Il jeet kune do è l’allenamento e la disciplina verso la realtà fondamentale del combattimento. La realtà fondamentale consiste nel ritornare alla libertà originaria, che è semplice, diretta e non classica.
Un buon praticante di jeet kune do non oppone forza e non si arrende completamente. È flessibile, arrendevole come una sorgente, è complementare e non antitetico alla forza del suo avversario. Non ha tecnica e fa sua la tecnica dell’avversario. Bisogna rispondere alle circostanze senza predisposizioni artificiali e «rigide». L’azione deve essere immediata come l’ombra che si adatta all’oggetto in movimento. Il compito di ciascuno è semplicemente di completare l’altra faccia dell’«unità» in modo spontaneo.
Nel jeet kune do non si accumula, si elimina. Esso non consiste in un processo di accumulazione quotidiana, ma in un processo di eliminazione quotidiana. La vetta della cultura conduce sempre alla semplicità. È la cultura a metà strada che conduce all’artificiosità. Perciò non è importante quanta conoscenza si è accumulata; conta piuttosto quanto si riesce a mettere in pratica. «Essere» è decisamente più importante che «fare».
La comprensione del jeet kune do arriva grazie a un sentire personale attimo dopo attimo, nello specchio delle relazioni e non attraverso un processo di isolamento. Essere significa essere collegati. Isolarsi equivale a morire. Ogni tecnica, anche se degna, apprezzabile e piacevole, diventa una malattia, se la mente ne è ossessionata. Impara i principi, conformati ai principi, e poi disfati dei principi. In breve, entra in una forma senza esserne prigioniero, e obbedisci ai principi senza venirne limitato.
I miei allievi di jeet kune do prestano ascolto a questo: tutti gli schemi rigidi sono incapaci di adattabilità e di flessibilità. La verità sta al di fuori dei modelli prestabiliti. Prova a ottenere la docile forma di una carta da pacchi riempita d’acqua! Quando si raggiunge la maturità in quest’arte, si raggiunge la forma senza forma. È come il dissolversi o lo sciogliersi del ghiaccio nell’acqua, che può adattarsi a ogni struttura. Quando non si ha forma, si può assumere qualsiasi forma; quando non si ha stile, ci si può adattare a tutti gli stili.
Nella libertà originaria, si utilizzano tutte le vie e non si è legati a nessuna via e al contempo si utilizzano tutte le tecniche e gli strumenti che servono allo scopo. L’efficienza non è altro che l’ottenere risultati. Quando percepisci la verità nel jeet kune do, ti senti al centro di un cerchio senza circonferenza.
Bruce Lee
Presidente del jeet kune do
Lettera indirizzata agli allievi della scuola di Chinatown, Los Angeles, 1967 circa
In passato si è scritto molto sul jeet kune do, sia qui sia all’estero, specialmente a Hong Kong. Tuttavia, nessuno degli articoli scritti coglie il nucleo fondamentale; è sostanzialmente una questione di grado di precisione. È davvero difficile scrivere che cos’è il jeet kune do (JKD), mentre è più facile scrivere che cosa non è.
È probabilmente per evitare di estrapolare una COSA da un PROCESSO che non ho ancora scritto un articolo sul JKD. Per iniziare questo articolo, mi sembra appropriata una storia zen:
Una volta un erudito si recò da un maestro zen per fargli delle domande sullo zen. Quando il maestro zen parlò, l’erudito lo interruppe più volte con i suoi commenti, del tipo: «Oh sì, anche noi abbiamo questo», e così via. Alla fine il maestro zen smise di parlare e cominciò a servire il tè all’uomo dotto; continuò però a versarlo nella tazza e il tè traboccò. «Basta così! Non ci sta altro tè nella tazza!» interruppe l’erudito. «Lo so» rispose il maestro zen. «Se prima non svuoti la tua tazza, come puoi assaporare la mia tazza di tè?»
Spero che i miei compagni di arti marziali leggeranno i paragrafi seguenti con mente aperta, lasciandosi alle spalle tutti i pesi delle opinioni e delle conclusioni preconcette; questo atto, tra l’altro, ha in sé un potere liberatorio: dopotutto, l’utilità di una tazza di tè risiede proprio nel suo essere vuota.
D’altra parte, mettete in relazione questo testo con voi stessi perché, anche se l’argomento è il JKD, riguarda principalmente lo sbocciare dell’artista marziale, e non dell’artista marziale «cinese» e così via. Sia chiaro infatti una volta per tutte che un artista marziale è prima di tutto un essere umano, cioè se stesso; le nazionalità non hanno niente a che vedere con l’arte marziale.
La vera osservazione inizia quando ci si libera dai modelli prestabiliti; la libertà di espressione si ottiene quando si va oltre il sistema
Immaginiamo che tante persone, allenate secondo diverse forme di arte del combattimento, abbiano appena assistito a un duello. Sono sicuro che alla fine del combattimento sentiremo versioni differenti da ognuna di queste persone.
La conclusione è piuttosto comprensibile: non si può vedere un combattimento «così com’è» perché ognuno lo interpreta in base ai limiti della sua particolare condizione, ovvero dal suo punto di vista di pugile, di lottatore, di praticante di karate, di praticante di kung fu o comunque di chi si è formato con un particolare metodo. Ogni tentativo di descrivere il combattimento in realtà esprime soltanto un’idea parziale del combattimento, a seconda delle proprie simpatie e antipatie. La lotta così com’è, semplice e totale, non dipende dalla condizione di artista marziale cinese, di artista marziale coreano o di qualsiasi tipo di artista marziale tu sia. La vera osservazione inizia quando ci si libera dai modelli prestabiliti e la libertà di espressione si ottiene quando si va oltre i sistemi.
Uno stile è una risposta codificata all’inclinazione di ciascuno
Prima di rivolgerci al JKD, vediamo che cos’è esattamente uno stile classico di arte marziale. Tanto per cominciare, dobbiamo capire che è l’uomo a creare uno stile. Non diamo retta alle tante storie fantasiose sui fondatori dei diversi stili (un misterioso monaco saggio, un particolare messaggio ricevuto in sogno, una rivelazione sacra, piena di luce dorata ecc.). Uno stile non deve mai essere un vangelo di cui non si possono violare le leggi e i principi. L’uomo, l’essere umano, è sempre più importante di qualsiasi stile.
Il fondatore di uno stile può avere scoperto qualche verità parziale, ma con il passare del tempo, soprattutto dopo la sua morte, i suoi postulati, la sua inclinazione, la sua formula conclusiva – che studiamo costantemente e non facciamo mai nostra – diventano una legge. Le credenze furono inventate, i rituali furono prescritti, le diverse filosofie furono formulate e, alla fine, furono erette le istituzioni; così, ciò che forse era cominciato come una sorta di personale fluidità del suo fondatore, è poi diventato una conoscenza solidificata, fissa – una risposta organizzata e codificata presentata secondo un ordine logico –, una panacea mantenuta per condizionare le masse. In questo modo, i discepoli ben intenzionati hanno fatto diventare questa conoscenza non soltanto un altare sacro, ma anche una tomba in cui viene sepolta la saggezza del fondatore.
Se osserviamo onestamente la realtà del combattimento per quella che è, e non per quella che vorremmo che fosse, sono sicuro che ci accorgeremmo che uno stile tende a generare regole, parzialità, rifiuti, condanne e tante giustificazioni. In breve, la soluzione offerta è la causa stessa del problema, perché limita e ostacola la nostra crescita naturale e di conseguenza ostacola la via all’autentica comprensione.
Ovviamente, come diretta reazione all’«altra verità», un altro fondatore o forse anche un discepolo insoddisfatto vorrà «organizzare» un approccio opposto – come nel caso dello stile morbido opposto allo stile duro, della scuola interna opposta alla scuola esterna ecc. – che in poco tempo diverrà una vasta organizzazione con le sue leggi costituite e i suoi modelli prediletti. In questo modo comincia la lunga lotta tra uno stile che rivendica di possedere la «verità» e gli altri stili, che vengono esclusi. Così, sebbene l’essere umano sia totale e universale – mentre uno stile è solo la proiezione parziale di un individuo, limitata da quel particolare segmento, e di conseguenza mai totale –, lo stile è diventato molto più importante delle persone che lo praticano. Il peggio è che questi stili sono spesso in opposizione l’uno all’altro, perché tendono a essere separati nei principi l’uno dall’altro. Di conseguenza, gli stili separano gli uomini anziché unirli.
La verità non può essere strutturata o delimitata
Non ci si può esprimere appieno e completamente quando ci viene imposta una forma parziale e predefinita o uno stile. Il combattimento «così com’è» è totale, incluso tutto «ciò che è» e tutto «ciò che non è», senza tratti o angolature preferiti, senza confini; è sempre fresco e nuovo, mai predefinito, e cambia continuamente. Senza dubbio, il combattimento non si deve limitare ad assecondare l’inclinazione personale dell’individuo, i suoi condizionamenti ambientali o la sua costituzione fisica, anche se questi aspetti sono parti della totalità del combattimento. Tuttavia, è proprio questo tipo di «sicurezza particolare» o di «sostegno» a limitare e bloccare la crescita spontanea dell’artista marziale. Di fatto, molti praticanti sviluppano un tale attaccamento ai loro «sostegni» che non possono più farne a meno. Ogni tecnica particolare, anche se corretta o ideata con intelligenza, in realtà è una malattia, quando se ne rimane ossessionati. Purtroppo, molti artisti marziali cadono spesso nella trappola di tale ossessione. Questi individui sono costantemente alla ricerca del maestro che soddisfi i loro particolari desideri.
Cos’è il jeet kune do?
Sia chiaro che io non ho MAI inventato un nuovo stile, composito, modificato o diverso; cioè basato su una forma distinta e su leggi diverse.
Il jeet kune do non è una forma speciale di condizionamento mediante una serie di credenze e un approccio particolare. Non guarda al combattimento da un certa prospettiva, ma da tutte le prospettive possibili, e anche se il JKD utilizza tutti i metodi e gli strumenti per raggiungere il suo scopo – dopotutto, l’efficienza non è altro che l’ottenere risultati –, non ne viene affatto limitato, e per questo è libero.
In altre parole, il JKD, anche se possiede tutti i punti di vista, non ne è posseduto. Perché, come ho detto prima, ogni forma, anche se efficacemente ideata, diventa una gabbia quando il praticante ne è ossessionato.
Definire il JKD come uno stile – kung fu, karate, kickboxing, il combattimento da strada di Bruce Lee ecc. – significa mancare del tutto il bersaglio, semplicemente perché il suo insegnamento non si può ridurre a un sistema.
Se il JKD non è uno stile né un metodo, alcuni potrebbero pensare che si tratti di qualcosa di neutrale o di indifferente. Eppure non si tratta di nessuno dei due, perché il JKD è contemporaneamente «questo» e «non questo» e, quindi, non è né contro né a favore degli stili. Per comprendere pienamente, bisogna
[il testo non fu terminato]
Toward Personal Liberation (Jeet Kune Do)
Manoscritto, 1971 circa, Bruce Lee Papers
Sono un maestro esattamente come sono uno studente, perché sono sempre in un processo di sviluppo e semplificazione, ma sono conosciuto soprattutto come un maestro, e uno di quelli notoriamente cari, perché quando mi viene richiesta una parte del mio tempo i miei studenti pagano per il valore che essa ha.
Il tempo è molto importante per me, perché, vedete, anche io sono un apprendista, e spesso mi perdo nell’eterna gioia di sviluppare e di semplificare. Interrompere il fluire del tempo per scrivere un articolo sul JKD non è una cosa che mi piaccia particolarmente.
In passato si è scritto molto sul jeet kune do, sia qui sia all’estero, specialmente a Hong Kong. Tuttavia, nessuno degli articoli scritti coglie il n...