Amiche sorelle
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Amiche sorelle

  1. 372 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Amiche sorelle

Informazioni su questo libro

L'avvocato scozzese Robert McFadden, figlio di un missionario in Rhodesia e di una ricca proprietaria terriera, entra in contatto fin da piccolo con il "diverso da sé" quando i suoi genitori, alla fine della Prima guerra mondiale, accolgono nella loro casa di Edimburgo una bambina nera che lui scoprirà essere la figlia illegittima del padre.

Passano gli anni e la storia si ripete: la figlia di Robert, Jen, dovrà a sua volta convivere con una coetanea di colore, Kemi, figlia di due attivisti per i diritti civili.

Jen e Kemi crescono insieme come sorelle, ma sono molto diverse tra loro: la prima è più ribelle nei confronti dei genitori, Kemi invece cerca di compiacerli anche nelle scelte di vita. Jen non si realizzerà mai a livello professionale, mentre Kemi diventerà un chirurgo di successo.

Quando, durante un soggiorno in Sudafrica, conoscono Solam Rhoyi, un giovane economista e ambizioso politico sudafricano, e se ne innamorano entrambe, il loro rapporto inizia a incrinarsi e nulla sarà più come prima.

Amiche sorelle è una grande saga familiare che attraversa tre generazioni, dalla fine dell'Ottocento ai primi anni Duemila, ambientata tra la Rhodesia - oggi Zim­babwe - il Sudafrica, Londra e la Scozia in un momento storico di transizione politica, in cui si collocano i drammi dei personaggi, amicizie e amori traditi, segreti indicibili, ambizioni senza scrupoli.

Lesley Lokko, nata nel 1964, è metà ghanese e metà scozzese. Cresciuta in Africa, ha studiato negli Stati Uniti e in Inghilterra. Insegna architettura in Sudafrica.

Con Mondadori ha pubblicato Il mondo ai miei piedi (2004), Cieli di zafferano (2005), Cioccolato amaro (2008), Povera ragazza ricca (2010), L'estate francese (2011), Un perfetto sconosciuto (2012), Una donna misteriosa (2013), Innocenti bugie (2014), In amore e in guerra (2015) e La debuttante (2017).

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2018
Print ISBN
9788804706496
eBook ISBN
9788852089947
Parte quarta

1997

Dieci anni dopo
L’ambizione non è un vizio da gente di poco conto.
MICHEL DE MONTAIGNE

8

Londra, Natale 1997 – Kemi

Per qualche istante nessuno dei chirurghi riuniti intorno alla barella parlò. Poi il dottor Fairbanks, il neurologo responsabile, si schiarì la voce e disse: «Dottoressa Mashabane, vuole occuparsene lei?».
Kemi deglutì, nervosa. Non c’era assolutamente tempo da perdere. Era solo la sua seconda craniotomia, ma sapeva perché era stata scelta. Era al primo dei cinque anni di specializzazione in neurochirurgia, ed era l’unica donna del team: doveva fare bene. Sistemò la messa a fuoco del microscopio ad alta potenza e si chinò. Dallo schermo alla sua sinistra sapeva che il tumore era localizzato appena sotto l’osso temporale destro. Fairbanks aveva guidato la rimozione della dura madre e la delicata massa rosa del cervello era già esposta.
«Numero undici, grazie» mormorò alla ferrista che sostava con discrezione alla sua sinistra, gomito a gomito, e che le passò subito un bisturi. Kemi lo prese, ricordandosi di rilassare la presa nel momento esatto dell’incisione. La lama entrò con precisione, senza incontrare la minima resistenza. Un sottile rivoletto di un rosso acceso tracciò la linea dell’incisione, eliminato in fretta dall’aspiratore prima che potesse diffondersi. Geoff Manning, che la assisteva, scostò la massa pulsante di carne con le pinze, per darle la massima visuale possibile del cervello. Lei lo vide immediatamente. In contrasto con i tessuti sani che lo circondavano, il tumore era grigio e dall’aspetto maligno, esattamente come lo si potrebbe immaginare. Lei incise con attenzione il sacco che lo rivestiva, aiutata da Geoff che teneva indietro i lembi. Il tumore melanotico era annidato nell’angolo superiore destro della zona esposta, e luccicava come per accusarla, pulsando al ritmo del battito del paziente. Le arterie erano chiaramente visibili, una più grossa delle altre, quella che portava il sangue di cui si nutriva avidamente.
«Piano, piano. Sta’ attenta a non inciderlo troppo presto.»
«Sì, dottor Fairbanks.» Kemi aveva la mano salda.
«Calma e tranquillità. Stai rilassata mentre lavori. Stai andando bene.»
«Grazie, dottore.»
Kemi si chinò in avanti, tutta la sua attenzione concentrata sul tessuto gelatinoso che ricopriva il tumore. Un millimetro troppo a destra o a sinistra avrebbe causato un danno al tessuto cerebrale sano… e chissà che conseguenze ci sarebbero state. Questo la affascinava: la riduzione di una vita intera di sentimenti, emozioni, memorie… alla materia grigio-rosata che lei aveva davanti, la cui forma non rivelava cosa ci fosse sotto, sepolto dentro. Se la lama fosse scivolata inavvertitamente avrebbe potuto cancellare un’infinità di esperienze o di abilità: perdita del linguaggio, della capacità di ricordare, delle abilità motorie di una persona. Era innanzitutto questo aspetto che l’aveva convinta a scegliere neurochirurgia. Sia il terrore sia l’euforia che suscitava in lei… e nei mesi da quando si era unita a quel team, l’interesse non era diminuito, per niente.
«Bravissima» mormorò Geoff quattro ore dopo, quando il team di chirurghi uscì dalla sala operatoria nell’antisala. «Che mano salda. Non avrei saputo fare di meglio.»
Kemi gli sorrise. «No, non avresti potuto» confermò, in tono un po’ canzonatorio. «Però, santo cielo, sentivo gli occhi di Fairbanks che mi perforavano il cranio, figuriamoci quello del paziente.»
«È difficile che rimanga colpito» convenne Geoff, togliendosi i guanti chirurgici. «Ma tu stai facendo un buon lavoro. Stai solo attenta alle sue mani.» Abbassò la voce. «A quanto pare non sanno stare al loro posto. Ha una certa fama.»
Kemi rise. «Ma dài, è vecchio.»
«E allora?»
Lei scosse la testa, ancora ridendo. «È abbastanza vecchio per essere mio zio. Non se ne parla.»
Geoff la guardò. «Perché dici così?»
«Cosa?»
«Zio. Di solito la gente dice “abbastanza vecchio per essere mio padre”, non “mio zio”.»
Kemi si sentì avvampare in viso. «Io… sono stata cresciuta da mio zio.» Sperava di distrarre l’attenzione dal suo cognome, ma dubitava di riuscirci. Sapeva esattamente che piega avrebbe preso la conversazione subito dopo.
«È da tanto che volevo chiedertelo… Siete parenti?»
«No» rispose lei impassibile, senza voltarsi. Il dottor Tole Mashabane. Non passava quasi settimana senza che il suo nome fosse ricordato al telegiornale. Aprì l’armadietto. «È un cognome comune in Sudafrica» mentì. «Come “Smith” o “Jones”.»
«Ah, me l’ero sempre chiesto. Sarebbe forte, no?»
«Sì?» chiese Kemi per cortesia. Prese la borsa. «Vado» disse con decisione. Il suo buonumore di prima era svanito. «Buon weekend.»
Geoff la guardò sorpreso. «Non vieni fuori a bere con noi? È quasi Natale.»
Kemi scosse la testa. «Mi vedo con… qualcuno» si affrettò a dire.
Geoff inarcò un sopracciglio. «Qualcuno?»
«No, non è come pensi. Mia sorella.»
«Ah. Non sapevo che avessi una sorella. Non me ne hai mai parlato prima.»
«Geoff, ci conosciamo solo da un paio di mesi» ribatté Kemi con simulata, ma non tanto, esasperazione.
«Sì, però tu sai tutto di me. Praticamente tutto.»
«È perché tu parli tanto» disse Kemi, asciutta. «Io no.»
«Dove vi vedete? Posso venire anch’io?»
«No.» E aggiunse, in tono più gentile: «Magari la prossima volta».
«Promesso?»
«No.» Kemi sorrise. «Oltretutto non hai un appuntamento? Con la bella Pernilla, se ricordo bene.»
Geoff fece un sorrisetto compiaciuto. «Sai benissimo che basterebbe un tuo cenno e la mollerei subito.»
«Non aspettare con il fiato sospeso.» Kemi chiuse bene l’armadietto. «Divertiti» gli disse incrociando le dita. «Non vedo l’ora di sentire com’è andata.»
«Lo dici tanto per dire» ribatté Geoff, mettendo la borsa sulla spalla e seguendola fuori dallo spogliatoio.
«Sì, è vero» disse lei sorridendo. «Ci vediamo lunedì.» Gli lanciò un bacio scherzoso e sparì oltre le porte a battente.
Fuori pioveva. Sollevò il colletto del cappotto e cercò di infilare i riccioli ribelli sotto il cappuccio. Si incamminò lungo Gower Street, oltre la facciata scrostata del vecchio ospedale universitario vittoriano, al momento in demolizione. Dalle sue ceneri sarebbe dovuta nascere una snella fenice di vetro e acciaio, o almeno così promettevano i tabelloni pubblicitari. A lei piaceva abbastanza il vecchio edificio gotico in mattoni rossi… le ricordava un po’ il Fettes. Al pensiero del Fettes, il suo volto si illuminò. Era da almeno sei mesi che non vedeva Jen. Era appena tornata da uno stage di tre mesi a New York, a quanto pareva il periodo massimo senza un permesso di lavoro ufficiale in mano. Kemi si era persino dimenticata che cosa avesse fatto a New York. Si sforzò di ricordare… L’assistente di un assistente di un curatore? Era qualcosa del genere e qualcosa nel “mondo dell’arte”, qualunque cosa fosse. Era difficile stare al passo di Jen. Parlava del “mondo dell’arte” nel modo in cui alcuni parlavano del Terzo mondo o del mondo comunista: un luogo separato “là fuori”, disconnesso dalla vita quotidiana. Ovunque fosse – Londra, New York o Miami – a Kemi sembrava che fosse un mondo alimentato in gran parte dall’ego degli artisti, dai soldi dei clienti e da una frastornante cerchia di “contatti” in continua diminuzione, i cui capricci Jen cercava disperatamente di assecondare. Era esasperante e divertente, quasi in egual misura. Dopo la disastrosa conversazione con lo zio Robert, una decina di anni prima, quando erano stati segnati i rispettivi percorsi, Jen era passata da un lavoro all’altro, tutti senza prospettive, senza mai sistemarsi, né geograficamente né professionalmente. Si era “persa d’animo”, come si era espressa lei stessa, e aveva deciso di frequentare storia dell’arte all’università e non l’accademia. Kemi aveva ascoltato il suo elenco di motivazioni con tutta la simpatia possibile, ma senza capirci molto. Non aveva senso per lei: perché Jen non si limitava a fare quello che desiderava davvero? Ma aveva imparato a sue spese a non fare domande.
Spinse la porta del ristorante – thai, notò, una scelta di Jen – e la accompagnarono a un posto vicino alla vetrina. Era ancora presto; appena passate le cinque di un venerdì pomeriggio piovoso, due settimane prima di Natale. Mentre si toglieva il cappotto, le cadde l’occhio su un titolo dell’“Evening Standard” fuori: WINNIE MANDELA TESTIMONIERÀ. Deglutì. Due promemoria nello stesso giorno. Distolse lo sguardo e prese in mano la lista dei vini.
«Kemi!»
Alzò gli occhi. Jen stava venendo verso di lei con il suo solito turbine di sciarpe, cappotto e borsa, e una nevrosi a fatica repressa… una tipica entrata alla Jen. Kemi si alzò; si scontrarono. «Scusa… scusa» mormorò lei, abbracciandola forte.
«Sono in ritardo, vero?» chiese Jen in ansia.
Kemi scosse la testa. «No, sono io in anticipo. Abbiamo fatto relativamente presto in sala operatoria oggi.»
Jen si coprì la bocca con la mano. «Merda! Mi sono dimenticata!»
«Cosa?»
«Non ti ho più visto da allora.»
«Da quando?» chiese Kemi sconcertata.
«Da quando hai vinto… quel… quel posto. Il posto di cui parlavi!»
«Quale posto?»
«Nel team. Sai, il posto che speravi di ottenere per… quella cosa di chirurgia.»
«Oh, Jen. È stato mesi fa» disse Kemi sorridendo. E non è niente di che.»
Jen lanciò la borsa su una sedia libera e si accasciò su un’altra. «Mi dimentico sempre», gemette. «Devi pensare che sono una vera stupida.»
Kemi scosse la testa sorridendole con l’aria un po’ triste. «Lo sai che non è così. Sei stata occupata… lo siamo state entrambe. Prendiamo qualcosa da bere. Cosa vuoi?»
Jen si illuminò visibilmente. «Vino bianco» disse senza esitazioni. «È tutto il giorno che aspetto questo momento. Non mi sono fermata un secondo!»
«Cosa succede?» chiese Kemi prendendo in mano la lista dei vini. «E poi mi sembrava che avessi detto che tornavi per riposarti.»
«No, è cambiato tutto. Parker mi ha trovato un lavoro fantastico in una galleria di Mayfair. Il proprietario è…»
«Chi è Parker?» la interruppe Kemi, facendo un cenno alla cameriera che aspettava. «Sì, due bicchieri di pinot grigio» mormorò.
«Faccia una bottiglia. Ho tantissime cose da raccontarti! Ne sono successe un sacco!»
«Allora… chi è Parker?» insistette Kemi, facendo finta di studiare il menu. Jen sembrava ancora più scriteriata del solito; aveva le guance arrossate, gli occhi che luccicavano e i gesti esagerati. Poteva significare solo una cosa.
«Oh, no… niente del genere» disse Jen con decisione, scuotendo la testa. Anche se lei si era affrettata a negare, Kemi aveva notato un accenno nostalgico nella voce. Non faceva una grinza. La vita sentimentale di Jen era un vero campo minato di tipi sbagliati, che di solito finiva in tragedia. «È americano. L’ho conosciuto attraverso Mindy… te la ricordi?» Kemi scosse la testa. «Sì che te la ricordi. Era all’università con me, l’hai conosciuta, ne sono sicura. Comunque, Parker è un grande. Lavorava per Sotheby’s e conosce tutti, e intendo proprio tutti. Così ha parlato con Federico Contini del Cube e in men che non si dica sono al telefono con la moglie di Federico, Isabella, e…»
«Jen… io non conosco nessuna di queste persone» la interruppe Kemi con gentilezza. «Dimmi solo: che cosa hai intenzione di fare?»
«Be’, adesso Federico e Isabella sono i nuovi proprietari del Cube, sai, quella nuova galleria che ha appena aperto in Bruton Street… non puoi non averne sentito parlare. No? Vicino alla galleria di Tiphâne de Boissy?»
Kemi scosse di nuovo la testa. Il mondo di Jen era un assoluto mistero per lei. Ascoltò distrattamente Jen che continuava a snocciolare nomi che lei non aveva mai sentito. Perché l’ambiente di Jen sembrava pieno di persone con nomi androgini oppure di luoghi? Tiphâne, Brooklyn, Federico… Era tutta un’altra cosa rispetto al suo mondo, popolato di Geoff, David e ogni tanto qualche Clare o Anne.
Quando Jen cominciò a descrivere con entusiasmo la galleria e il suo nuovo lavoro, che sembrava più un incarico da segretaria che altro, Kemi rimase colpita da quanto fossero diverse loro due. In realtà sarebbe stato difficile trovare due persone più dissimili di lei e Jen, anche se erano più affiatate di due sorelle. Jen era la sua unica famiglia. I genitori di Kemi erano ancora vivi, naturalmente, ma la verità era che lei non li considerava più parenti… Non era affatto sicura di come li considerasse. Erano passati venticinque anni dall’ultima volta che aveva visto suo padre, e diciannove da qua...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. AMICHE SORELLE
  4. Prologo. Matabeleland, Rhodesia del Sud, 1896
  5. PARTE PRIMA
  6. PARTE SECONDA
  7. PARTE TERZA
  8. PARTE QUARTA
  9. PARTE QUINTA
  10. PARTE SESTA
  11. PARTE SETTIMA
  12. PARTE OTTAVA
  13. PARTE NONA
  14. PARTE DECIMA
  15. PARTE UNDICESIMA
  16. PARTE DODICESIMA
  17. Epilogo. Citta del Capo, giugno 2010
  18. Copyright