Il rumore del mondo
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Il rumore del mondo

  1. 756 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Il rumore del mondo

Informazioni su questo libro

FINALISTA PREMIO STREGA 2019

L'ufficiale piemontese Prospero Carlo Carando di Vignon, di stanza a Londra, sposa Anne Bacon, figlia di un ricco mercante di seta. Quando, dopo essere stata vittima del vaiolo, arriva a Torino, Anne è molto diversa.

La vita coniugale si annuncia come un piccolo inferno domestico, ma il suocero Casimiro la invita a occuparsi della proprietà del Mandrone, il cui futuro soltanto a lui - conservatore di ferro - sembra stare a cuore. Tra i due si stabilisce un'imprevedibile complicità e Anne matura amore e dedizione per la vita appartata e operosa che vi conduce. La storia della famiglia Vignon si intreccia ai fili dello spirito del tempo, e non di meno a quelli della seta.

Anne Bacon scopre come conquistarsi un posto nella storia di un paese non ancora nato, di un orizzonte ideale che infiamma il mondo. Progressisti e conservatori, al di là degli schieramenti politici, si trovano davanti alla necessità di rispondere al cambiamento e lo fanno agendo - nell'economia, nel costume, nella morale, nella cultura. E l'Italia appare, vista da lontano (complici anime migranti come Anne, e il suo entourage femminile), vista come utopia e come sfida.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2018
Print ISBN
9788804705000
eBook ISBN
9788852089404
Parte seconda

IL RUMORE DEL SECOLO

18

La perfezione meccanica

Padre e figlio erano in biblioteca.
Prospero stava sfogliando la “Gazzetta Piemontese”, senza posare gli occhi su nessuna notizia in particolare, troppo di cattivo umore anche per leggere. Si sentiva la testa e il corpo avvolti da un ronzio frastornante, sgradevole. Anne era di sopra, a cambiarsi.
Casimiro, seduto allo scrittoio invaso di carte, lo teneva d’occhio. L’arrivo di sua moglie, pensava, lo ha incupito. La ragazza non era più una bellezza, no. Lui aveva sempre la solita aria curatissima. Ma guarda che tipo, pensava. L’Accademia gli ha fatto bene, eccome, ha trasformato un ragazzino smunto con gli occhi infossati in un uomo atletico e ben fatto. Adele, invece, era terrorizzata che le nuotate nel Po, gli addestramenti e la scherma lo avrebbero ucciso. “Eh, cara mia” le avrebbe detto, “guardalo il tuo ragazzino, guarda un po’ cosa ne ho fatto. Eh? Che dici? Del nostro ranocchio ho fatto un principe, non ti sembra?”
L’ultimo litigio era stato violento. Anzi. Non era stato neanche un litigio, perché lei non aveva detto niente. O almeno, niente di diverso da quello che diceva sempre, che lui era noioso, all’antica, ostinato. Lui, invece, le aveva detto che non era capace di fare figli. Che era inutile, come moglie e come donna. Che l’aveva sposata sperando di avere almeno due o tre maschi e qualche femmina, invece era stata capace solo di un figlio di cui nessun padre avrebbe potuto inorgoglirsi, un affare rachitico e piagnucoloso. Era stato ingiusto. E cattivo. Lei lo aveva guardato in un modo difficile da dimenticare. Si era domandato un paio di volte se se ne fosse andata per quello, poi aveva smesso – bruciava di più il pensiero che, lasciandolo, lo aveva coperto di ridicolo. Eh sì, non poteva negare di aver detto cattiverie ignobili, ma lei se le era meritate; primo: per la sua petulanza e quell’aria perennemente lagnosa; secondo: perché lo aveva piantato; terzo: per tutte le volte che lo aveva fatto sentire un imbecille antidiluviano.
E comunque è morta, pensò: pietra sopra. Guardò ancora Prospero, con la faccia affondata nel giornale. Prospero è anche suo. È di tutti e due. È un uomo, quando è allegro; è un ragazzo, quando soffre. Adele, a vederlo di malumore, se lo sarebbe stretto al petto e lo avrebbe consolato. Ma sono cose da donne, pensa, da madri.
Meglio fare finta di nulla.
Fuori dalla finestra, oltre le tende scostate di velluto cremisi, intravedeva il muro intonacato del palazzo dei marchesi Cervasco, tinteggiato di giallo carico; e pensò che aveva lo stesso colore del suo dolce preferito, la crema di zabaione. Punzecchiato dalla gola, gli si scatenò un breve gorgoglio in fondo allo stomaco: grazie al cielo, a breve sarebbe stato servito il pranzo. E non un pranzo qualunque, si rallegrò, nient’affatto. L’arrivo delle inglesi sarebbe stato celebrato, sia pure in sordina: nessun ricevimento, niente inviti, per il momento; nell’intimità di casa, tuttavia, qualche frivolezza si poteva concedere. Da quanto tempo non mangiava in maniera decente? Mesi, mesi ormai; il medico, Riberi, era un menagramo che elencava divieti con un lampo di soddisfazione – quasi di godimento – nello sguardo: niente carni rosse, niente salsicce, niente pasticci di selvaggina; pochissime uova, preferibilmente di quaglia e, al minimo sentore di gotta, minestre di semolino e decotti di ortica a volontà. Ah, ma non stasera! Aveva detto ad Angiola di mettersi d’accordo con il mastro di casa per una cena adeguata. Finalmente, pensò, una tregua a quel malinconico corteo di pietanze che dalla cucina si erano abituati a mandargli in tavola, capitanate da una minestra acquosa di porri o da un passato di zucchine senza sapore a cui seguivano altre verdure, d’accompagnamento a uno sconfortante lesso di cappone, talmente sfilacciato da far pensare che fosse stato fatto brillare da un artificiere invece che bollito in cucina.
Aveva dato ordine che non si badasse né al tempo né al denaro. Bisognava che una campionatura della cucina piemontese di Langa e di città solleticasse il palato delle inglesi, certamente stanche e affamate dopo tanti giorni di viaggio. Del resto, pensò, era una serata inaugurale, un nuovo capitolo nella vita di Prospero ammogliato.
Pesto di acciughe, peperoni di Carmagnola con la bagna caôda, cervella, fette di semolino fritto. Cos’altro aveva ordinato? Lingua di bue in gelatina. Uova moellées dorate nel pangrattato. Insalata di borlotti di Saluggia, pollastra in galantina e terrina di coniglio. Un assaggio di cappone di Morozzo ripieno di fichi e nocciole. Per finire, crema spumante al cioccolato, pesche ripiene all’amaretto, zuppa di savoiardi. Niente cucina raffinata, non in casa sua; non aveva di queste fisime, pretendere solo fonduta di tartufo o brodo di tartaruga; lesescargò, come le chiamava Angiola, gli facevano ribrezzo fin da bambino; soufflé e sformati non gli dicevano granché; aveva gusti solidamente carnivori, una bocca buona per i dolci e un palato da vini: finché gli reggeva lo stomaco e la gotta si manifestava con il placido andirivieni dei malanni di vecchiaia, non intendeva cambiarli. Si mettesse pure il cuore in pace, Riberi, di tanto in tanto si sarebbe ingozzato, come faceva in gioventù. Non osava – non in città – far arrivare in tavola la salsiccia cruda di Bra né il salame di Carrù, a tanto, no, non si sarebbe spinto. Ma una portata di Castelmagno o di Raschera prima del dolce, quella sì, l’aveva sempre pretesa, e con una cucchiaiata di miele di castagno per esaltarne il sapore.
Si sentiva nelle narici il profumo – crema pasticciera o vaniglia? – che entrava dalla finestra aperta, in corrispondenza della bottega di uno degli inquilini del pianterreno; e, sospeso in quegli effluvi paradisiaci, continuava a tenere gli occhi fissi sulla ringhiera del palazzo dei marchesi Cervasco; senza davvero vederla, nel suo trionfo di tralci di ferro battuto e spirali, ancora di gusto settecentesco. Perfino il vezzo di allacciare al centro una doppia C sormontata da una corona in lama di ferro dorata era aggraziato, gradevole allo sguardo, come molte cose di quel secolo frivolo appena trascorso; ma, per averlo visto da sempre, Casimiro non era più capace di vedere nulla e si era imbambolato come i bambini, a occhi sgranati.
Il contrasto tra la camera in penombra e la luce proveniente da fuori lo costrinse finalmente a socchiudere gli occhi e a scuotersi. Tornò a guardare Prospero. Sembrava davvero accigliato. Non senza un soffio di compiacimento, e di sollievo, disse a se stesso che il malessere che indovinava in Prospero lui l’aveva già sperimentato e digerito, non senza qualche fastidio, molti anni prima; e, nonostante gli anni passati con Adele fossero ormai poco più di una manciata se paragonati al tempo della sua vita passata, ne restava un ricordo persistente. Come l’odore di muffa, pensò, che non si riesce a estirpare mai del tutto da una camera umida. Prima di sposarsi, Adele l’aveva vista un paio di volte, sempre accompagnata dai genitori. Una ragazza pallida, immensamente timida. Gli era sembrata attraente, con una voce impostata, una cantilena che saliva e scendeva sulle vocali come in un esercizio di canto; l’insieme – voce melodiosa, occhi bassi, aspetto fragile – lo aveva compiaciuto: «Una bella trouvaille» aveva detto sua madre, e lui aveva annuito, una bella trouvaille, sì.
L’età dell’oro è durata sei, sette mesi.
Poi sono arrivati i tempi d’argento, piccoli litigi per sciocchezze, qualche muso, scaramucce che non sono ancora liti. Si discute di tutto, il salario del cuoco e il rifacimento della carrozza, l’elenco degli ospiti da invitare a pranzo e l’acquisto di un servizio da tavola di Vinovo; non c’è nulla su cui vadano d’accordo, dall’organizzazione domestica alle questioni mondane. Le opinioni contrastanti diventano un’abitudine; l’amministrazione napoleonica fa grandi cose in città, rinomina le strade, introduce la numerazione civica, l’intera città è attraversata da uno spirito che irrita Casimiro, mentre Adele ne è affascinata. La scoperta che sua moglie non ha nulla di fragile, al contrario, ha uno spirito polemico e combattivo, dapprima lo lascia sbalordito e poi lo preoccupa; nemmeno la nascita di Prospero li avvicina, anzi: l’uso piemontese di dare i neonati a balia in campagna per i primi tre o quattro anni di vita – lontani dalle madri, che così possono dedicarsi alla vita coniugale, alla beneficenza, all’organizzazione domestica e alla generazione di altri bambini – fa montare Adele su tutte le furie e finisce per allontanarli ancora di più; nel giro di due anni hanno entrambi la consapevolezza di essere stati male appaiati. Casimiro ammette con se stesso di aver commesso un madornale errore di valutazione: Adele è completamente diversa da come l’aveva immaginata. Anche se davanti agli estranei si finge con naturalezza che tutto vada per il meglio. La vita coniugale si è già annunciata per quello che sarà, un piccolo inferno domestico.
Non è solo lui ad avere la bocca amara: si è intristita anche Adele. Con la gravidanza è diventata meno graziosa; non si è appesantita, semmai si è rinsecchita, come se il suo corpo non avesse avuto risorse sufficienti a generare un altro essere umano e si fosse prosciugato nello sforzo. Le labbra sono diventate sottili, prive di colore, gli occhi si sono infossati e la dentatura è ingiallita, macchiata. Soffre di continui mal di denti. Sorride sempre meno spesso; è perché il suo sorriso la imbarazza, decide Casimiro; finge di non vedere che sua moglie ha spesso un riverbero astioso nello sguardo, una traccia di fastidio. Il tono della voce è sempre più aspro e la cortesia stenta a rivestire le frasi come dovrebbe; di tanto in tanto ci sono giornate migliori, in cui sembra riapparire la serenità delle prime settimane, quando Adele gli pareva una bellezza e la vita un nastro di raso dorato; ma sono sempre più rarefatte, isolate. Quando spariscono del tutto Casimiro si convince che, se davvero hanno creduto di vedere l’uno nell’altra qualcosa di diverso, dev’essersi trattato di un miraggio, un inganno dell’occhio.
Casimiro diede un sospiro profondo, come se i polmoni avessero bisogno di più aria del solito. Ah be’, pensò, è tutto finito, grazie a Dio. Alla fine Adele e io ci siamo abituati al pensiero che non riuscivamo a sopportarci. Ci si abitua a tutto, non c’è che dire. Ti abituerai anche tu, Prospero; al piano di sopra c’è una bestiola che ti aspetta tremando dalla testa ai piedi. Con il tuo errore ti sei procurato un bel fastidio. Non so che cosa ti abbia attratto in questo trabocchetto, ma ora ci sei dentro fino al collo e nessuno può comprenderti meglio di me, ragazzo mio; certe sciocchezze si pagano quanto il denaro prestato a usura.
Aperto il cassetto dello scrittoio, ne tirò fuori l’astuccio degli occhiali e un fascio di documenti, legati da un nastro violetto. Sciolse il nodo e strizzò gli occhi, tentando di decifrare la calligrafia minutissima in cui era redatto un rendiconto mensile; eclettico, quanto i pensieri che in quel momento gli affollavano la testa.
SOMME DA ESIGERE
Dal cavaliere di Sambuy: 884
Dal cavaliere di Santarosa: 775
Dal conte Perrone: 1200
Dal sig. Calleri: 400
Dalla tenuta di Santa Maddalena per 200 sacchi di meliga:
4000
Gagné au goffo avec le marquis de Lezane: 216
Dalle cascine di Rovasenda e Brugnolo: 898
Dal sig. Bergoglio per 20 rubbi di grano fromento: 600
Dalle Terre d’Acqua per 30 sacchi di riso: (da concordare)
LISTE PAGATE
Al sarto Pelissero: 136
À la marchande des gants: 65
Alla cereria: 89 (per la fornitura di candele)
Au joaillier Musy: 1500
À Monsieur Gauthier de Chieri, marchand de velours:
(la metà)
L’elenco continuava con sei damigiane di vino acquistate per conto della contessa di Salmour, diversi sacchi di granaglie, la vendita di dodici mucche di razza piemontese, e si concludeva con le 220 lire necessarie alla riparazione di un mantice di carrozza.
Cominciò a ricontrollare le somme, addizionando le voci su un foglietto di carta volante; perché mai aveva fatto riparare la catena dell’orologio a Musy, che gliel’aveva messa in conto per ben 1500 lire? Sambuy avrebbe pagato il debito senza ritardi, era una certezza; il marchese Lesana, invece, ci avrebbe impiegato sei mesi, forse un anno. Fatte le somme, scosse la testa e scrisse un biglietto al suo agente, Bartolomeo Ghiglia, fissandogli un appuntamento. Bisognava che la campagna rendesse di più, adesso che Prospero si era ammogliato e le spese aumentavano.
La nuora inglese aveva del suo. Una dote ricca e un padre con un patrimonio di tutto rispetto, a sentire Prospero. Un po’ di informazioni le aveva raccolte anche lui; discretamente, in casa del ministro inglese, Sir Augustus Foster. Un brav’uomo, Foster, che aveva preso dimora alla villa del Duca, sulla strada di Settimo. Albinia, Lady Foster, doveva essere stata una bellezza e a Londra conoscevano mezzo mondo; gente informata, alla moda: avevano buttato all’aria il giardino all’italiana costruito dal duca del Chiablese, un cadetto di casa Savoia, per farne un giardino all’inglese e si erano attirati un bel po’ di critiche; nessuno, a Torino, soprattutto se straniero, poteva pensare di cancellare a colpi di vanga le impronte lasciate da un membro della casa reale senza attirarsi qualche biasimo; ma il risultato, a detta di tanti, era molto gradevole all’occhio. Più che gradevole, a essere onesti: davvero un incanto. Ai pranzi di Albinia Foster andava volentieri: marito e moglie erano affabili, schietti, e lo sherry e il tabacco eccellenti. Con Sir Augustus, poi, si intendeva alla perfezione. Quando la gotta glielo aveva permesso, aveva preso parte a un paio di battute di caccia – le ultime, purtroppo –, iniziate poco prima dell’alba e finite a mezzogiorno, seduto con la schiena a pezzi in una trattoria insieme a Foster. Stufato di cervo e polenta, annaffiati di barbera. Indimenticabili. E, poiché non esiste al mondo nulla che avvicini di più due caratteri di un piacere condiviso, i due avevano raggiunto in tempi rapidi un grado di intimità tale da consentire a Casimiro di porre al ministro domande c...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Il rumore del mondo
  4. Parte prima. IL MONDO INGLESE
  5. Parte seconda. IL RUMORE DEL SECOLO
  6. Parte terza. L’EPISTOLARIO DI ANNE DE VIGNON
  7. Parte quarta. IL PRINCIPIO DI UN’ERA NUOVA (1840-1848)
  8. L’ultimo capitolo
  9. Nota dell’autrice
  10. Copyright