Gli uomini sono come le lavatrici
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Gli uomini sono come le lavatrici

  1. 216 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Informazioni su questo libro

Che sapore ha l'amore?

Quando Lara lascia la provincia di Napoli in cui è cresciuta per iniziare una nuova vita nella capitale, per lei l'amore ha il sapore dei panini imburrati che sua madre le preparava la mattina, prima di andare a scuola. A Roma, in quella città dove ciò che a Napoli è folklore diventa degrado, Lara però scopre che l'amore può avere un sapore molto più amaro di quanto avrebbe mai immaginato.

Ma questa è solo la prima delle sue trasformazioni: da Napoli, città autentica, si è trasferita a Roma, città della finzione, e ora il suo destino la porta a Milano, la città dove lavorano tutti, ma che a lei apre le sue porte segrete, guidandola alla scoperta del vero sapore dell'amore. E ora ha capito che ciò di cui si vergognava da piccola di fronte alle sue amiche lì è di gran moda. È cool. Come quel panino fatto in casa che sua mamma le preparava infagottato nel sacchetto del pane e che lei nascondeva nello zainetto con timidezza di fronte alle merendine sintetiche e cellophanate ostentate dalle sue compagne. O glamour, come la sua fedele amica, una buona lavatrice, che fa il bucato e non ti tradisce mai.

E allora ecco che il suo cuore si trasforma nella centrifuga di una lavatrice, in un groviglio di capelli, nella vertigine di un giro su un ottovolante che non si ferma mai.

Caterina Balivo ci sorprende inventando un personaggio che molto le somiglia: Lara, la magnetica e spiritosa ragazza napoletana che spesso parla troppo, che dice sempre la verità e che taglia i vestiti dei suoi fidanzati se scopre che la tradiscono. Guarda i loro cellulari, li avverte. Prima.

Nelle pagine di questo romanzo d'amore si ride e ci si commuove. E, naturalmente, si sogna. C'è una lei. Ci sono le amiche. E poi diversi lui. Intese fulminee e tanti ostacoli pronti a dividerli. Tra ragioni e sentimenti, buoni o cattivi che siano.

L'amore finisce, gli uomini si cambiano, ma le lavatrici buone no. Le lavatrici buone sono come i diamanti: per sempre. O, se non proprio come i diamanti, sono come i fidanzati: bisogna tenersele finché durano.

Domande frequenti

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2018
Print ISBN
9788804701743
eBook ISBN
9788852089961
Parte prima

DA NAPOLI A ROMA

1

Quando dalla provincia di Napoli in cui ero nata me ne venni a Roma in cerca di fortuna e di una vita nuova, portai nel mio cuore una cosa sopra ogni altra: il sapore dei panini imburrati che mia madre mi infilava nello zaino prima che andassi a scuola.
Il pane era fatto in casa col lievito madre, e sapeva di famiglia. Mia mamma diceva che quel lievito era il figlio maschio che non aveva mai avuto, e noi tre sorelle ridevamo, pensando a come sarebbe stato questo fratellino immaginario.
Mia madre, nella nostra piccola cucina piena di sole, imburrava due fette di pane e poi ci spalmava sopra della confettura di albicocche, altre volte ci infilava il prosciutto crudo tagliato fresco dal macellaio sotto casa. Il suo aroma si sprigionava non appena aprivo lo zaino per prendere i quaderni, e non vedevo l’ora che arrivasse la ricreazione per poterci dare un morso.
Qualcuna delle mie compagne più ricche, sfoggiando una merendina confezionata, mi prendeva in giro. Ridacchiava con le altre, si davano di gomito, ma a me non importava. Anzi, ero certa che in molte mi invidiassero, perché non avevano una mamma che dedicava loro tutto quel tempo per preparare la merenda.
Non portai molto altro: andarmene via era il mio sogno da quando ero adolescente. Non volevo neppure che mia madre mi mandasse quei pacchi stracolmi di pasta, barattoli di salsa, salumi sottovuoto e alla fine riempiti di noci che normalmente i genitori inviano a tutti i figli andati a lavorare fuorisede.
Venendomene a Roma, in quella città dove tutti ti fanno sempre sentire inadeguato, era come se avessi voluto cancellare le mie origini. Era raro pure che mi uscisse dalla bocca qualche parola in dialetto. Anzi, mi ero perfino presa qualche lezione privata di dizione per rendere il mio accento più internazionale.
La mia non era una famiglia ricca, non lo era mai stata, e non avrebbe potuto permettersi di pagarmi gli studi a Roma come avrei sognato, così per prima cosa mi diedi da fare per arrivare alla laurea all’Orientale di Napoli. Poi decisi di fare il salto e prendere un master in Comunicazione in un’università della capitale.
Quando non frequentavo le lezioni davo ripetizioni di inglese a studenti delle scuole superiori, per poi riprendere a studiare fino a notte fonda. Alla fine ebbi il mio master e subito dopo trovai lavoro come addetta stampa in una casa cinematografica indipendente, la Mov(i)e-On.
D’improvviso la provincia di Napoli mi parve lontanissima.
Mi si era aperto un mondo straordinario, fatto di conoscenze che per una ragazza della provincia sembravano inarrivabili, di un altro pianeta. Quando si lavora per il cinema è così: la macchina delle meraviglie funziona anche al di qua del grande schermo. Ricevetti inviti all’estero – Parigi, Londra, New York – o su yacht ancorati nei posti più esclusivi, ma il più delle volte rifiutai: il lavoro mi assorbiva completamente, e avevo un futuro da costruirmi, centimetro per centimetro.
Le mie radici – per quanto cercassi di metterle a tacere – mi dicevano che era meglio non lasciarmi incantare dal luccichio di quella vita incantata: dovevo continuare a lavorare col massimo dell’impegno, altrimenti tutto quello che avevo conquistato si sarebbe dissolto in un battito di ciglia.
Però vivere quel sogno mi elettrizzava: incontrare attori e registi, parlare con i giornalisti, organizzare le interviste… era come se fossi nata per fare esattamente quello.
E fu proprio grazie al mio lavoro che conobbi Luca.

2

Eravamo nello studio 5 di Cinecittà.
Era lì che avevo organizzato la prima di un documentario realizzato dalla casa di produzione per cui lavoravo. Il tema: la persecuzione degli albini in Africa. Motivo per cui gli invitati erano i più disparati: c’erano giornalisti, attori, registi, intellettuali, scrittori, ma anche diversi politici e diplomatici.
Tutti grandi nomi, che solitamente non si vedono bazzicare nel mondo del cinema.
Io, che ormai organizzavo presentazioni e conferenze a occhi chiusi, ero tesa da morire. La cartella stampa era spessa quasi quanto quella dell’intera Mostra internazionale del cinema di Venezia, e ancora mi sembrava di non aver fatto abbastanza. Non facevo che ripetermi: “Lara, calmati, sorridi… andrà tutto bene”.
Prima di venire lì a Cinecittà ero passata dal parrucchiere. Per quell’occasione volevo essere perfetta, e se c’era qualcosa in cui, senza l’aiuto di un bravo professionista, non ero perfetta erano proprio i miei capelli.
Erano sempre stati la mia ossessione, fin da piccola.
La verità era che avrei voluto nascere con i capelli biondi e gli occhi azzurri, esattamente come Serena, la figlia di una nostra vicina di casa che io, la prima volta che ci incontrammo, scambiai per Barbara Snellenburg, la biondina di cui si innamorava Raoul Bova in Piccolo grande amore.
Una volta a mia madre gliel’avevo detto: «Mamma, perché non mi hai fatto con i capelli biondi come Serena?». Lei non aveva i capelli biondi, anzi, aveva dei capelli neri e ricci, con però due splendidi occhi azzurri.
«Lara, ma tu sei molto più bella di Serena!» mi aveva risposto lei.
«Lo dici solo perché sono tua figlia… almeno non potevi darmi i tuoi occhi azzurri?»
Lei mi aveva sorriso e si era passata l’indice lungo il suo grosso naso aquilino. Mi aveva detto: «Pensa se ti davo anche il mio naso!». Lo diceva sempre: quando era rimasta incinta di me, e poi delle mie sorelle Marianna e Costanza, quello era stato il suo più grande terrore, che noi potessimo ereditare quel brutto naso.
Certo, le dava carattere, non la faceva sembrare una donna fra tante, ma era innegabilmente brutto.
Le avevo sorriso anch’io, e dolcemente le avevo detto: «Mamma, se un giorno avrò i soldi ti pagherò la plastica al naso».
Avevo sentito di tante donne dello spettacolo che si erano rifatte il naso. Perché non poteva rifarselo anche mia madre?
«Ma va’, ormai ci sono abituata!» aveva riso lei.
E io, col tempo, mi ero invece abituata ai miei capelli neri. A patto, però, che fossero sempre in ordine!
È per questo che, anche da ragazzina, ogni settimana volevo essere portata da Emilio, il parrucchiere del paese. Da lui non si poteva prendere appuntamento, così eri costretta a fare la fila come alle poste. Mentre le altre signore, mia madre compresa, leggevano riviste di gossip o fotoromanzi, io improvvisavo piccoli spettacoli di ballo o di canto al centro del locale.
Tutto questo nonostante Marianna mi supplicasse di fermarmi: in quei momenti sarebbe volentieri sprofondata sottoterra per sfuggire alla vergogna di avere una sorella maggiore così esibizionista.
I lunghi pomeriggi da Emilio finirono quando, costretta a economizzare il tempo a mia disposizione per divertirmi con le amiche – papà, infatti, voleva che uscissi solo il sabato perché la domenica era il giorno da dedicare alla famiglia –, mi trovai una parrucchiera che veniva direttamente a casa.
Così, appena dopo mangiato, ci piazzavamo in salotto, e mentre io guardavo la televisione lei – che aveva pochi anni più di me e masticava perennemente una Big Babol rosa al gusto “tuttifrutti” – mi sistemava i capelli.
Non durò a lungo, perché ben presto si sposò con un carabiniere di Bra e se ne andò al Nord, non prima però di avermi accontentata in una follia: avere il frangione come Brenda di Beverly Hills 90210. Peccato che i miei capelli fossero sottili e crespi, e ogni mattina, nonostante ci passassi la spazzola con un impegno che forse non mettevo neppure nello studio, quella frangia veniva tutta storta.
Quel giorno, invece, mentre arrivavo a Cinecittà per la proiezione stampa, ero perfetta. Sì, me lo ripetevo ogni trenta secondi: “Lara, sei perfetta, perfetta, perfetta”.
Tranquilla di sicuro no, ma perlomeno perfetta sì.
Più teso ancora di me era il mio capo, Riccardo Paonessa, il fondatore della casa di produzione. Quello era un film importante per noi, e lui sperava che si aggiudicasse qualche premio. Era essenziale, insomma, che si partisse col piede giusto. Ecco perché speravo con tutto il cuore che la smettess...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Gli uomini sono come le lavatrici
  4. Preludio
  5. Parte prima. Da Napoli a Roma
  6. Parte seconda. Da Roma a Milano
  7. Epilogo
  8. Ringraziamenti
  9. Copyright