Cinque anni prima
La stanza era illuminata solo dalla luce tremula di una candela. Ricol era chino sui libri mastri, uno stilo stretto in mano. Vergava le cifre con la sua calligrafia minuta e ordinata; da un lato gli incassi, dall’altro le uscite. Era un lavoro che avrebbe potuto tranquillamente demandare a uno dei suoi sottoposti. In fin dei conti, era Ricol O Sierra, il più ricco mercante d’armi di tutto il Dominio. Ma lui non era così. Si ricordava ancora quando scavava carbone nelle miniere di Astoria, prima, e quando lavorava alla forgia, poi. Ricordava i tempi grami nei quali doveva obbedire alla frusta e la fame era una presenza costante.
Da quel buco si era tirato su a forza, contando solo sulla propria determinazione e sul potere del proprio cervello. Aveva calpestato cadaveri di amici e nemici per diventare quello che era, e se c’era una cosa che aveva imparato in tutto quel tempo era che devi mantenere il controllo. Quando inizi a demandare, è la fine: nessuno tiene ai tuoi affari quanto puoi tenerci tu. Per questo faceva da solo quel lavoro tutto sommato umile. E poi gli piaceva. C’era qualcosa di rilassante nello stilo che graffiava la pergamena, nell’odore acre dell’inchiostro e nelle cifre incolonnate, l’una sotto l’altra, a disegnare l’esatta misura della sua fortuna.
«Vieni avanti» disse con calma, senza alzare lo sguardo dal libro mastro.
L’uomo avanzò nel cono di luce. Era vestito di nero, con un giustacuore di cuoio e due bracciali d’identico materiale a stringergli gli avambracci. Neri erano anche i capelli, e così gli occhi, leggermente allungati, che tradivano le sue origini alcake. Erano pozzi nei quali Ricol vedeva qualcosa che riconosceva: la sua stessa determinazione. Era per questo che aveva scelto lui.
Si tirò indietro sulla sedia e lo guardò. In una mano, appesa a una corda teneva una scatola di legno.
«Hai un udito piuttosto fino, per essere un mercante astoriano» osservò l’uomo.
Ricol fece una smorfia. «È dal silenzio che vengono tutte le minacce, tu dovresti saperlo meglio di chiunque altro.»
L’uomo non fece commenti. Lasciò cadere a terra la scatola.
«Contiene quel che penso?» chiese Ricol.
L’uomo annuì.
«Mostramelo.»
«Non vuoi avere tu l’onore?»
Ricol contrasse la mascella. «Muoviti.»
L’uomo ridacchiò, quindi si chinò sulla scatola e l’aprì. Un odore nauseante riempì la stanza. L’uomo svolse un involto di tela grezza macchiata di sangue e ne trasse fuori il contenuto. Era la testa di un Astoriano. Ricol la conosceva bene. La ricordava ancora attaccata al collo del suo proprietario, mentre questi gli ribadiva spavaldo che non si sarebbe mai arreso al suo ricatto, che si sarebbe tenuto la sua fabbrica fino alla morte. Pacorras non era una vera e propria minaccia, o per lo meno non lo era la sua piccola industria di lame. Ma gli aveva soffiato un paio di affari ed era in crescita, e Ricol non voleva avversari sul suo terreno. Per questo si era offerto di acquistare la sua attività a un ottimo prezzo. Ma l’Astoriano era uno di quegli stupidi che professavano di avere un’integrità.
Ricol si alzò, si avvicinò all’uomo che, come tutti gli altri abitanti del Dominio che non fossero Astoriani, lo sopravanzava di tre spanne buone, e sorrise. «Sei stato bravo.»
«Te l’avevo detto. Ora, se non ti dispiace, vorrei quanto pattuito.»
«Certo.»
Ricol scosse una campanella. L’uomo si lasciò sfuggire un mezzo sorriso e rimase in piedi, in attesa. Ma i secondi passarono, e nessuno arrivò. Il mercante d’armi suonò di nuovo la campanella. Ancora nessuno. Toccò il tavolo, quindi guardò nervoso l’uomo, che invece se ne stava immobile davanti a lui, impassibile.
Solo allora scattò in piedi e si gettò verso la porta. La spalancò, si fiondò nella stanza, ma si paralizzò a metà corsa. Fu per l’odore, prima di tutto. Metallico, inconfondibile, così simile a quello dell’acciaio. Del resto, non c’è lama senza sangue, e in quella stanza ce n’era molto. Lo vide bagnargli i piedi. A terra due corpi, quello del suo schiavo prediletto, un Thyrren che era la persona di cui più si fidava in quella casa, e quello di uno dei Rewadir che fungevano da guardie. Sopra di loro c’era un’altra figura, minuta. Stringeva tra le mani due lame ricurve, dai riflessi rossastri, due walud, come quelli della sua guardia del corpo, eppure diversi. La sua conoscenza gli fece capire all’istante che erano armi uniche. Ma a impugnarle era una bambina. Aveva i capelli bianchi, e gli occhi rossi, e lo guardava con lo stesso sguardo privo d’emozione dell’uomo che gli aveva portato la testa del suo nemico.
Ricol si girò di scatto e si trovò dietro l’uomo, che ora sorrideva tranquillo. «Credi che non sapessi che i tuoi Rewadir aspettavano solo un tuo ordine? Perché è sempre meglio lasciare poche tracce, in lavori del genere.»
Ricol capì all’istante. «Ti darò tutto quel che vuoi» disse gettando un’occhiata alla bambina, che però rimaneva immobile.
«Certo, lo so… non sei affatto vendicativo, giusto? La testa di là lo prova molto bene.» L’uomo ridacchiò. «Sai qual è il tuo problema, Ricol? Che io e te siamo uguali. Hai fatto bene a cercare di farmi fuori. Sono un testimone scomodo. Per altro, sono un signor nessuno, no? Partorito dal nulla e che dunque al nulla deve tornare. Eccolo il tuo errore. Io non sono nessuno.»
L’uomo estrasse la sua lama, e Ricol sussultò, facendosi indietro. «Ma tu che cosa ci ricavi dall’uccidermi? Non ti sto minacciando… hai già messo fuori combattimento i miei uomini…»
Ricol si bloccò. Dietro di lui sentì qualcosa pungergli la schiena e al tempo stesso bruciargliela. Era una delle lame della bambina, premuta contro di lui.
L’uomo si fermò, il pugnale puntato contro il suo petto. «Tu pensi giustamente che il potere sia più importante anche dei soldi. È grazie al potere che sei dove sei, e per affermarlo mi hai fatto ammazzare Pacorras. Ma domani, se io ti lasciassi vivere, la storia di quel che è accaduto qua dentro si diffonderebbe, e tutti saprebbero che sei stato giocato da un sicario qualsiasi. E che si direbbe allora di te? No, tu devi uccidermi. E a questo io posso rispondere in un solo modo.»
Ricol congiunse le mani. «Ti supplico, io ti giuro che…»
Non riuscì a finire. Lo fecero entrambi, contemporaneamente; la bambina con uno dei suoi walud e l’uomo con il pugnale. Lo colpirono pressoché all’unisono, la bocca gli si riempì di sangue e ogni parola si spense in gola. Quando toccò terra, era già morto.
Acrab pulì con calma il pugnale, e Myra fece altrettanto. Si guardarono, si sorrisero.
«Prendi tutto e andiamocene.»
Il deserto li accolse quieto e gelido. Sotto la luce della luna, le colline sembravano brillare. Pareva di stare in un panorama alieno e bellissimo. Myra lo guardò incantata e quasi dimenticò il freddo che la faceva tremare e battere i denti. Poi sentì qualcosa pesarle sulle spalle.
«Muoviti, dobbiamo raggiungere l’accampamento, o ti prenderai un malanno.»
Acrab le aveva messo sulle spalle il suo mantello e adesso indossava solo la casacca. Myra provò a protestare, ma lui si girò e si avviò. Solo, stagliato contro le colline lucenti, era ancor più del solito simile a un re o un dio. Gli si mise in scia, come sempre, fiduciosa e obbediente.
L’accampamento era una semplice tenda, presso la quale Acrab accese all’istante un fuoco, usando la Mistura. Non riprese il mantello neppure una volta che si furono seduti.
«Ma io adesso sto bene…» protestò Myra con la sua voce spezzata. Era un anno che aveva ricominciato a parlare, ma lo faceva ancora a fatica, e ormai era pressoché certa che la sua voce non sarebbe mai più ritornata normale.
«E io non ho freddo» disse lui, aprendo le due casse che si erano portati dietro e contando i soldi.
Myra lo guardò, mentre la luce del fuoco, riflessa dalle monete, gli disegnava sul volto ombre e riflessi.
Lui dovette sentire il suo sguardo addosso e alzò gli occhi verso di lei. «Tutto bene?»
Myra arrossì e si limitò ad annuire.
«Hai avuto problemi con quello che abbiamo fatto?»
Lei scosse la testa. «È stato più facile del previsto…»
«Non sto dicendo questo. Pensi che sia sbagliato?»
Myra non sapeva cosa rispondere. Da tre anni a quella parte aveva smesso di farsi domande. Seguiva Acrab come un cane segue il padrone, perché in un certo senso lei gli apparteneva. Lui l’aveva salvata e aveva vendicato la morte di suo padre.
«Myra, pensaci» insistette Acrab davanti al suo silenzio. «È un problema lavorare con me?»
Lei esitò ancora solo un istante, poi lo guardò decisa. «Io faccio tutto quello che mi chiedi, perché è giusto così.»
Acrab le rivolse un sorriso triste. «Io non voglio che tu mi segua perché devi.»
«Ma non lo faccio per questo!» insorse lei, anche se in realtà lo seguiva perché doveva, perché lo amava, perché per lei era tutto, ma non capiva quale fosse il problema.
«Lo vedi questo deserto?» disse lui d’un tratto indicandolo con un braccio. «Da tempo la mia vita è così. Un’enorme piana desolata in cui ci sono solo io. Tutte le persone che mi sono state intorno sono andate e venute, e per me sono state solo strumenti. Come Ricol, o Pacorras. Ma tu sei diversa.» La guardò con una tale intensità che Myra si sentì quasi nuda al suo cospetto. «Io ho bisogno di qualcuno che mi stia accanto davvero. Per questo devi dirmi la verità: è stato un problema per te uccidere quelle guardie?»
Myra ci pensò, perché sapeva che era importante, che non c’era ritorno, che il suo rapporto con Acrab si decideva lì, sotto quella luna e in quella distesa ghiacciata. «No. Hai fatto ciò che dovevi. Non avevi altra scelta. E io sono contenta di aiutarti, perché voglio quello che vuoi tu: un mondo diverso e più giusto.»
Acrab sorrise di nuovo, ma ancora c’era un’ombra di tristezza. «Starai con me, sempre?» La sua voce sembrava incrinata, venata di una disperazione che Myra, con i suoi tredici anni, sapeva riconoscere solo in parte.
«Certo, fino alla morte» disse lei senza pensarci neppure un istante.
Acrab si tirò su. L’incertezza e il dolore erano scomparsi dal suo volto. Era tornato quello di sempre, lucido e imperturbabile. Per Myra invece era cambiato tutto. In quel momento aveva stretto un patto, come quella sera vicino al canale, quando l’aveva baciato dopo che lui aveva rischiato la vita per vendicare suo padre. Il loro legame adesso era ancora più saldo, e le parole da lei pronunciate avevano la forza di un vincolo di sangue. E del resto, nel sangue si muovevano, e dal sangue lei proveniva.
“Niente mi dividerà mai da lui” pensò stringendo i pugni. “Io e lui, per sempre.”