui.
Matteo non si muoveva, continuava con i respiri lunghi come se fosse stato immerso nel sonno.
«Cioè...» riprese lei, ma subito si bloccò. Forse aveva visto qualcosa, o forse sì, quel mattino qualcosa la voleva dire a suo figlio, le parole importanti che ogni madre avrebbe detto in un’occasione come quella. «Cioè... È solo che... Quante volte ancora... So che ci sei... Ma io... Io delle volte, non so se mi capisci... Non sono mai stata brava a parlare, però... Io, Madonna santissima, se mi guardo indietro...»
Gli aggiustò il cuscino sotto la testa.
«Matteo, fra poco è finita, dài, alzati che è tardi. So che sei sveglio.»
Ecco una frase completa, ci era riuscita. Una rassicurazione intera, come avrebbe fatto ogni madre. Stava per continuare ma venne interrotta da un grido stridulo, tagliente.
«Oddio, si è svegliata» sibilò, in apparenza contrariata, ma forse sollevata dall’avere portato a termine qualcosa, una frase sensata, e di non doverla continuare. «Matteo, ci sarà mai tempo per noi, per me, per te, un giorno? Basterebbe un secondo. Cosa devo fare.» Eccola, sua madre, messa a nudo dal grido di Clarissa. «Matteo» continuò, alzandosi dal letto e sistemandosi i capelli. «Non possiamo fare tardi, ti prego, almeno tu.»
Indugiò sulla porta. «Ti aspetto giù, Scimmietta.» Parlava con un filo di voce.
Poi si soffiò il naso e uscì.
Matteo si rilassò, ascoltando il rumore sordo dei suoi passi lungo le scale, e si concesse un respiro profondo.
Scimmietta, da quanto non lo chiamava così. Anni, forse, e ora quella parola suonava come una confidenza di vecchia data, quando tra loro c’era un rapporto speciale e lui era la sua Scimmietta. Che bello, passavano tutto il tempo insieme. Lei lo sedeva sulla bicicletta e andavano a fare la spesa, o lo teneva vicino mentre cucinava, o si faceva aiutare con le mollette quando appendeva i panni.
Ultimamente invece sembrava cercare ogni pretesto per stargli lontano e in quell’occasione il pianto di Clarissa rappresentava una specie di liberazione per sua madre, il tempo di fare le scale tra un figlio e l’altro, una pausa per sé, l’unica che si concedeva. La possibilità di lasciarsi andare senza che nessuno la vedesse, svuotarsi e piangere. E allora piangeva. Anche mentre lavava i piatti e puliva per terra, o mentre vestiva Clarissa. Piangeva di spalle rivolta ai fornelli, e quando si allungava a prendere qualcosa in alto nella dispensa. Approfittava per piangere quando poteva, per una causa evidente o senza motivazione.
Alle volte, quando il dolore era incontenibile, se ne vergognava e scivolava a nascondersi in bagno, dove i singhiozzi attraversavano la porta confusi dal brusio del rubinetto aperto o dallo sciacquone. Era un pianto opaco, si diceva Matteo, e immaginava che lei piangesse seduta sulla tazza del water con un asciugamani davanti alla bocca. Gli sembrava di vederla, in quella posizione goffa, e cercava di capire perché, a differenza di sua madre, lui non avesse mai pianto, nemmeno quando era morto il papà.
Un’altra fitta allo stomaco, meno intensa. Matteo si strinse le mani sulla pancia e aprì gli occhi sulla sveglia a forma di trattore, che gli aveva regalato suo padre.
All’improvviso Clarissa aveva smesso di piangere. Ora si sentivano gli ultimi singhiozzi di sua madre, che in breve si erano trasformati in canto. Doveva avere preso in braccio la bambina, e adesso canticchiava il motivetto di un assurdo cartone animato che guardavano spesso con lei, ambientato in un bosco magico abitato da folletti viola.
Matteo diede l’ultima occhiata al trattore-sveglia. Le lancette si muovevano ancora in avanti malgrado lui, che quel mattino avrebbe voluto bloccarle e fermare il tempo.
Sistemò le lenzuola come gli aveva insegnato sua madre e andò in bagno. Si portò alla finestra, scostò la tenda e si lavò i denti in piedi, guardando il paesaggio con lo spazzolino in bocca.
No, non sarebbe mai riuscito a vedere lo scatto delle lancette, e né il tempo si sarebbe fermato, tantomeno quel mattino. Il fiume del tempo lo avrebbe portato con sé come se fosse stato un corpo inerte a galla sulla corrente fino a quel posto, la Stanza delle parole, come l’altra volta. Lì la mamma lo avrebbe lasciato da solo, perché le persone gli dovevano fare le domande e lui avrebbe dovuto dare le risposte esatte senza farsi aiutare da nessuno.
Questa volta aveva ancora più paura. Forse non avrebbero più chiesto niente, ma lo avrebbero accusato e gli avrebbero detto che era lui il colpevole, aveva compiuto delle azioni sbagliate e adesso doveva pagare.
Magari lo avrebbero messo in prigione, e forse era giusto, perché, come diceva suo padre, “Chi sbaglia, paga”. Glielo avrebbero fatto capir...