Il Borghese
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Il Borghese

La mia vita e i miei incontri da cronista spettinato

  1. 108 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Il Borghese

La mia vita e i miei incontri da cronista spettinato

Informazioni su questo libro

Chi l'avrebbe mai detto, alla fine degli anni Cinquanta, che quell'adolescente taciturno e magro come un chiodo, abituato a rintanarsi in biblioteca dopo aver sgobbato tutto il giorno per dare una mano alla famiglia, sarebbe diventato firma di punta dei più prestigiosi quotidiani nazionali, arrivando persino a dirigerne alcuni? Probabilmente nessuno, e forse nemmeno lui, che pure non ha mai smesso di inseguire con passione, tenacia e un pizzico d'incoscienza il sogno di entrare nel mondo della carta stampata, un mondo che fin da piccolo, quando riusciva a malapena a compitare qualche parola, lo aveva incuriosito.

Dagli esordi, giovanissimo, all'«Eco di Bergamo», dove si occupava di cinema, sport e cronaca, alla fondazione di «Libero», la creatura che ha fortemente voluto a dispetto dello scetticismo saccente di molti colleghi, Vittorio Feltri ha attraversato oltre cinquant'anni di storia italiana, sempre commentandone gli snodi cruciali dal suo punto di vista di cronista scapigliato, originalissimo e irriverente. Quella che qui racconta è una vita costellata di innumerevoli soddisfazioni professionali ma anche di memorabili incontri con grandi nomi del giornalismo e protagonisti del panorama politico, di ciascuno dei quali ricorda pregi e difetti, schizzandone ritratti ricchi di aneddoti gustosi.

Le incursioni di Oriana Fallaci, «dea e tiranna» capace di mettere a soqquadro la redazione di via Solferino, le bizzarre esibizioni canore di Eugenio Montale («era come un usignolo, se aveva voglia di cantare se ne infischiava di tutto e tutti»), le passioni culinarie di Enzo Biagi («mangiava come un assassino di pasta asciutta») o di Amintore Fanfani («cucinava meglio di uno chef stellato») vengono descritte con il tono familiare di una chiacchierata fra amici. Ma poiché, come sostiene il direttore, chi possiede personalità di solito ce l'ha pessima, non sono mancati i rapporti burrascosi: con Indro Montanelli, per esempio, o con Giorgio Bocca, che al momento della morte salutò, lasciando trapelare un po' di malinconia, come «il mio miglior nemico».

Senza voler essere una vera e propria autobiografia, Il borghese è un piccolo cammeo, impreziosito da quello stile diretto e implacabile, sempre in bilico tra cinismo e ironia, che ha reso inconfondibile ogni riga uscita dalla penna di Vittorio Feltri.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2018
Print ISBN
9788804705321
eBook ISBN
9788852089107
IV

Oriana Fallaci

Oriana la vidi, più che la conobbi, per la prima volta all’inizio degli anni Ottanta, quando scriveva le sue interviste colossali e interminabili, che erano quasi dei romanzi, a personaggi come Khomeyni, capo spirituale e politico iraniano dal 1979 al 1989, Gheddafi, leader assoluto della Libia, e gentaglia simile. Fallaci, non essendo una giornalista ordinaria, non è che vergasse la dannata intervista e la mandasse attraverso gli stenografi o il fax. Il suo dattiloscritto non viaggiava mai da solo. Giungeva in redazione insieme alla sua autrice, che si fermava in via Solferino fintanto che il suo articolo non fosse stato impaginato con il titolo che decideva lei, nel modo in cui voleva lei, quando lo stabiliva lei. E noialtri tutti zitti e mosca.
A un dato momento compariva al primo piano di via Solferino, dove si creava una confusione da manicomio. «Oddio, c’è la Fallaci,» si udiva riecheggiare nei corridoi «si salvi chi può.» Mezza redazione era mobilitata: passare il testo, disegnare il menabò, scegliere i caratteri tipografici, mille verifiche e mille discussioni. Non andava mai bene niente. Oriana ribaltava anche ciò che era pronto. Roba da prenderla a sberle. «Avanti, ricominciamo daccapo.» «Meglio così?» «Meglio un corno» protestava lei dando del bischero a chiunque. Un delirio.
Perciò il panico serpeggiava già diverse ore, se non addirittura giorni, prima del suo ingresso. Fallaci si imponeva pure per i dettagli, i sommari, i titolini che servono per spaziare il testo. Non lasciava scampo. Arrivava come una dea e una tiranna e metteva a soqquadro il quotidiano. Si scatenava la guerra una volta che Oriana varcava la soglia dello stanzone albertiniano, una copia di quello del «Times», dove c’erano le postazioni dei giornalisti, alcuni dei quali dovevano dedicarsi esclusivamente a lei. Uno di questi era il malcapitato Sandrino Rizzi, caposervizi degli esteri, la vittima prediletta di Oriana, la quale, forse non ricordandone mai il nome, gli aveva affibbiato un nomignolo alquanto mortificante, soprattutto per un uomo: «Cosino». Rizzi, da parte sua, non osava ribellarsi o protestare. Non appena udiva la mitica sospirare: «Cosino, vieni qui», Sandrino trottava, si precipitava, accorreva, al fine di soddisfare qualsiasi capriccio di Oriana, che se la prendeva anche con le virgole, tanto che persino queste a un certo punto ne avevano piene le palle dei girotondi a cui Fallaci le costringeva. Le impuntature della fiorentina facevano rabbrividire, si potevano perdere delle ore per un nonnulla, che per Oriana era tutto, in quanto era una perfezionista ossessiva, una maniaca della punteggiatura.
Dalla mia scrivania, muto, osservavo le grandi manovre fallaciane e queste scene un po’ divertito e un po’ sconvolto. «Questa donna è una calamità» pensavo. Lo spettacolo si protraeva fino alle 23. Per la redazione, in subbuglio per il pezzo di Fallaci, sembrava a un certo punto arrivare la tregua quando l’articolo era ormai impaginato. Macché. Era tutta una diabolica finta. Mentre si rileggevano in religioso silenzio i bozzoni delle pagine umidi e odoranti d’inchiostro, all’improvviso si udiva un improperio. Era Oriana, che era riuscita a ravvisare persino in questa fase qualcosa fuori posto, da rifare, da sistemare, da correggere seduta stante, mandando tutti in crisi psicomotoria. Tipografi che accorrevano con gli occhi sbarrati, correttori di bozze esausti e tremanti. Altro delirio. Alle due del mattino, cascasse il mondo, il giornale si chiudeva. Oriana Fallaci saltellante e vispa come un grillo, lanciata un’occhiata di commiserazione a noi poveri amanuensi, raccattava cappotto e borsetta, scendeva a passo svelto lungo lo scalone e, inghiottita da un’automobile, svaniva nella notte insieme ai nostri incubi.
L’indomani il «Corrierone» con la perla di Oriana in apertura di prima pagina era preso d’assalto in edicola. Oltre un milione di copie vendute. La stampa di mezzo mondo che riprendeva la prosa della matta e ne faceva oggetto di dibattiti che duravano settimane. Allora i giornalisti, orgogliosi di avere partecipato alla costruzione del capolavoro di successo, e godendo di riflesso della gloria di Oriana, si davano di gomito: «Però, la matta ha colpito ancora».
Fu durante una di quelle notti infernali che Fallaci entrò nella mia vita. Nel 1981, o ’82, una sera, saranno state circa le 22, dunque ancora nella viva fase di elaborazione di un suo articolo, mentre Oriana era indaffarata, intenta a cambiare un aggettivo, a togliere una virgola, a metterne un’altra, fumando come una ciminiera, a un certo punto si accorse di avere finito le sigarette. Sul suo viso lessi per un istante un lampo di disperazione. Ma non si perse d’animo e, dopo essersi guardata intorno con una rapida occhiata per scorgere qualcuno che fumasse, come un falco pose i suoi occhi su di me, che avevo un pacchetto di Muratti sulla scrivania, poggiato accanto alla Olivetti portatile. E in un soffio me la ritrovai dinnanzi alla postazione di lavoro a me riservata: «O te, bel giovane, mi offriresti una sigaretta?». «Prego» risposi, porgendo un intero pacchetto che avevo estratto dal mio cassetto appositamente per lei. Oriana, risollevata, anzi contentissima come una bimba, tornò al suo meticoloso lavoro di cesello sul suo pezzo. Sennonché, fumando una cicca dietro l’altra, dopo un’ora e mezza aveva già prosciugato le ultime riserve che le avevo procurato. Era un fumo nevrotico il suo. Rieccola lì, parata davanti alla mia scrivania. Sollevai lo sguardo dalle mie carte e vidi che mi fissava.
«Ne hai altre?» mi chiese.
«Non ho più pacchetti, ma te ne do alcune delle mie.»
Ne estrassi tre o quattro per me e le lasciai il resto. Afferrò il tutto e, prima di girare i tacchi, commentò: «Le Muratti non sono buone, pizzicano in gola».
«Cambierò marca» replicai.
«Bravo, vedo che le idee intelligenti non ti mancano.»
Mi sembrava una matta completa, ma ne ero affascinato, poiché Oriana metteva nel suo lavoro una tale foga e concentrazione da suscitare ammirazione. Fallaci terrorizzava chiunque, faceva casini, urlava, non era mai paga di ciò che si stava creando. Non era considerata né era vista come una donna, bensì come una giornalista scassacazzi, una sorta di Attila della carta stampata.
Alcuni anni dopo passai dal «Corriere della Sera» alla direzione dell’«Europeo», il settimanale che aveva lanciato Oriana. Chiamò in redazione chiedendo del direttore. Risposi. Fallaci mi salutò cordialmente, dicendo che le avrebbe fatto piacere incontrarmi per conoscermi di persona. Combinammo l’appuntamento presso il bar di un albergo, a Milano. Non appena mi vide nel luogo convenuto, Fallaci si alzò dalla poltrona e scoppiò a ridere.
«Ma tu sei il bel giovane delle Muratti!»
«Sì, sono io. Ma adesso fumo Philip Morris.»
«Sei peggiorato.»
Da quel giorno la nostra tribolata amicizia si intrecciò con il lavoro. Erano più numerose le liti delle conversazioni. Oriana si divertiva a questionare, qualsiasi spunto era motivo di piccoli scontri, cui seguivano immancabili riappacificazioni, talvolta precedute da scambi di lettere piccate. Oriana mi chiamava, mi dava suggerimenti sulle tematiche da approfondire, mi segnalava le campagne da sostenere, i motivi per cui battermi. A volte le dicevo che in Italia ormai era cambiata la musica, che era arrivata la Lega, lei replicava: «Ma chi? Quei bischeri? Sono proprio dei campagnoli».
Ogni due o tre mesi rientrava in Italia e voleva vedermi. Fallaci si sentiva quasi esiliata, ma desiderava vivere negli Stati Uniti, nel centro di New York aveva una stupenda casa in stile liberty. Insomma, il suo era un esilio volontario e dorato. Però comprendo che in patria si sentisse avversata. Oriana era amata dai lettori ma non dai colleghi, che la invidiavano per i suoi successi e non la tolleravano per la sua arroganza e il suo caratteraccio. Solo con me la brillante giornalista non manifestava atteggiamenti di presunzione, era molto carina. Mi riempiva di regali, camicie stupende, sculture per la casa.
Un giorno concordammo una cena in via Statuto, da Alfio. Alle 21 ero seduto al tavolo. Di lì a poco arrivò lei trafelata, con un borsone gigantesco. «È per te, Vittorio!» esclamò con entusiasmo. Ne estrasse una pelliccia di visone tra lo stupore degli avventori, che saranno stati una cinquantina, tutti attratti dalla Fallaci e soprattutto dalla pelliccia di foggia maschile. Dissimulai l’imbarazzo e cercai di manifestare gioia e qualcosa di più. Ma ero terrorizzato all’idea che, al prossimo rendez-vous, sarei stato obbligato a indossare quel capo per non offenderla. Oriana, vivendo gran parte dell’anno negli Stati Uniti, era diventata americana pure nei gusti, almeno a riguardo dell’abbigliamento da uomo. Mangiava come un uccellino: quattro granellini di riso insaporiti da una strisciolina di tartufo, tre o quattro acciughe salate, che prendeva con le dita per portarle alla bocca poiché diceva che in tale maniera le gustava di più. E beveva un vino dolce emiliano, Malvasia. Raccontava storie recitando con piglio da attrice teatrale, mimica formidabile, gusto per i dettagli, inserendo motteggi popolari e battute sferzanti. Una sera con lei di buonumore era più spassosa e sapida che al cabaret. Spigolosa e generosa, piena di slanci, si rabbuiava per un’inezia. E non apriva più bocca se non per dire: «O te, s’è fatto tardi, portami via da qui».
Durante la guerra del Golfo Oriana si era recata sul terreno dei conflitti per conto del «Corriere» e mi propose di essere intervistata da me per «L’Europeo». Non appena rientrò in Italia, ci incontrammo all’hotel Excelsior, a Roma. Tuttavia, forse per la nostalgia di casa che le aveva messo addosso l’atmosfera bellica, Oriana aveva fretta di rientrare a Firenze e non appena mi vide disse: «Si va da me. Subito». Così dalla capitale ci spostammo nel capoluogo toscano in macchina. Il suo appartamento era modesto. Ci mettemmo immediatamente all’opera. Facevo le domande, lei rispondeva, poi si pentiva. Dopo qualche ora mi ero rotto i coglioni e mi ero procurato un mal di testa pazzesco. Non ce la facevo più. Ne avevo fin sopra i capelli di quella matta e non vedevo l’ora di essere a Milano. Sano e salvo.
Erano circa le 20.30 quando le venne appetito. «Oh, si mangia qualcosa?» propose Oriana. «Volentieri» dichiarai io, che non vedevo l’ora di prendere respiro. Aprì il frigo e non trovò un cazzo. Mai frigorifero fu più triste di quello. L’unico elemento che alleggeriva un minimo tanta desolazione era costituito da un barattolo da mezzo chilo di caviale. Afferrate due posate, ci nutrimmo di cucchiaiate di caviale come fosse una minestra, rimettendoci subito al lavoro. Terminammo l’intervista a mezzanotte. Fu un parto travagliato. Oriana insistette a lungo affinché mi fermassi a dormire lì, ma io non avevo il cambio per il giorno seguente, e soprattutto ero animato da tanta voglia di rincasare e mi misi in macchina per correre a Milano, dove giunsi intorno alle 3 di notte. L’intervista fu un successo.
Arrivato l’inverno, Oriana invitò me e mia moglie, Enoe, a trascorrere l’ultimo giorno dell’anno in corso e il primo di quello nuovo con lei, a Greve in Chianti, località in cui la giornalista aveva una casetta bellissima. Purtroppo, il freddo era insopportabile e io ed Enoe, nel tentativo di non morire assiderati, dormimmo avvinghiati. Era presente una delle due sorelle di Fallaci, Paola, con la quale Oriana litigò tutto il tempo, persino durante la cena, per motivi futili.
A tavola consumammo una zuppa deliziosa. Io mi complimentai con le sorelle per la bontà di quel piatto. Non lo avessi mai fatto: Oriana si incazzò poiché non era stata lei a cucinare, bensì Paola. Avrebbe voluto averla preparata lei, quella maledetta minestra. Oriana aveva la sindrome della prima donna. Tornò a essere indiscussa e indiscutibile protagonista allorché iniziò a narrarci le vicende della guerra. Fallaci non si limitava a fare il suo racconto, si levava in piedi e sceneggiava il tutto come una diva. Noi la osservavamo affascinati e perplessi. Aveva la capacità di catturare il pubblico. Mia moglie aveva una simpatia particolare per questa donna, la quale spesso la chiamava per fare quattro chiacchiere.
Quando finalmente arrivò il momento di andare, Oriana mi pregò di seguirla in quanto desiderava farmi visitare un suo vecchio casale, che avrebbe voluto vendermi. La costruzione si trovava in prossimità di un fiume. Un freddo boia. Non me la sentii di fare questo «investimento». Enoe mi guardava con gli occhi sbarrati per la paura che io potessi accettare l’affare.
Dopo quel capodanno continuammo a vederci, poi nel ’92 i nostri incontri si fecero più sporadici. Io avevo assunto la direzione dell’«Indipendente» e per gli impegni reciproci ci perdemmo un po’ di vista. Oriana mi cercò qualche volta, io la scansai. Poi un giorno mi chiamò da New York e mi disse: «Vittorio, tu non mi vuoi più vedere perché ci ho i cancri». La rassicurai. Non era questo il motivo. Anzi, una ragione non c’era. A volte capita che i grandi amici si allontanino per un po’, ma ciò non vuol dire che l’affetto venga meno. Mi sembrava improbabile che avesse il cancro. Per chiunque Oriana era invincibile, una forza della Natura, indistruttibile: non poteva mica ammalarsi. Non la vidi mai piangere. «Ti voglio bene come sempre» le risposi.
Oriana, però, si ammalò sul serio.
Nel ’94, quando assunsi la direzione del «Giornale», Fallaci mi telefonò per congratularsi. Tra lei e Montanelli non correva buon sangue, quindi la notizia che io fossi alla guida del quotidiano da lui fondato al posto suo la allettava alquanto. Indro e Oriana discutevano spesso, del resto, con lei era facile litigare. Anche Biagi la odiava. Il motivo era semplice: lei era più brava di lui. Fallaci era vista da tutti come una rivale formidabile.
Nel periodo in cui fondai «Libero» il mio rapporto con Oriana divenne più intenso di prima e lei si attaccò morbosamente a me. Allora non stava affatto bene. Penso che mostrasse la sua vulnerabilità soltanto a me, eppure la dissimulava, la travestiva, perché non c’era cosa che la inorridiva di più del fare pena, tanto era il suo orgoglio. Mi chiedeva consigli, alcuni dei quali non ero in grado di darle: sui rapporti con gli editori, sui diritti d’autore, in generale, sui suoi affari. Spesso, la sera tardi, il mio cellulare suonava e difficilmente rispondevo. Ciononostante se sul display scorgevo il suo nome, pigiavo il tasto «ok» senza esitazione.
Nel fine settimana, conoscendo le mie abitudini e sapendo quindi che rientravo a Bergamo, mi chiamava direttamente a casa. Non appena affondavo la forchetta negli spaghetti, con una puntualità sconcertante, l’apparecchio squillava. «Pronto, sei te, Vittorio?» domandava con tono profondo. Minimo minimo mi toccavano trenta minuti buoni di monologo, infiorato di coloratissimi toscanismi, tra cui invettive variamente distribuite a Tizio e a Caio. Mi metteva in guardia dal pericolo costituito dall’islam radicale. Mi parlava molto male di alcuni colleghi. I suoi giudizi erano folgoranti. Le sue critiche ai politici italiani, feroci. Le sue previsioni nazionali e internazionali, pessimistiche. Con me si sfogava. A un tratto, però, mi faceva intendere che si era rotta le scatole di parlare e bruscamente si congedava. «Ora mi sono stufata, me ne vado a dormire, ci ho i cancri, vaffanculo, ciao!», e metteva giù la cornetta. Finalmente potevo tornare al mio spaghetto. Ormai freddo.
Tra il 2003 e il 2004 Oriana cominciò a scrivere per «Libero» e nel 2005 mi consegnò un pezzo meraviglioso, si trattava di un’intervista che aveva eccezionalmente concesso a un prete polacco. Era estate e per la prima volta il quotidiano da me fondato superò le 100.000 copie. Passare un suo articolo era il solito tormento, l’equivalente di votarsi al suicidio. La affidai ad Alessandro Gnocchi, che per lei assunse lo stesso ruolo che aveva avuto il povero Sandrino, ossia Cosino. Nonostante fosse sfiancante, avere a che fare con Oriana rappresentava un onore per chiunque.
Un giorno mi attaccò con un pretesto che non ricordo, probabilmente sempre per qualcosa inerente a uno dei suoi articoli, non le andava mai a genio niente. Da New York mi mandò una lettera carica di insulti tramite fax. Fu una lite furibonda. Io feci ciò che forse non si sarebbe aspettata: le risposi a tono, dicendogliene di tutti i colori. Il fatto che l’avessi mandata al diavolo invece di allontanarla, chissà perché, l’avvicinò ancora di più a me. Non avevo reagito con odio, ma le avevo tenuto testa. Una mattina mi chiamò come se non fosse successo nulla. Era un tipetto davvero particolare. Presa dal desiderio di sistemare i conti, mi propose ancora una volta un acquisto immobiliare. Stavolta si trattava della sua casa di New York. «Oriana, come ti salta in mente? Io non parlo l’inglese, non prendo l’aereo, non mi muovo da Milano, cosa devo farci con un appartamento negli Stati Uniti?» le risposi. E lei rise di gusto.
Gli ultimi suoi dodici mesi furono duri. Stava sempre peggio. Le telefonate dall’America erano brevi ma frequenti. «Ci ho tre o quattro cancri, Vittorio, non li conto nemmeno più.» Si stancava presto, aveva il fiato corto e troncava la comunicazione: «Ora ciao ché devo morire». Che idiota ero: pensavo scherzasse e non la pigliavo sul serio.
A giugno 2006 squillò il cellulare. Era lei. Mi pose un problema. «Vittorio, ho bisogno del tuo aiuto. Rientro in Italia poiché voglio morire a Firenze. Prima però faccio un salto, anzi mi trascino a Milano. E lì non so dove appoggiarmi. Non ho casa e in albergo non scendo. Mostrarmi in pubblico conciata in questo modo, con i cancri che mi divorano, non mi garba. Dimmi te, che si fa?» Percepita la sua disperazione, non esitai a proporle la m...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Il borghese
  4. I. Un prete per imparare
  5. II. Nel tempio del «Corriere»
  6. III. Dal «Corriere d’Informazione» al «Corriere della Sera»
  7. IV. Oriana Fallaci
  8. V. Eugenio Montale
  9. VI. Enzo Biagi
  10. VII. Indro Montanelli
  11. VIII. Gaetano Afeltra
  12. IX. Giulio Andreotti
  13. X. Amintore Fanfani
  14. XI. Ciriaco De Mita
  15. XII. Bettino Craxi
  16. XIII. Giorgio Bocca
  17. XIV. I lavori della mia vita
  18. XV. Padre di famiglia
  19. Copyright