Non so quando sono diventata così imbranata nel preparare le valigie. Ero brava una volta, quando avevo tempo e voglia di fare scorte di cuscini gonfiabili e prodotti per l’igiene personale in formato da viaggio. E non è che manchi spazio nell’auto; la mia vecchia Citroën sta esplodendo. Ma ho la netta sensazione di aver dimenticato qualcosa, o forse anche di più.
Il problema è che non ho fatto una lista. Le donne della mia generazione sono portate a credere che le liste siano la soluzione a tutto, anche se il mondo intorno a loro sta crollando. Ormai io ho superato quella fase. Arriva un momento in cui sei così oberata che perdere tempo in un’attività inutilmente rassicurante come “fare una lista” sembra pura follia. Tanto più che, se ho dimenticato qualcosa, potrò sempre comprarlo una volta arrivata sul posto. In fondo, siamo diretti nella campagna francese, non nella foresta amazzonica.
Se la mia valigia è un caos, che dire di quella di William? Il contenuto del suo bagaglio è composto per lo più da Haribo ritrovate sotto il suo letto dopo una recente festicciola, libri come Serpenti velenosi di tutto il mondo, alcune pistole ad acqua e una selezione di prodotti da bagno dal forte profumo speziato.
Ha iniziato a interessarsi a questi ultimi solo di recente, dopo che il suo amico Cameron ha deciso che compiuti dieci anni potevano cominciare a usare il deodorante. Ho dovuto far notare con tatto a mio figlio che andarsene in giro avvolto in una nube tossica di Lynx Africa non lo avrebbe portato molto lontano in Francia se non indossava dei veri pantaloni.
Salgo al posto di guida, giro la chiave e avverto il consueto brivido di sorpresa quando il motore parte. «Sei sicuro di aver preso tutto?» chiedo a William.
«Penso di sì.» L’espressione di trepida attesa che accende il suo viso mi stringe il cuore. È così da quando gli ho detto che avremmo trascorso l’estate con suo padre. Mi piego di lato per posargli un rapido bacio sulla tempia. Lui lo tollera, ma sono ormai lontani i tempi in cui avrebbe reagito gettandomi le braccia al collo e dichiarando: “Sei la mamma migliore che io abbia mai avuto”.
William è alto per la sua età, quasi allampanato, nonostante l’appetito vorace e la recente ossessione per i biscotti al cioccolato. Ha preso l’altezza dal padre, insieme a quei profondi occhi castani, alla carnagione che si abbronza facilmente e ai capelli scuri che si arricciano vicino all’attaccatura sulla nuca.
Io sono un metro e sessanta, presto mi supererà, e a quel punto probabilmente sembrerà ancora di meno mio figlio. La mia pelle è chiara, lentigginosa, e tende ad arrossarsi anche al minimo accenno di sole. I capelli biondi che mi sfiorano le spalle non sono ricci come quelli di William, ma neppure lisci; prendono una piega che un tempo, quando era il mio unico cruccio, mi infastidiva parecchio.
«Chi si occuperà della casa mentre siamo via?» mi domanda William.
«Non c’è bisogno che qualcuno se ne occupi, tesoro. Basta che ritirino la posta per noi.»
«E se vengono i ladri?»
«Non succederà.»
«Come fai a saperlo?»
«Se dovessero decidere di svaligiare una casa su questa via, la nostra sarebbe l’ultima che sceglierebbero.»
Avevo acquistato quella villetta a schiera poco dopo la nascita di William grazie a un aiutino economico da parte di mio padre e, per puro caso, prima che la zona sud di Manchester diventasse trendy.
Non ho mai partecipato alle assurde serate a base di falafel e bingo organizzate dal bar in fondo alla strada, e devo essere entrata una sola volta nella panetteria artigianale per acquistare una pagnotta con lievito madre e semi di quinoa. Ma apprezzo molto questi locali perché hanno fatto lievitare i prezzi degli immobili.
D’altra parte, però, sono forse l’unica madre single trentatreenne che vive da queste parti con uno stipendio così basso. Insegno scrittura creativa nei corsi di preparazione all’università, un lavoro che mi ha sempre ripagato più in termini di gratificazione personale che di tornaconto economico.
«Hanno rubato a casa di Jake Milton» mi dice William con aria tetra mentre svoltiamo. «Si sono presi tutti i gioielli di sua madre, l’auto di suo padre e l’Xbox di Jake.»
«Davvero? Ma è terribile!»
«Già. Era arrivato all’ultimo livello di “Garden Warfare”.» Sospira e scuote la testa. «Non ci riuscirà mai più.»
Ci vorranno quattro o cinque ore per raggiungere la costa meridionale e imbarcarci sul traghetto, ma siamo partiti in anticipo per fare una breve sosta qui vicino.
Dieci minuti dopo entriamo nel piccolo parcheggio di fronte al Willow Bank Lodge. Dall’esterno, l’edificio ricorda un’ampia costruzione Lego, con i muri di mattoni marroncini e il tetto di tegole grigie. Del resto, nessuno sceglie una casa di cura per il suo stile architettonico.
Digito il codice d’ingresso per sbloccare la porta, e mentre registriamo la nostra presenza alla reception veniamo subito investiti dall’odore di carne bruciacchiata e verdure stracotte. L’interno è pulito, luminoso e curato, anche se chi si è occupato della scelta degli arredi deve essere daltonico. La carta da parati con elaborati motivi a spirale è di un pesante verde avocado, il pavimento è coperto da una moquette scozzese rossa e blu, e i battiscopa sono verniciati di un arancione che qualcuno, a torto, deve aver pensato potesse ricordare il colore del legno naturale.
Da dietro la porta della sala TV arriva l’acciottolio di piatti tipico dell’ora di pranzo, perciò ci avviamo in quella direzione invece di svoltare nel corridoio che conduce alla camera di mia madre.
«Tutto bene, Arthur?» chiedo garbatamente a uno dei lungodegenti che esce dal bagno un po’ incerto sulle gambe e con l’espressione di chi è appena sbarcato a Narnia. Lui raddrizza istintivamente la schiena mettendosi sulla difensiva.
«Sto cercando le mie padelle. Le avete prese voi?»
«No, Arthur. Perché non vieni con noi così proviamo a cercarle in sala da pranzo?» Sto per impedirgli di entrare nello sgabuzzino quando le doppie porte si aprono e appare Raheem, un paramedico, che con aria rassicurante lo prende sottobraccio e lo porta via.
«Ehilà» lo saluta William. Anche Raheem, che è un ventenne di origini somale, possiede una Xbox, perciò lui e mio figlio hanno sempre tante cose da dirsi.
«Ehi, William, tua nonna sta pranzando. Può darsi che sia avanzato qualche fagottino di ananas. Ne vuoi uno?»
«Sì, okay.» Il mio ragazzo non rifiuta mai quando gli offrono del cibo, a meno che non si tratti di qualcosa che ho preparato io con enorme fatica, allora invariabilmente lo guarda come se avessi portato in tavola un piatto di fumanti scorie industriali.
Mentre Arthur sguscia traballando in sala da pranzo, seguito da Raheem, al loro posto appare la figura di un uomo. La pelle intorno alle tempie è segnata da anni di grandi tensioni, che hanno sicuramente influito sulla sua salute molto più del suo passato da alcolista.
«Nonno!» Il viso di William si apre in un sorriso e gli occhi grigio chiaro di mio padre si illuminano di vita.
Il fatto che, persino quando è molto stressato, mio padre sorrida con tutto se stesso quando vede suo nipote è uno dei piccoli miracoli del mio mondo. «Allora, sei pronto, William?»
«Sì, pronto con armi e bagagli, nonno.»
Papà gli scompiglia i capelli folti e ricci e fa un passo indietro per osservarlo meglio. «Dovevo accompagnarti a farti dare una sforbiciata prima di partire.»
«Ma a me piacciono lunghi.»
«Sembri un cuscino esploso.»
William ridacchia, anche se ha già sentito questa battuta un’infinità di volte.
«Quanti minuti ci sono in quattro ore e mezzo?» lo sfida il nonno.
«Mmh. Duecento e… settanta.»
«Bravo.» Lo attira a sé per un rapido abbraccio.
Non è certo merito mio se mio figlio è iscritto nel registro dei giovani talenti della matematica. L’aritmetica infatti non era il mio forte, e Adam eccelle solo con i numeri delle misure femminili.
C’è da dire però che suo nonno, un classico ragioniere, è stato come un padre per William, più di quanto lo sia mai stato Adam. La villetta bifamiliare dei miei genitori si trova a soli dieci minuti dalla nostra abitazione e per mio figlio, prima di iniziare la scuola, era una seconda casa, un luogo dove si scervellava sui puzzle o infornava dolcetti con i nonni.
E anche dopo, era stato sempre mio padre ad aspettarlo fuori dai cancelli della scuola e a supervisionare i suoi compiti, o a scarrozzarlo avanti e indietro dalla palestra di karate in attesa che io rientrassi dal lavoro.
Da due anni a questa parte, però, tutto è cambiato.
Mia madre non è più la nonna che era un tempo, una donna capace, fino a sette o otto anni fa, di lanciarsi per prima giù dal grande scivolo gonfiabile dell’area giochi con William sulle ginocchia. Non le era mai importato di passare per una bambina troppo cresciuta; si toglieva le scarpe e si lasciava coinvolgere con entusiasmo, mentre le sue coetanee restavano a bordo campo a sorseggiare il loro latte macchiato, e suo nipote strillava divertito.
«Aspetta che ti do qualche soldino» dice papà frugando nella tasca dei pantaloni.
«Non ce n’è bisogno» mormora William con scarsa convinzione mentre il nonno gli infila in mano una banconota da venti sterline.
«Così ti compri un giornalino sul traghetto.»
«Posso prendere una Coca-Cola?»
«Certo» risponde lui prima che io possa intervenire per impedirglielo.
«Grazie, nonno. Grazie di cuore.» William scappa in sala da pranzo per andare a cercare sua nonna, mentre io mi trattengo a parlare con mio padre.
«Sareste dovuti andare direttamente all’imbarco, tesoro» mi suggerisce. «Non c’era bisogno che vi fermaste qui.»
«Figurati. Volevo aiutare la mamma con il pranzo.»
«Ci penso io. Stavo solo facendo un salto a comprare il giornale.»
«No, preferirei assisterla io, se non ti dispiace.»
Papà annuisce e fa un lento respiro. «Bene, ascolta. Cerca di rilassarti in Francia. Hai bisogno di una vacanza.»
Sorrido, dubbiosa. «È così che la definisci?»
«Ti divertirai, se ti lasci andare. Fai uno sforzo. Fallo per la mamma, se ti fa sentire meglio. Lei lo desidera tanto, lo sai.»
«Continuo a pensare che starò lontana per troppo tempo.»
«Siamo in questa situazione da dieci anni, Jess. Non succederà assolutamente nulla in cinque settimane.»
Mia madre è in fondo alla sala da pranzo, vicino alla finestra aperta sul patio, con William che la stordisce di chiacchiere. È la postazione migliore a quest’ora della giornata, quando il sole è alto e la fresca brezza estiva ti accarezza la pelle.
È sulla sedia a rotelle e indossa l’abito turchese che le ho comprato da Boden alcuni mesi fa. Si potrebbe dire che è seduta, ma significherebbe che sta ferma, mentre in realtà nell’ultimo periodo è raro che lei ci riesca davvero.
I potenti farmaci che assume, però, le permettono di non essere più soggetta ai violenti spasmi muscolari che la scuotevano prima.
Purtroppo i medicinali non fanno miracoli, e ormai anch’io ne ho la dolorosa certezza.
Per questo ora continua a contorcersi e ad accartocciarsi su se stessa, mentre i lineamenti del suo volto e i suoi arti ossuti si stravolgono assumendo forme improbabili. Appare più magra nelle ultime settimane, le giunture le sporgono dai gomiti e dalle ginocchia, e gli zigomi sono così pronunciati che guardandola, a volte, ho l’impressione che i suoi occhi siano ...