Theodor Herzl
Theodor Herzl, critico letterario a Vienna, era considerato «straordinariamente bello», con gli occhi «a mandorla, malinconiche folte ciglia nere» e il profilo di «un imperatore assiro». Padre di tre figli nati da un matrimonio infelice, era un ebreo perfettamente integrato che portava colletti alti e redingote. «Non faceva parte del popolo» e aveva pochi legami con gli ebrei trasandati e riccioluti degli shtetl, i quartieri e villaggi di lingua e cultura ebraica dell’Europa orientale. Aveva studiato da avvocato, non parlava ebraico o yiddish, a casa faceva l’albero di Natale e non si era curato di circoncidere suo figlio. Tuttavia, i pogrom russi del 1881 lo sconvolsero profondamente. Quando, nel 1895, Vienna elesse alla carica di sindaco il demagogo antisemita Karl Lueger, Herzl scrisse: «Fra gli ebrei regna la disperazione». Quello stesso anno andò a Parigi a fare la cronaca dell’affare Dreyfus, un ufficiale ebreo innocente che era stato accusato ingiustamente di essere una spia tedesca, e assisté alle manifestazioni della folla parigina che urlava «Mort aux Juifs» (Morte agli ebrei) nel paese che li aveva emancipati. Questo rafforzò la sua convinzione che l’integrazione non soltanto era fallita, ma stava provocando anche una recrudescenza del sentimento antisemita. Predisse persino che un giorno l’antisemitismo sarebbe stato legalizzato in Germania.
Herzl concluse che gli ebrei non sarebbero mai stati al sicuro fuori dalla loro patria. All’inizio, quest’uomo di lettere diviso tra pragmatismo e utopia, sognava una repubblica aristocratica tedesca, una Venezia ebraica governata da un senato, con un Rothschild sul trono principesco di doge e lui come cancelliere. La sua visione era laica: i sommi sacerdoti «indosseranno ricchi paramenti»; l’esercito avrebbe sfoggiato corazzieri con pettorali d’argento; i cittadini ebrei del suo tempo avrebbero giocato a cricket e a tennis in una Gerusalemme moderna. I Rothschild, che inizialmente vedevano con scetticismo qualsiasi Stato ebraico, respinsero gli approcci di Herzl, ma ben presto queste prime annotazioni maturarono in qualcosa di più pratico. «La Palestina è la nostra indimenticabile patria storica» proclamò nello Stato ebraico, pubblicato nel febbraio 1896. «I Maccabei risorgeranno. Vivremo finalmente da uomini liberi sul nostro suolo e moriremo pacificamente nelle nostre case.»
Non c’era nulla di nuovo nel sionismo: persino la parola era stata già coniata nel 1890, ma Herzl diede espressione e organizzazione politica a un sentimento molto antico. Fin dai tempi di re Davide, e dell’esilio babilonese in particolare, gli ebrei avevano immaginato la loro stessa esistenza in funzione del rapporto con Gerusalemme. Gli ebrei pregavano rivolti verso la Città Santa, a Pasqua si auguravano a vicenda «l’anno prossimo a Gerusalemme», commemoravano il Tempio crollato rompendo un bicchiere nel giorno delle nozze e lasciando un angolo delle loro case del tutto disadorno. Ci andavano in pellegrinaggio, desideravano esservi sepolti e pregavano intorno ai muri del Tempio ogni volta che potevano. Sebbene subissero spietate persecuzioni, continuavano a vivere a Gerusalemme e l’abbandonavano solo quando ne venivano banditi sotto minaccia di morte.
Il nuovo nazionalismo europeo provocò inevitabilmente un’ostilità di tipo razziale nei confronti di questo popolo sovrannazionale e cosmopolita, ma era inevitabile che quello stesso nazionalismo, insieme alla libertà conquistata dalla Rivoluzione francese, ispirasse contemporaneamente anche gli ebrei. Il principe Potëmkin, l’imperatore Napoleone III e il presidente degli Stati Uniti John Adams credevano tutti nel ritorno degli ebrei a Gerusalemme al pari dei nazionalisti polacchi e italiani, e naturalmente dei sionisti cristiani in America e Gran Bretagna. I pionieri sionisti erano però rabbini ortodossi che vedevano quel «ritorno» alla luce delle aspettative messianiche. Nel 1836, un rabbino ashkenazita che viveva in Prussia, Zvi Hirsch Kalischer, si rivolse ai Rothschild e ai Montefiore per costituire un fondo per la creazione di una nazione ebraica, e in seguito scrisse il libro Drishat Sion (Cercando Sion). Dopo l’«accusa del sangue» di Damasco, Rabbi Yehuda Hai Alchelai, un rabbino sefardita di Sarajevo, avanzò la proposta che gli ebrei del mondo islamico eleggessero propri capi e acquistassero terre in Palestina. Nel 1862, Moses Höss, un amico di Karl Marx, predisse – nello scritto Roma e Gerusalemme, che proponeva la realizzazione di una forma di socialismo ebraico in Palestina – che il nazionalismo avrebbe portato a un antisemitismo razziale. Tuttavia, furono i pogrom russi ad avere un ruolo decisivo.
«Dobbiamo riaffermarci come una nazione viva» scrisse Leo Pinsker, medico di Odessa, in Autoemancipazione, contemporaneamente a Herzl. Ispirò un movimento di ebrei russi, Hovevei Zion (Amanti di Sion), inteso a sviluppare nuovi insediamenti agricoli in Palestina. Sebbene molti di loro fossero laici, «il nostro ebraismo e il nostro sionismo erano intercambiabili» spiegò un giovane adepto, Chaim Weizmann. Nel 1878 gli ebrei palestinesi avevano fondato sulla costa il nucleo urbano di Petah Tikva (Porta della speranza), ma ora persino i Rothschild, con il barone francese Edmond de Rothschild, iniziarono a finanziare villaggi agricoli come Rishon LeZion (La prima di Sion) per gli immigrati russi: in totale avrebbe donato la principesca somma di 6,6 milioni di sterline. Analogamente a Montefiore, provò a comprare il Muro di Gerusalemme. Nel 1887 il mufti, Mustafa al-Husayni, accettò di trattare, ma poi non se ne fece nulla. Quando Rothschild ci riprovò, nel 1897, lo sceicco al-Haram Husayni lo bloccò.
Nel 1883, molto prima che uscisse il libro di Herzl, arrivò in Palestina la prima ondata di 25.000 immigrati ebrei. La maggior parte di loro veniva dalla Russia. Ma, tra il 1870 e il 1880, Sion attrasse anche i persiani, e gli yemeniti nel decennio successivo. Tendevano a vivere insieme nelle loro comunità: gli ebrei di Buchara (Uzbekistan), fra cui la famiglia dei gioiellieri Moussaieff che avevano tagliato i diamanti per Gengis Khan, crearono sulla base di un progetto molto accurato il loro quartiere a Gerusalemme, con residenze grandiose, spesso in stile neogotico, neorinascimentale, talvolta moresco, che richiamavano quelle delle città dell’Asia centrale.a
Nell’agosto 1897 Herzl presiedette il primo Congresso sionista a Basilea, al termine del quale si pavoneggiò nel suo diario: «L’état c’est moi. A Basilea, ho fondato lo Stato ebraico. Se oggi lo proclamassi a voce alta, susciterei l’ilarità generale. Forse fra cinque anni, e sicuramente fra cinquanta, lo sapranno tutti». E così fu, Herzl si sbagliava solo di cinque anni. Divenne una specie inedita di politico e pubblicista insieme, che viaggiava lungo le nuove linee ferroviarie europee per sollecitare l’appoggio di re, ministri e baroni della stampa. La sua instancabile energia aggravava e sfidava un cuore debole, che minacciava di ucciderlo da un momento all’altro.
Herzl credeva in un sionismo che non fosse costruito dal basso, dai coloni, ma concesso dagli imperatori e finanziato dai plutocrati. All’inizio i Rothschild e i Montefiore disprezzavano il sionismo, anche se i primi congressi si fregiarono della presenza di sir Francis Montefiore, nipote di Moses, «un gentiluomo inglese piuttosto fatuo» che «nella calda estate svizzera portava guanti bianchi perché doveva stringere tante mani». Tuttavia, Herzl aveva bisogno di un potentato che intervenisse presso il sultano. Decise che il suo Stato ebraico doveva parlare tedesco, e quindi si rivolse al perfetto esempio di monarca moderno, il Kaiser.
Guglielmo II stava programmando un tour in Oriente con l’intenzione di incontrare il sultano e proseguire poi per Gerusalemme, dove avrebbe presenziato alla dedicazione di una nuova chiesa costruita accanto al Sepolcro, sul terreno donato da suo padre Federico III. Ma c’era dell’altro: Guglielmo si vantava dei suoi rapporti diplomatici con il sultano e si considerava un pellegrino protestante nei luoghi santi. E soprattutto sperava di offrire la protezione tedesca agli Ottomani, di promuovere la nuova Germania e contrastare l’influenza britannica.
«Andrò dal Kaiser tedesco [a dire]: “Lasciate andare la nostra gente”» stabilì Herzl, e decise di basare il suo Stato su quella grande potenza, «forte, morale, splendidamente governata e rigidamente organizzata. Attraverso il sionismo, gli ebrei potranno di nuovo amare questa Germania».
Guglielmo: i parassiti del mio impero
Il Kaiser era un paladino degli ebrei quanto mai improbabile. Quando apprese che alcuni andavano a vivere in Argentina, disse: «Oh, se soltanto potessimo inviarci anche i nostri»; e quando venne a sapere del sionismo di Herzl, scrisse: «Sono molto favorevole al trasferimento dei Mauschels [chi parla yiddish, gli ebrei] in Palestina. Prima si levano di torno, meglio è!». Sebbene incontrasse regolarmente gli industriali ebrei in Germania e fosse diventato amico dell’armatore ebreo Albert Ballin, in fondo al cuore era un antisemita che lanciava invettive contro l’idra venefica del capitalismo ebraico. Gli ebrei erano i «parassiti del mio impero» che «distorcevano e corrompevano» la Germania. Anni dopo, da monarca deposto, avrebbe proposto il loro sterminio in massa con il gas. Eppure, Herzl sentiva che gli antisemiti stavano diventando «i nostri amici più fidati».
Doveva perciò introdursi alla corte del Kaiser. Dapprima riuscì a incontrare il granduca Federico di Baden, lo zio di Guglielmo, che era molto influente e interessato a ritrovare l’Arca dell’Alleanza. Baden scrisse al nipote, che a sua volta chiese a Filippo, principe di Eulenburg, d’informarlo sul programma sionista. Eulenburg, ambasciatore a Vienna e fine mente politica, era il migliore amico del Kaiser ed era «affascinato» dalla parlantina di Herzl: il sionismo era un modo per estendere il potere tedesco. Il Kaiser convenne che «l’energia, la creatività e l’efficienza della tribù di Sem potevano essere indirizzate verso scopi più nobili dello sfruttamento sistematico dei cristiani». Guglielmo, come quasi tutta la classe dirigente dell’epoca, credeva che gli ebrei esercitassero un potere mistico sulle vicende del mondo:
Il nostro caro Dio sa molto meglio di noi che gli ebrei hanno ucciso il Nostro Salvatore, e lui li ha puniti come meritavano. Non si dovrebbe mai dimenticare, dato l’immenso e pericolosissimo potere rappresentato dal capitale internazionale ebraico, che sarebbe un enorme vantaggio per la Germania se gli ebrei le fossero riconoscenti.
Ma ecco una buona notizia per Herzl: «Ovunque l’idra del più orrendo antisemitismo sta levando la sua testa spaventosa e gli ebrei terrorizzati cercano un protettore. Bene, allora intercederò presso il sultano». Herzl era in estasi: «Meraviglioso, meraviglioso».
L’11 ottobre 1898 il Kaiser e la Kaiserin s’imbarcarono sul treno imperiale con un seguito formato dal ministro degli Esteri, venti membri della corte, due medici e ottanta fra cameriere, servitori e guardie del corpo. Ansioso d’impressionare il mondo, il Kaiser aveva disegnato personalmente una speciale uniforme bianca e grigia con un lungo velo bianco in stile crociato. Il 13 ottobre, Herzl e quattro colleghi sionisti partirono per Vienna sull’Orient Express: nel loro guardaroba c’era il frac, ma anche l’elmo coloniale e la tenuta da safari.
A Istanbul, Guglielmo ricevette finalmente il sionista, che giudicò «un idealista con una mentalità aristocratica, abile, molto intelligente, con occhi espressivi». Il Kaiser disse che avrebbe appoggiato Herzl perché «ci sono usurai all’opera. Se questa gente si stabilisse nelle colonie, potrebbe essere più utile». Herzl protestò contro questa calunnia. Il Kaiser domandò che cosa avrebbe dovuto chiedere al sultano. «Una compagnia qualificata sotto la protezione della Germania» rispose Herzl. Il Kaiser lo invitò a incontrarlo a Gerusalemme.
Herzl rimase meravigliato. L’Hohenzollern incarnava il potere imperiale con «i suoi grandi occhi blu, il suo bel volto serio, franco, gioviale eppure ardito», ma la realtà era diversa. Guglielmo era sicuramente un uomo intelligente, dinamico e molto preparato, ma era anche così irrequieto e imprevedibile che persino Eulenburg temeva fosse malato di mente. Dopo aver rimosso il principe Bismarck dalla carica di cancelliere, assunse il controllo della politica tedesca, ma era troppo instabile per sostenerne il peso. La sua condotta diplomatica era disastrosa; le note scritte ai suoi ministri così assurde da dover essere chiuse in cassaforte; nei discorsi pubblici, spesso imbarazzanti, sempre tesi a destare allarme e preoccupazione, incoraggiava le truppe a sparare contro i lavoratori tedeschi o a massacrare i nemici come gli unni.b Già nel 1898 Guglielmo era considerato un mezzo buffone e un mezzo guerrafondaio.
Nondimeno propose il piano sionista ad Abdul Hamid. Il sultano lo respinse con fermezza, dicendo a sua figlia: «Gli ebrei possono risparmiare i loro milioni. Quando il mio impero verrà spartito, forse potranno avere la Palestina gratis. Ma solo il nostro cadavere può essere diviso». Dopodiché Guglielmo, impressionato da quell’islamico vigore, non s’interessò più a Herzl.1
Alle ore 15 del 29 ottobre 1898 il Kaiser passò attraverso una breccia aperta appositamente nei pressi della porta di Giaffa ed entrò a Gerusalemme su un destriero bianco.
Il Kaiser e Herzl: l’ultimo crociato e il primo sionista
Il Kaiser sfoggiava l’uniforme bianca con il lungo velo intessuto d’oro e scintillante sotto il sole, che scendeva dall’elmo a chiodo sormontato da un’aquila dorata e brunita. Era scortato da un reparto di giganteschi ussari prussiani con elmi d’acciaio, che sventolavano stendardi in stile crociato, e dai lancieri del sultano in gilè rossi, pantaloni azzurri e turbanti verdi, armati di lance. La Kaiserin, in abito di seta fantasia con fascia alla vita e cappello di paglia, lo seguiva in carrozza accompagnata da due dame d’onore.
Herzl assisté alla parata del Kaiser da un albergo affollato di ufficiali tedeschi. Guglielmo aveva capito che Gerusalemme era il palcoscenico ideale per promuovere il suo impero nuovo di zecca, ma non tutti ne rimasero favorevolmente colpiti: l’imperatrice madre russa giudicò l’esibizione «rivoltante, assolutamente ridicola e disgustosa!». Il Kaiser fu il primo capo di Stato a designare un fotografo ufficiale per una visita diplomatica. L’uniforme da crociato e la pattuglia di fotografi rivelarono quelle che Eulenburg chiamava «le due nature totalmente diverse del Kaiser: quella cavalleresca, che richiamava alla mente i giorni migliori del Medioevo, e quella moderna».
La folla, riferì il «New York Times», era «vestita con gli abiti della festa, gli uomini di città in turbante bianco e tuniche a righe multicolori, le mogli degli ufficiali dell’esercito turco avvolte in magnifiche milaye di seta, i contadini abbienti in morbidi caffettani rosso fiamma», mentre i beduini, su splendidi cavalli, «portavano robusti stivaloni rossi, una cintura di cuoio sopra una tunica che esibiva un intero arsenale di armi leggere» e una kefiah. I loro sceicch...