Marchionne
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Marchionne

L'uomo dell'impossibile

  1. 152 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Marchionne

L'uomo dell'impossibile

Informazioni su questo libro

«Negli ultimi quattordici anni, prima in Fiat, poi in Chrysler e infine in Fca, Sergio è stato il miglior amministratore delegato che si potesse desiderare. È stato grazie al suo intelletto, alla sua perseveranza e alla sua leadership se siamo riusciti a salvare l'azienda. Saremo sempre grati a Sergio per i risultati che è riuscito a raggiungere e per aver reso possibile ciò che pareva impossibile.» Con queste parole John Elkann, presidente e principale azionista di Fca, ha annunciato ai dipendenti l'addio di Sergio Marchionne, pochi giorni prima della sua morte.

Italiano d'origine e nordamericano di formazione, è stato un capo azienda di ampia visione, e tra i simboli manageriali di un'epoca, quella del capitalismo globale ai tempi della peggiore crisi economica dal 1929. Nominato nel 2004 al vertice della più grande azienda manifatturiera italiana sull'orlo della bancarotta, in tre anni ne mette in ordine i conti, grazie allo snellimento della struttura burocratica, all'accelerazione dei processi decisionali e ai nuovi modelli, a cominciare dalla nuova 500. Poi, di fronte alla Grande Recessione globale, che si intreccia alla crisi finanziaria, adotta un'imprevedibile strategia d'attacco: la Fiat entra nel capitale di Chrysler, dopo una serrata trattativa con l'azienda, il sindacato e soprattutto con l'amministrazione americana guidata da Barack Obama.

Le sue iniziative imprenditoriali e il suo stile di lavoro e di leadership hanno suscitato passioni, diviso i media, anticipato la politica, irritato molti osservatori e spiazzato quei settori del sistema economico meno inclini alle scelte radicali. Ma chi è stato, in realtà, Sergio Marchionne? Quali sono le ragioni del suo successo e i risvolti più interessanti e paradigmatici della sua storia personale? Com'è riuscito a impressionare il competitivo mondo globale dell'auto e - in un orizzonte più circoscritto - a scuotere l'immobilismo delle relazioni industriali italiane? E quale eredità lascia alle nuove generazioni di manager?

Alla fine dell'«era Marchionne», mentre sono ancora vive le polemiche tra sostenitori e detrattori, Marco Ferrante delinea un penetrante profilo della sua figura di leader solitario. E racconta, senza trascurare aneddoti di vita privata, il percorso biografico e professionale di una persona franca, molto abile nello sfruttare i riflettori del palcoscenico mediatico, e al tempo stesso inflessibile nel difendere la propria privacy, come ha fatto alla fine, nascondendo sino all'ultimo il dramma ineluttabile della sua battaglia fatale.

«A UN CERTO PUNTO IL LEADER, DOPO AVER ASCOLTATO TUTTI, DEVE DECIDERE DA SOLO. NON C'È NIENTE DI PIÙ PAUROSO DI RICONOSCERE CON TE STESSO DI ESSERE SOLO.» SERGIO MARCHIONNE

Domande frequenti

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Informazioni

I

Quando c’era la grande Fiat e i bambini andavano in colonia – Storia da cui tutto nacque, la put, un weekend a New York con il capo della General Motors, e sue conseguenze – Come, in alcune circostanze, un’opzione a vendere può cambiarvi la vita – Prime considerazioni sulla psicologia di Marchionne
Una sera del 2002, molto prima che i subprime dessero una strigliata al mondo, la signora Rita Pavone da Torino entrò nello studio televisivo di «Porta a porta». Era vestita nei toni dell’arancione. Bruno Vespa l’accolse presentandola come la figlia di un tornitore della Fiat. Era il 15 maggio e la casa automobilistica non era mai stata così in crisi.
Lei, la cantante di una remota stagione popolare, disse che sentir parlare della Fiat in ginocchio le dava smarrimento e spiegò che cosa aveva significato per la sua famiglia la fabbrica delle auto. «È stato uscire da un buco, una casa di due stanze, e andare a vivere in una casa popolare, delle belle case di quattro piani… E mio padre, lavorando alla Fiat, ci permetteva queste cose. La Fiat è una cosa importante per me: erano zone residenziali, avevamo tutto, i giardini, la sabbia per giocare, l’oratorio, tutti i negozi, era una bella cosa» sospirò. E poi disse che a lei che veniva da una famiglia in cui si mangiava carne solo il 27 del mese, il lavoro di suo padre aveva consentito, da bambina, di fare cose che altrimenti le sarebbero state negate e parlò della colonia: i bambini arrivavano alla palestra di via Magenta, dove indossavano i vestiti della Fiat, e venivano spediti per un mese a Marina di Massa a fare i bagni e a mangiare cioccolata. Disse che l’acquisto da parte di General Motors trasformava la Fiat in qualcosa che non ci apparteneva più. Le persone in studio e i telespettatori si commossero, non stava parlando solo di sé, le colonie estive erano un pezzo di memoria anche per chi non c’era mai stato.
Quasi tre anni dopo, venerdì 11 febbraio 2005, il nuovo amministratore delegato della Fiat va all’aeroporto di Zurigo e prende un volo di linea per New York. In aereo è solo, nessun collaboratore lo accompagna. Domenica mattina rientra a Torino. Lunedì 14 febbraio l’Italia legge sui giornali che Sergio Marchionne, capo esecutivo della Fiat, la più importante azienda manifatturiera del paese, da tre anni in profonda crisi, ha convinto gli americani di General Motors, che nel 2000 avevano pagato 2 miliardi di dollari per comprare il 20 per cento di Fiat Auto, a tirarne fuori altri 2 per non comprare il restante 80 per cento. Marchionne ha vinto a New York. Questi i titoli dei principali quotidiani italiani: Accordo con Gm: la Fiat resta italiana, «Corriere della Sera»; La Fiat divorzia da Gm, «la Repubblica»; Intesa con Gm: alla Fiat 2 miliardi di dollari, «La Stampa»; Fiat, la Gm paga per non comprare, «Il Giornale».
In realtà, la stampa non ha ancora ben chiaro il senso dell’operazione di Marchionne. Poiché continua a prevalere un generale scetticismo sulle possibilità della Fiat di tirarsi fuori dai guai, i 2 miliardi di dollari vengono visti innanzitutto come il prezzo pagato dagli americani per sganciarsi da una situazione disperata. Solo pochi intuiscono che quella domenica a bordo del Cessna Citation della Cnh (l’industria di macchine agricole controllata dalla Fiat) in arrivo da New York c’è un uomo finora sottovalutato. I festeggiamenti sono parchi. Marchionne ha l’emicrania. Le sei persone a bordo stappano una bottiglia di champagne. Lunedì, nel primo pomeriggio italiano, all’apertura delle attività finanziarie in America, viene versato dalla General Motors il primo miliardo su un conto corrente Fiat. La sera, la squadra di collaboratori di Marchionne porta all’amministratore delegato una torta a forma di assegno da 2 miliardi di dollari.
La storia della put è lunga e va raccontata dal principio. Alla fine degli anni Novanta, con l’uscita di Cesare Romiti e l’arrivo di Paolo Fresco, alla Fiat si era aperto un dibattito interno (la cui intensità non trapelò fuori dall’azienda) sul futuro dell’Auto. Fresco e Umberto Agnelli, benché non si amassero, stavano dalla stessa parte e puntavano ad abbandonare il settore automobilistico. Contro di loro c’era Paolo Cantarella che continuava a credere nel ruolo centrale dell’automobile. A decidere, naturalmente, doveva essere Gianni Agnelli, che riteneva razionale e opportuna la scelta di Fresco e di suo fratello, ma sul piano emotivo si trovava in difficoltà. Non voleva rinunciare all’automobile, fondamento dell’impero creato da suo nonno.
Così, in attesa che Agnelli decidesse, partirono due trattative parallele con General Motors e DaimlerChrysler, rispettivamente il primo e il quarto produttore mondiale di auto. Alla fine del 1999 si delineò l’ipotesi di cessione di Fiat Auto a Daimler per 11 miliardi di euro, con Fiat Group che sarebbe diventata prima azionista del nuovo gruppo. Dall’altra parte, si affacciava una nuova soluzione, la grande alleanza industriale con gli americani di General Motors. Cantarella premeva per quest’ultima, che avrebbe fatto entrare la Fiat nel più importante gruppo d’acquisto mondiale sulle parti, i ricambi, le componenti. La parola d’ordine dell’intesa Fiat-Gm era: alleati sui costi, concorrenti sui prodotti. L’alleanza industriale sarebbe stata sancita da uno scambio azionario, alla Fiat il 5,15 per cento di Gm (con Torino primo azionista privato di Detroit) e a Gm il 20 per cento di Fiat Auto (società non quotata). Agnelli scelse questa seconda possibilità.
Il partito dei venditori fu sconfitto. Ma gli venne concessa come premio di consolazione la put: la possibilità per Fiat, nel caso in cui l’accordo fosse andato male, di vendere agli americani il restante 80 per cento, a partire dal 24 gennaio 2004 (data successivamente spostata al 2 febbraio 2005) fino al 23 luglio 2009 (successivamente 24 luglio 2010). Per Torino è una vendita differita, consente di prendere tempo a chi crede che non ci sia più futuro per la Fiat nell’Auto, di lasciare che la decisione di vendere sia risparmiata a Gianni Agnelli. La soluzione della put piace anche agli americani, perché li mette nelle condizioni di poter comprare il settimo produttore mondiale a valori di mercato. Così si chiude l’accordo e nascono le due joint venture alla pari tra i contraenti: quella per i motori e i cambi, Powertrain, a Torino, quella per gli acquisti in Germania.
L’alleanza Fiat-Gm prende avvio. E Torino procede nel suo piano di semi-indipendenza. Nel settembre 2001 viene fissato il lancio del nuovo modello Fiat di segmento C – classe media, quello della Golf, per capirsi –, decisivo in Europa per volumi e redditività. Cantarella crede molto nella nuova Stilo. Il lancio è a ridosso dell’11 settembre. La Stilo arriva in coincidenza con il rallentamento post Twin Towers. Parte male e continua peggio, non decolla, non incontra il gusto del pubblico.
Ancora una volta nella sua storia, la Fiat si trova in difficoltà. Non ha investito abbastanza nell’Auto, ha speso troppo per l’americana Case (macchine agricole e per le costruzioni), la Stilo non porta denaro, d’improvviso arriva il conto degli anni Novanta, un decennio di battaglie interne, scontri, incertezze, declino della leadership. A fine 2001 le difficoltà sono evidenti, all’inizio del 2002 c’è un aumento di capitale che va male. Nella primavera del 2002, l’azienda è ufficialmente in crisi. Paolo Cantarella viene esautorato e con lui il capo della finanza, Damien Clermont; alla direzione degli affari finanziari viene nominato Luigi Gubitosi.
Gabriele Galateri, che succede a Cantarella, insieme a Fresco e Gubitosi decide allora di stabilizzare la situazione finanziaria con l’aiuto delle banche. Individuano quattro operazioni:
1) Il prestito convertendo, con cui grazie anche alla pressione del governatore della Banca d’Italia, Antonio Fazio, un pool di otto banche immette in Fiat 3 miliardi di euro di liquidità a un prezzo molto più alto di quello di mercato (più tardi recupereranno largamente). Nel caso in cui il denaro non sarà restituito entro tre anni, nel settembre 2005, le banche convertiranno in azioni Fiat il loro credito.
2) Edf, società elettrica francese controllata dallo Stato, concede una put sulla quota di Fiat in Edison (società elettrica in cui i torinesi sono soci dei francesi) da 1,8 miliardi di euro.
3) L’operazione Fidis (società di credito al consumo con cui Fiat finanzia l’acquisto rateale di automobili), la più importante perché vale 7 miliardi di liquidità: la maggioranza passa sotto il controllo delle banche.
4) Vengono ceduti per 3 miliardi di euro il gruppo assicurativo Toro, rilevato con molta convenienza da De Agostini, e Fiat Avio, comprata dal fondo Carlyle e da Finmeccanica, che oggi ne detiene circa il 26 per cento delle azioni.
La finanza respira e aggiudica alle casse del gruppo complessivamente circa 15 miliardi di euro.
Intanto, il 15 ottobre 2002, General Motors svaluta la sua quota di partecipazione in Fiat Auto, portandola da 2,4 miliardi a soli 200 milioni di dollari. Dopo l’estate del 2002, Paolo Fresco comincia a discutere con gli americani di Gm: minaccia l’esercizio della put e gli americani lasciano intendere di essere disponibili a pagare per uscire. Poco prima di Natale la Fiat, in crisi di liquidità, si libera della sua partecipazione nel primo gruppo automobilistico mondiale. La banca d’affari Merrill Lynch rileva il 5,15 per cento di General Motors detenuto dal gruppo torinese, per 1,16 miliardi di dollari. Quello che negli anni Quaranta era stato il sogno di Gianni Agnelli – diventare azionista di uno dei colossi di Detroit – sfuma nel contratto con la banca d’affari.
Le condizioni di salute del presidente d’onore della Fiat peggiorano. Gianni Agnelli muore il 24 gennaio 2003. Un mese dopo, suo fratello Umberto diventa presidente della Fiat e Giuseppe Morchio, ex direttore generale della Pirelli (è uno degli artefici della cessione agli americani della sezione fibre ottiche del gruppo milanese), il nuovo amministratore delegato. Morchio decide di rilanciare l’Auto. Sceglie come amministratore delegato Herbert Demel, già capo di Audi e di Magna Steyr, cambia atteggiamento sulla put, sostituisce il vecchio advisor J.P. Morgan con Citigroup.
Tra la primavera e l’estate del 2003 viene varato un nuovo aumento di capitale da 1,8 miliardi, per la definitiva stabilizzazione della situazione debitoria. Ma siamo ancora in una fase estremamente critica, le prospettive sono nebulose. Gm – che ha tempo diciotto mesi, a decorrere da febbraio, per sottoscrivere la sua quota, pari al 20 per cento, dell’aumento di capitale (sulla carta al momento del varo dovrebbe valere 1 miliardo di euro) – fa subito capire di non essere disponibile. In quel momento gli americani avrebbero potuto comprare la put – e cioè la rinuncia della Fiat al diritto di vendere – per poche centinaia di milioni di euro.
Nel marzo 2003 il rapporto con General Motors subisce un’altra scossa. Mentre Standard & Poor’s declassa il rating della Fiat, viene perfezionata la cessione del 51 per cento di Fidis alle quattro principali banche creditrici del gruppo automobilistico torinese, cioè Sanpaolo Imi, Unicredit, Intesa e Capitalia. Ciò alleggerisce la situazione debitoria, ma secondo gli americani restringe il perimetro del gruppo, e dunque modifica – dicono i due capi della società americana, Richard Wagoner e John Devine – le condizioni iniziali dell’accordo. Detroit manifesta il suo scetticismo sull’eventuale esercizio della put. Così in primavera Umberto Agnelli e Giuseppe Morchio vanno a trovare Wagoner negli Stati Uniti per tentare un accomodamento. In ottobre, la data di inizio dell’esercizio della clausola di put viene rinviata di comune accordo. È un rinvio di un anno: la put può essere esercitata dal 2 febbraio 2005. All’inizio del 2004, Umberto Agnelli prova a stringere sul negoziato, dice che per Torino la put ha un valore, cioè è in vendita.
Ma anche Umberto si ammala. Morchio comincia a muoversi per la successione, e viene allontanato dalla famiglia Agnelli che non si fida.
Quando si insedia, Sergio Marchionne cerca di imprimere un’accelerazione alla vicenda put. Studia il contratto. Dal punto di vista giuridico lo ritiene abbastanza solido, ma ha un punto debole: non è facilmente esercitabile. Innanzitutto perché il foro giudicante è quello di New York, ed esercitare la put significa aprire una vertenza fuori casa.
La situazione è delicata. Mentre in Italia viene trattato con una sorta di accondiscendenza (siamo ancora in una fase di dibattito pubblico al cui orizzonte c’è stabilmente l’ipotesi di un intervento statale di salvataggio), il capo della Fiat definisce una linea d’azione sulla put articolata in cinque punti:
1) Innanzitutto stabilisce un rapporto diretto con Rick Wagoner. Si scrivono via e-mail per tre mesi. In un certo senso diventano «blood brothers»: la put è la loro vertenza, è la loro prova all’onore del mondo. Si osservano, si blandiscono, si corteggiano. Marchionne sa che la lingua inglese lo aiuta, perché è diretta, chiara, precisa, non lascia adito a dubbi.
2) Il presupposto da cui parte è che la put sia valida e che lui la eserciterà chiedendo a General Motors di comprare il restante 80 per cento di Fiat Auto. Lo dice esplicitamente in settembre, al salone dell’automobile di Parigi: non ci saranno ulteriori rinvii sull’esercizio della put. Sarà Wagoner a decidere se accettare di subire l’opzione nelle mani dei torinesi e comprare, oppure andare in tribunale.
3) Parallelamente avverte Wagoner del difficile stato in cui versa la Fiat, enfatizza la situazione negativa di Torino (e del contesto italiano) per scoraggiarlo.
4) Gli fa capire che, avendo Gm un’esposizione di circa 360 miliardi di dollari di obbligazioni sui mercati finanziari internazionali, ci vuole poco a far lievitare gli interessi su quelle obbligazioni, aumentando il rosso di Gm. Basta che qualcuno ponga l’accento sul rischio connesso alla partecipazione in Fiat; e Marchionne – questo è il sottinteso – è nelle condizioni di far giungere messaggi simili al mercato.
5) La mossa decisiva: Marchionne conosce bene il sistema finanziario internazionale, è un uomo apprezzato dai mercati, non ha mai raccontato frottole, c’è gente in giro per il mondo che ha investito sulle sue operazioni di risanamento in Svizzera. Quindi usa questo canale di diplomazia parallela e attraverso amici comuni nella finanza internazionale fa sapere a Wagoner che non sta scherzando, conosce il contratto, è disposto ad andare fino in fondo, non ha paura. Conviene a tutti, italiani e americani, trovare la soluzione al problema (anche perché, nel frattempo, i vertici di General Motors cominciano a rendersi conto di una grana all’orizzonte: l’eccessiva onerosità del loro sistema previdenziale, il cui costo rischia di inabissare la condizione finanziaria del gruppo americano). Alla diplomazia parallela è affidato anche il gioco della domanda e dell’offerta. Di denaro, Marchionne e Wagoner non hanno mai parlato, sono gli intermediari informali che ne parlano. E comunque Marchionne non si scopre, non dice mai qual è il suo prezzo.
Ma che cosa voleva davvero il capo della Fiat? Pensava di cedere il settore auto? No. Voleva innanzitutto portare a casa denaro. Non solo: voleva liberarsi di un contratto che gli legava le mani. E, infine, voleva vincere. Nelle condizioni in cui si trovava doveva provare a vincere. Si sentiva – raccontò in una conversazione privata – nella situazione di una di quelle squadre che giocano bene, ma che di solito perdono, e si preparano ad affrontare la quindicesima partita dopo quattordici sconfitte. E, per di più, lui la giocava fuori casa.
Così, si entra nel vivo: mentre i due continuano a scriversi, si apre la trattativa formale. A metà dicembre 2004 sul lago di Costanza si tiene lo «steering committee», il comitato guida che ogni tre mesi si riunisce per la verifica strategica dell’alleanza Fiat-Gm. Risultato: nessun accordo. Si procede alla fase formale della trattativa in caso di controversie sull’accordo, la cosiddetta «mediation». Un mese dopo, General Motors porta a zero il valore attribuito in bilancio alla partecipazione in Fiat Auto. Continuano i colloqui e il 2 febbraio 2005 si conclude la mediation, con un nulla di fatto. Marchionne insiste, la put è valida.
Poi, all’improvviso, la situazione matura. Arriva il momento della verità: o la put – con la probabile vertenza giudiziaria – o i soldi. Quando l’11 febbraio parte per New York, quando arriva al Seagram Building in Park Avenue, quando sale al ventisettesimo piano nella sede Fiat di New York e si siede alla scrivania nell’ufficio d’angolo assegnato agli ospiti di riguardo o ai capi, Marchionne sa che cosa vuole: 2 miliardi di dollari. Quando in quel weekend si siede al tavolo con Wagoner da Sullivan & Cromwell, in Park Avenue, studio degli avvocati della Fiat negli Stati Uniti, e per la prima volta parlano di soldi, e sa che si va verso un accordo, mentre la dialettica negoziale si svolge sotto gli occhi dei due staff, per l’amministratore delegato italiano ogni singola voce del contratto diventa oggetto di rilancio. Vuole arrivare a 2 miliardi. Da una parte del tavolo c’è il nutrito gruppo dei capi e dei consulenti di Gm, dall’altra parte Marchionne con solo tre persone. Ha un foglietto su cui prende appunti. Fa e rifà i calcoli, converte in continuazione euro in dollari, gli interessa arrivare a 2 miliardi, perché è una cifra tonda. Quando finalmente supera la cifra in euro corrispondente al suo obiettivo, si ferma e dice «ok».
A raccontare l’incontro in cui si trovò l’accordo sulla put, e General Motors e Fiat divorziarono, furono soprattutto gli americani, quasi con toni da fiction. Dunque, venerdì 11 febbraio Sergio Marchionne chiamò personalmente Rick Wagoner e gli disse che era pronto a partire per New York. Al tavolo del negoziato aveva con sé due avvocati e il responsabile di Powertrain (la joint venture per i motori e i cambi che andava sciolta). Poiché non c’era la certezza dell’accordo, non volle gli uomini della comunicazione. Un tratto agiografico riferisce che era armato soltanto di una cartella con i documenti e di una borsa con un cambio.
Atmosfera densa, Marchionne e gli altri fumatori del gruppo escono ogni tanto sul marciapiedi per una sigaretta. Wagoner presenzia al negoziato per cinque ore, poi va a vedere una partita di basket. L’accordo viene chiuso all’alba di domenica. Il «Wall Street Journal» scrive che è una giornata trionfale per il capo della Fiat, il che non stupisce i suoi amici. Perché Marchionne non è ancora un top manager di fama mondiale, però – come vedremo – è uno che per tutta la vita ha trattato con giocatori aggressivi e spregiudicati: Sergio Cragnotti in Lawson Mardon; il raider Rahi Sahi, pachistano di nascita, che incontrò in Canada al tempo della Acklands Ltd (una società di componentistica auto in cui Marchionne aveva militato come cfo, chief financial officer, per un paio d’anni all’inizio dei Novanta); e Martin Ebner, il finanziere svizzero che scalò Alusuisse.
Da quell’incontro a New York venne fuori un aspetto interessante di ciò che poi sarebbe diventato il marchionnismo. Oltre a essere preparato, ad avere una cultura giuridica sufficiente per condurre la trattativa (e comunque il contratto pred...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Premessa
  4. Marchionne
  5. I
  6. II
  7. III
  8. IV
  9. V
  10. VI
  11. VII
  12. VIII
  13. IX
  14. X
  15. Prime conclusioni
  16. Copyright