Dopo il rifiuto di Emma ad andare in camper con sua madre e Ferruccio, i due per molto tempo non avevano più osato invitarla, riducendo anche le loro visite a Trieste. Ma su suggerimento di Gilda, che vedeva sempre più lontano dello sguardo miope della sua amica, una volta Angela chiese a sua figlia di andare a trovarla a Bassano. Ed Emma rispose sì.
Quando giunse il fatidico giorno, Angela trascorse la mattina nella Bottega del Baccalà in preda al nervosismo: sbagliava a dare i resti, confondeva le sardine sotto sale con quelle sott’olio, non capiva mai di chi era il turno in coda.
Anche Emma era inquieta man mano che si avvicinava alla meta. In quegli anni, anche se non ne era del tutto consapevole, aveva continuato a cercare l’approvazione di sua madre. Così, dopo le medie, anziché inseguire il suo desiderio di diventare cuoca, si era iscritta alla scuola di parrucchiere perché ad Angela sarebbe tanto piaciuto che lei lo diventasse.
Essere coiffeuse, per Emma, era un ulteriore passo per farsi accettare, oltre a essere un mestiere così da femmina! Questo pensava, mentre vedeva il paesaggio scorrerle veloce dal finestrino: quello era il primo viaggio fuori dalla sua regione e osservava tutto sgranando gli occhi. Ripensava ai suoi amori come se fosse una vecchia signora: dopo la storia con il Nisi, che era durata tre settimane, era stata un’estate con un giostraio e tre sere con un ragazzo detto “il Muscolo”, che le aveva fatto scoprire le prime gioie del sesso. Stava per compiere diciassette anni e si sentiva grande, ma ogni volta che incontrava sua madre tornava sempre bambina.
Ad attenderla, alla stazione, Angela si era fatta accompagnare da Gilda.
«Ma è tua figlia, non puoi essere in questo stato di agitazione.»
Angela appoggiò una mano sulla spalla della sua amica.
«Non so mai come comportarmi con lei. Però con te mi sento più forte, per questo voglio che Emma ti conosca... senza di te io forse l’avrei persa.»
«Ecco, allora cerca di non rovinare tutto. Io non ho figli, non sono arrivati, non sono stata fortunata in amore. Ma almeno non ho fatto danni.»
Angela inspirò profondamente. Era un ottobre mite, e il giallo dei boschi e dei prati dava un’aura magica a tutto il bassanese.
Emma arrivò lievemente truccata, anche se con un taglio di capelli decisamente particolare. Oreste, il parrucchiere da cui faceva pratica, aveva deciso di sperimentare su di lei tutti i nuovi tagli che aveva imparato a Londra. Angela era tentata di fare un commento, ma preferì dirle che la trovava bellissima, perché era giusto così.
«Il viaggio è andato bene? Ti sei seduta in treno vicino alle suore, come ti avevo detto?»
«No, mamma, non c’erano suore. Solo una signora vestita di nero.»
Emma, intanto, sorrideva a Gilda e guardava ogni cosa con ammirazione e curiosità: osservava le signore benvestite, le vetrine eleganti di Cenere, e le sembrava di essere all’estero. Era tutto diverso e un po’ esotico, ma forse perché non aveva mai viaggiato. Sua madre aveva al collo una collana bellissima, piena di pietre colorate, ed era uno schianto. Anche la sua amica era carina e simpatica, ma mai quanto lei, che continuava a guardarla.
«Ferruccio è in osteria, e stasera possiamo andare a mangiare là, ma se ora ti va possiamo fare una passeggiata. Dove vorresti andare?».
«Alla Bottega del Baccalà.»
«Perché vuoi andare proprio lì?»
«Perché ne parli sempre e me la sono solo immaginata.»
Gilda lanciò un’occhiata ad Angela, che un po’ controvoglia portò sua figlia a visitare il posto dove lavorava. Quando il titolare vide entrare Angela con quella ragazza, l’accolse con un pizzico di sorpresa.
«Lei è Emma, e ci teneva tanto a vedere questo posto.»
L’uomo la guardò incuriosito.
«Le belle ragazze sono sempre le benvenute. Ti piace il baccalà?»
«Io mangio tutto, vero mamma?»
Il titolare guardò la sua dipendente con gli occhi sgranati ma fu abbastanza abile nel dissimulare il suo stupore, che Emma non colse. In quegli anni Angela non gli aveva mai detto di avere una figlia. L’unica a comprendere tutto al volo fu Gilda, che invitò subito Emma a scegliere qualcosa da portare a Trieste ai nonni, e lei si fiondò sulle scatolette più particolari.
Uscirono dal negozio un po’ stranite, ma piene di sardine. Una volta fuori, Gilda pensò fosse meglio defilarsi e lasciarle sole.
Emma prese sua madre sottobraccio, e Angela si ricordò che anche Pasquale aveva fatto lo stesso gesto qualche anno prima.
«Ti piacciono le meringhe?»
«Quelle che portavi quando venivi a trovarci?»
Anche la domanda più banale suonava come un’accusa.
«Esatto. Ti porto ad assaggiare quelle di Fiorese, che sono le più buone del mondo.»
Entrarono sorridenti in pasticceria, e Angela fu particolarmente orgogliosa perché la ragazza la riconobbe – era una buona cliente – e la servì anticipandone i gusti. Emma era semplicemente esaltata: era da sola con sua mamma, nel regno dei pasticcini. Poi, quando vide la meringa coperta di panna, credette veramente di sognare.
Angela per una volta si sentì sollevata. Erano solo loro due, senza troppo da dirsi, solo con il piacere di stare insieme. Ma Emma aveva ancora da realizzare un grande desiderio. Appena finì di leccare con le dita l’ultima traccia di panna, guardò sua mamma negli occhi e le disse: «Poi posso vedere casa tua?».
«Certo che puoi. C’è il tuo lettino che ti aspetta.»
«Davvero? Che bello!»
Tutto ciò che per molti figli era naturale, per Emma diventava un evento epocale. Così si avviarono verso casa, poco distante da dove si trovavano. Emma osservava i palazzi, i portici, le chiese, come se dovesse cercare di immagazzinare tutte le informazioni: s’immaginava già il racconto che avrebbe fatto a Mila appena tornata a Trieste, magari aggiungendo che c’erano un sacco di ragazzi alti come lei.
L’appartamento del Terraglio le ricordò subito la casa di via della Bora. Aveva le scale ripide, un quadro di Francesco Giuseppe – era il modo di Angela per ricordare il Pipan – e una foto di loro due nell’ingresso. Era un’immagine che Emma non aveva mai visto, che non ricordava più. La prese in mano e la osservò con attenzione. Era stata scattata a uno dei tanti compleanni. Sua mamma la teneva in braccio e sorrideva: aveva un maglioncino a collo alto, gli occhi disegnati con la matita, i capelli raccolti, due orecchini importanti. Emma l’abbracciava, i capelli già corti da maschietto, gli occhi perplessi. Occhi che per anni non sarebbero più cambiati: quello sguardo sempre alla ricerca della verità non l’aveva mai abbandonata, neppure nei giorni più felici.
Angela osservava sua figlia guardare ogni cosa, di quell’appartamento piccolo ma arredato con gusto, e si chiedeva come mai ci avesse messo così tanto a invitarla lì. Forse non si sentiva pronta a un suo trasferimento, che era l’unica verità difficile da ammettere: Angela non sarebbe più stata in grado di vivere con sua figlia, anche se le aveva preparato un letto con le lenzuola ricamate, un pigiama pieno di cuori e due pantofole a forma di zebra. Quella sera d’autunno, a Bassano, per Emma era sbocciata la primavera.
Per cena, Angela la portò all’osteria di Ferruccio, che aveva riservato il tavolo più al centro della sala. Pur essendo un locale un po’ alla buona, fece di tutto perché sembrasse una serata di classe, e volutamente apparecchiò solo per due: voleva che madre e figlia si godessero quel momento.
«Che bel tavolo, grazie Ferruccio!»
A Emma venne naturale riconoscere l’autenticità del gesto ed ebbe un moto di affetto verso quell’uomo con cui aveva sempre avuto un rapporto conflittuale.
Appena lui si allontanò per andare a prendere un po’ di polenta, Angela le disse: «Guarda che puoi chiamarlo papà. E sappi che quando vuoi puoi anche avere il suo cognome».
Emma era confusa, ma anche bendisposta a cambiare vita: in fondo aveva sempre cercato di avere, oltre alla madre, anche un padre.
«E quindi cosa dovrei fare?»
«Basta informarsi. Dipende solo da te, e poi procediamo.»
Ancora una volta, a sedici anni, Emma si trovò a dover prendere una decisione molto più grande di lei.
Nel pieno della sua adolescenza, alle prime lotte con i brufoli, i primi amori, la scuola di parrucchiere e la sua femminilità apparsa senza preavviso, Emma era francamente stufa di sentirsi ancora chiedere come mai non avesse il cognome di suo padre. Così, appena rientrata a Trieste dopo la prima visita “ufficiale” a sua madre, chiese indicazioni ai passanti e arrivò in tribunale. «Decide il giudice» aveva sentito dire in tanti discorsi, e quindi lì avrebbero saputo risponderle.
Aveva la sfrontatezza della sua età, le spalle larghe e continuava ad avere le gambe di un ghepardo che si muovevano veloci su per le salite senza fatica.
Appena giunta a destinazione tirò un sospiro di sollievo: finalmente avrebbe risolto il problema. Fermò il primo signore in divisa che incontrò.
«Buongiorno... io dovrei cambiare cognome.»
Dopo la gita a Bassano, Emma aveva acquistato fiducia e mostrava un piglio adulto, come vedeva sempre fare a suo nonno. Questo signore, un po’ sudato e un po’ in carne, la prese in simpatia. Guardò l’aria spavalda dell’uccellino convinto di sbranare il leone, e si fece ripetere la domanda.
«Allora, glielo ripeto: devo cambiare cognome. Perché io ho quello di mia madre da sempre. Ma adesso tutti mi dicono che devo prendere il cognome di suo marito e sono venuta qui per sapere cosa devo fare. Così la smettono con questa storia, che già ho i miei problemi con il taglio.»
«Che taglio?»
«Le sembrano normali i miei capelli? Vado a scuola di parrucchiera, questi me li ha fatti la mia compagna di corso.»
«Scusa, ma quanti anni hai?»
«Quasi diciassette.»
«E chi ti ha detto di venire qui?»
«Ci sono venuta da sola. Perché mi sto scocciando, mia madre mi ha detto di informarmi e allora eccomi qui.»
Quel signore gentile scosse la testa e la condusse in una stanza piena di sedie. Poi fece una telefonata a un funzionario con cui aveva una certa confidenza che scese ad ascoltarla. Sembrava uno psicologo. Davanti alle sue semplici domande, Emma si rese conto di quanto le piacesse raccontare la sua vita: «Io sono cresciuta senza papà ma anche senza mamma, perché doveva lavorare fuori... però lei lo so bene chi è. Lei mi voleva maschio e così io ho fatto il maschio fino a che a un certo punto mi sono spuntate le tette e... come facevo a quel punto? Le mie compagne pensavano che mi piacessero le femmine, che poi secondo me non c’è niente di male. L’unica che mi ha capito è Mila.»
«Mila chi?»
«Mila. Si chiama così: è croata ed è alta il doppio di me solo che lei i genitori non li ha proprio conosciuti. Quando credo di essere sfortunata mi basta pensare a lei che ha solo sua zia, ed è pure vedova. Non si è più voluta sposare, e lei è alta normale.»
«Senti, questo argomento ora non è importante. Dimmi invece di tuo padre.»
«Di papà invece ne ho due: uno vero, che so che vive ...