Mi presento: Monica Graziana Contrafatto, nata a Gela il 9 marzo del 1981. Figlia di Rocco, meccanico sulle piattaforme petrolifere, e Maria Rita, casalinga.
Ho avuto in dono un’infanzia non felice: felicissima. Avevo tutto quello che un bambino potrebbe desiderare: genitori amorevoli e attenti, una grande famiglia, coccole, favole, giochi, amici.
Mio padre era spesso via per lavoro, ma quando era a casa stavamo sempre insieme. Ricordo le sere in cui era lui a mettermi a letto, inventandosi storie che oggi conosciamo solo noi due. Se di pomeriggio la mamma cercava di narcotizzarmi per il pisolino con l’aiuto di Pinocchio, Biancaneve e altre fiabe classiche, quando era ora di addormentarsi per la notte (mai oltre le nove, come per tutti i bambini degli anni Ottanta) a volte mio padre si esibiva nei cosiddetti “raccontini”: favole minuscole sui grandi misteri della vita. Mi è rimasto impresso il raccontino della cicogna, grazie al quale ho scoperto che le persone, quando vogliono un bambino, non devono fare altro che affacciarsi al balcone e chiamare: “Cicogna, cicogna!”. Come una specie di Babbo Natale o di Gesù Bambino, che può sentire i desideri di tutti, la cicogna plana verso la loro casa per prendere l’ordinazione e chiedere se preferiscono un maschio o una femmina. Dopo nove mesi, puntualissima, glielo/a consegna. Non so se il raccontino poi continuasse, perché a quel punto ero già nel mondo dei sogni. Di solito crollavo nel lettone e poi venivo spostata a mia insaputa, infatti al mattino mi svegliavo nella mia camera: farmi prendere sonno là dentro era impossibile. Tuttora detesto addormentarmi per conto mio. Prima che arrivasse Raul, il mio cane, mi agitavo a ogni minimo rumore e tenevo la televisione accesa tutta la notte. Da quando c’è lui, invece, sono serena. Benché sia un cocker alto non più di quaranta centimetri – quindi il tipico cane da difesa, in grado di incutere terrore in chiunque provi ad avvicinarsi alla sua padrona, no? –, penso che possa fiutare il pericolo prima di me e avvertirmi, se non altro abbaiando. Diciamo che è un compagno di squadra: lui si affida a me, io mi affido a lui. Se questa reciprocità non ci fosse, che squadra saremmo?
A Gela, comunque, la compagnia non mancava. Giuseppe, il mio nonno paterno, impazziva per me: ero troppo piccola perché possa ricordarmelo, ma mio padre ama ricordare che mi portava dappertutto, anche in chiesa, e incredibilmente riusciva a farmi stare ferma per un’intera ora, mentre il prete diceva messa.
Vivevamo impilati in una palazzina in via Sammartino – una stradina di cento metri scarsi vicina al centro della città – insieme al resto della famiglia materna: la bisnonna al pianterreno, i nonni (Pina e Gesualdo, detto “Varduzzo” per ragioni che si sono perse nel tempo) al primo piano, la zia al secondo e noi al terzo. Questa zia, Franca, è per me una specie di seconda madre e, nonostante i sei anni di differenza, io e sua figlia ci consideriamo sorelle. Quando mi capita di avere bisogno chiamo lei; lei invece mi chiama sempre quando di bisogno non ne ha, perché sa bene che sono un tipo un po’ scostante, ma per fortuna la nostra antica sorellanza le permette di volermi bene lo stesso.
La leggenda narra che avessi molta fretta di crescere: non avevo nemmeno un anno che già parlavo e camminavo. E, ebbene sì, telefonavo alla nonna. Pare infatti che avessi una memoria prodigiosa. Bastava piazzarmi vicino al telefono (che allora era rigorosamente fisso, grigio e con una bella rotella per “girare” il numero) e io, sotto lo sguardo esterrefatto di mia madre, chiamavo la nonna Pina. Diciamo che da bambina ero molto più intelligente di quanto sia adesso!
Un tratto che invece mi è rimasto incollato e che sono riuscita a domare (leggermente) solo dopo l’attentato è l’irrequietezza.
Primavera, estate, autunno e inverno, stavo sempre fuori. Nella bella stagione anche gli adulti passavano le ore meno calde all’esterno: ricordo la nonna seduta per strada, quando stava ancora bene, a chiacchierare insieme alla zia e a mia madre. Ai tempi, in via Sammartino, quando c’era traffico passava sì e no una macchina all’ora, quindi noi bambini trascorrevamo la giornata tra il cortile e la strada. Non riesco a immaginare come facciano i ragazzini di oggi a stare asserragliati in casa, attaccati ai videogiochi: io avevo la “banda” di quartiere. Con le altre bambine giocavo a sima, che sarebbe la versione siciliana della campana, ma la separazione dei sessi non era particolarmente in voga. Preferivamo giochi trasversali che coinvolgessero tutti, come le biglie, le gare di sputi dal balcone, il calcio (utilizzando come porte le saracinesche dei garage) o guardie e ladri. Altrimenti passavo ore a pattinare o ad andare in mountain bike – rigorosamente su una sola ruota, quella di dietro –, inseguita dalle urla di mia madre. Ho ricordi bellissimi anche di quelle. A seconda del volume del “Mo-ni-ca-a-a” e del numero di “a” finali capivo quanto era grave il mio ritardo e quanto grossa l’avevo combinata.
L’unico “neo” (si fa per dire…) di quegli anni meravigliosi è stata la nascita di mio fratello. Dopo sei anni e mezzo da figlia unica, centro di gravità permanente delle vite di mamma e papà, è stato un trauma ritrovarmi un altro bambino in casa, bisognoso delle attenzioni che richiedono i neonati e festeggiato da tutti.
Di concreto non è accaduto niente, per la verità: nessuno si è “dimenticato” di me né ha messo i miei bisogni da parte. Viziatissima lo ero prima e lo sono stata dopo. Quello che chiedevo, ottenevo: se per caso i miei decidevano di dirmi qualche no, mi impuntavo e alla fine l’avevo vinta. È andata in questo modo con le bambole al luna park come con il motorino a quindici anni, un Phantom 50 con le ruote grosse, così andava più veloce.
Comunque. Mio fratello arrivò che ero già grandicella. Invece di prenderla con filosofia, la presi con la maturità dei miei sei anni: ai miei occhi questo fratello presentava un sacco di difetti. Prima di tutto, doveva scontare un peccato originale non da poco: non essere la sorellina che avevo esplicitamente richiesto alla cicogna, bensì un maschio.
Poi, ci fu la storia del nome. In Sicilia si usa chiamare il figlio maschio come il nonno paterno. Il nostro si chiamava, appunto, Giuseppe. Io avrei preferito Andrea, la mamma Gianluca. Chi si presentò allo sportello dell’anagrafe fu però mio padre, che non sentì ragioni e decretò che la tradizione sarebbe stata rispettata. In un attacco di rabbia scappai fuori dall’ufficio e corsi non so dove, inseguita dai miei genitori che dovettero cercarmi per un bel po’, prima di riuscire a ritrovarmi.
Se esistono due persone diverse sulla Terra, quelle siamo io e Giuseppe. Io egocentrica, logorroica, non taccio mai; lui riservatissimo, preferisce ascoltare che raccontare. Io a stento so dire “Hello”, lui parla quattro lingue oltre all’italiano. Io iperattiva, incapace di stare ferma, innamorata dell’azione e del mondo esterno; lui coltissimo, perso per i libri e la scrittura. A me chiedevano «Quando torni?», a lui «Quando esci?». Durante i weekend in cui faceva ritorno a casa da Catania, dove frequentava Lettere moderne, passava il tempo a leggere e prendere appunti in camera sua, immerso nel silenzio.
Mio padre la chiama “l’inversione”: gli sono toccati in sorte una figlia soldato e un figlio letterato. In parte la considera una fortuna: «Se fossi stata un uomo, chissà quanti guai mi avresti portato!» mi dice a volte, perché la conversazione in punta di fioretto decisamente non fa per me. Sono una persona molto diretta: se qualcosa non mi sta bene o ritengo che qualcuno si stia comportando scorrettamente, lo dico senza frapporre tanti filtri tra l’informazione e l’interlocutore. Secondo lui, se fossi stata un maschio avrei provocato chissà quante risse e reagito male chissà quante volte. Magari sarei anche tornata a casa pesta. Mi piace pensare che ne avrei più date che prese, ma forse devo questa convinzione al mio orgoglio isolano, chi può dirlo.
Come è facile intuire, stare seduta composta in un banco per cinque interminabili ore di lezione non era il mio forte. Le elementari non sono state un supplizio solo e unicamente grazie alla mia memoria, che mi consentiva di prendere buoni voti pur studiando meno del famoso “minimo indispensabile”. In matematica e in italiano ero fortissima: mentre quasi tutti avevano problemi a ricordarsi le tabelline o le poesie, io le leggevo una volta e mi rimanevano in mente, per l’orgoglio dei miei genitori. Purtroppo questo talento da Pico della Mirandola è andato smarrito con l’età: oggi la mia testa sente l’irrefrenabile bisogno di fare velocemente spazio e, per evitare figure tremende, sono costretta a scrivermi tutto. Le poche volte che mi dico: “Ma sì, me lo ricordo” sono quelle in cui non mi presento agli appuntamenti.
Come succede a tanti, alle medie mi sono un po’ persa: i pomeriggi non erano più entusiasmanti come un tempo, il carico di compiti è aumentato, le dinamiche tra ragazze si sono evolute… insomma, ho scoperto la noia. Per mia fortuna, contemporaneamente, ho scoperto anche lo sport.
Alle medie ho giocato a pallacanestro, poi purtroppo, mentre le mie compagne di squadra crescevano, e crescevano, e crescevano, io mi sono fermata a 1,64. Se non altro, la bassezza mi aiutava a essere veloce: quando le pianticelle di fagioli in squadra con me ancora cercavano di raccapezzarsi tra destra e sinistra, io avevo già conquistato la palla ed ero partita a scheggia verso il canestro avversario. Purtroppo, arrivata là dovevo per forza passare la mano, visto che nei tiri ero una frana.
Alle superiori ho scoperto la pallamano: a parte una certa reticenza nel frequentare gli allenamenti dall’inizio alla fine, è stata una bellissima esperienza. Mi piacevano le persone con cui giocavo, mi divertivo alle partite: con la squadra della scuola sono anche diventata campionessa regionale, poi i nostri sogni di gloria nazionale si sono infranti contro delle avversarie di Napoli e abbiamo un po’ rallentato.
Adoravo anche l’atletica. Più guardarla che praticarla, per la verità, perché non è uno sport di squadra – ed è in compagnia che ci si diverte, secondo me. Ero una tifosa di Fiona May, una campionessa talmente forte da detenere tuttora il record italiano (7 metri e 11 centimetri, imbattuto dal 1998). Oggi lo sono della figlia, Larissa Iapichino, giovane promessa del pentathlon.
Comunque. Le mattine erano strazianti, riprendevo fiato durante i pomeriggi. Ero così poco interessata allo studio che ho scelto le superiori in funzione dei giorni di occupazione – anzi, okkupazione – e sono finita a frequentare ragioneria. Si può dire che il secondo anno abbia deciso di farmi bocciare: nel primo quadrimestre non ho letteralmente aperto i libri, appena possibile sgusciavo in palestra e lì rimanevo fino a sera. Nel secondo ho tentato un recupero tanto disperato quanto ridicolo, visto che il mio voto in condotta era talmente basso che non mi sarei salvata neanche con la media del dieci.
L’anno successivo mi sono dovuta rimettere in riga, per non incorrere nelle terrificanti conseguenze ventilate da mio padre: sono andata a scuola anche durante i giorni di occupazione o quando gli insegnanti facevano sciopero. A recitare questa commedia eravamo in due: io e il secchione del gruppo, con la differenza che lui studiava lo stesso, mentre io ero completamente impreparata. Nonostante tutto ero serena: sapevo che, con la classe vuota per tre quarti, nessuno mi avrebbe interrogata. In compenso, grazie alla mia sola presenza avrei fatto bella figura e guadagnato qualche punto in condotta.
Se nella mia vita ho vissuto un momento di liberazione, è stato alla maturità. Finalmente, la luce in fondo al tunnel. Sono andata a sostenere l’orale con il costume sotto i jeans. L’unica materia che mi piaceva e in cui andavo non dico bene, ma decentemente, era matematica: avevo un’ansia tale che sono riuscita a rimediare proprio lì un’ultima figura barbina. Meno male che con i commissari esterni me la sono cavata egregiamente, e ho strappato un ricco settantacinque.
Da quel momento ho capito che più studio, peggio è. Quando so poco riesco ad attivare altre risorse e a gestire comunque la situazione; al contrario, essere preparata non mi rassicura, anzi, mi fa temere di non riuscire a dimostrare quanto mi sono impegnata. È un cortocircuito che devo aver preso da mio padre, un uomo iperapprensivo.
Può suonare strano che un meccanico che ha lavorato come caposquadra nelle raffinerie in Iran ai tempi dello scià, in Iraq, in Tunisia, in Algeria e in Nigeria, oltre che naturalmente sulla piattaforma di Gela, possa essere ansioso, ma è proprio così.
Mio padre si preoccupa per tutto. È talmente buono e paziente che una mia collega, dopo averlo conosciuto, l’ha soprannominato “Papa Wojtyla”. Non che mia madre non sia sempre in allerta: vive con le antenne alzate da quando mi sono arruolata. E anche prima, da brava signorina quale sono sempre stata, l’ho spaventata in tutte le maniere: per esempio sfrecciando con il Phantom a tutta velocità davanti a casa su una ruota sola o catapultandomi giù da tutte le discese che trovavo sui pattini con i freni consumati.
Rispetto a mio padre, che anche quando è atterrito parla il linguaggio della tenerezza, mamma dimostra la sua preoccupazione in un altro modo. Lei e io ci assomigliamo molto, nel bene e nel male. Nel bene, siamo super espansive: diamo del tu a tutti, anche a chi abbiamo appena conosciuto. Nel male, siamo entrambe flessibili come il granito, schiette ai limiti della maleducazione e prive di qualsiasi timore nei confronti delle reazioni altrui. Preferiamo esprimerci chiaramente e non sprecare tempo nell’imbastire conversazioni fini a se stesse. Quando ero una ragazzina ci pizzicavamo, è inevitabile: con il mio carattere tenero e conciliante mi divertivo spesso a darle torto per il solo, perverso gusto di farla arrabbiare. Lei, che adora avere ragione e non tollera il contrario, reagiva seppellendomi di parole. In parte era anche una dinamica divertente: spesso è successo che entrambe abbandonassimo il campo, andandocene in due stanze diverse ma continuando a dircene di tutti i colori, incapaci di porre un freno alle rispettive parlantine.
Oggi è diverso. Sarà che tutte quelle liti ci hanno permesso di prenderci le misure a vicenda e di arrivare a conoscerci alla perfezione, sarà che io sono più matura e leggermente più tranquilla, sarà che lei con gli anni è diventata più accondiscendente, fatto sta che ci capiamo al volo e siamo una la spalla dell’altra. A lei basta il tono del mio “Pronto” al telefono per capire se è il caso o meno di pormi certe domande; io la sostengo nelle sue scelte e mi schiero al suo fianco ogni volta che ne ho l’occasione.
Se per anni sono stata la disperazione dei miei genitori, oggi ho finalmente imparato a prendermi cura di loro, atteggiamento che include il farmi carico delle loro paure. Durante il periodo che ho passato in ospedale, per esempio, mentre piangevano la mia gamba perduta io facevo di tutto per tirarli su di morale e consolarli, spiegando che – su una o due gambe – sarei rimasta me stessa, non avrei mai rinunciato alla mia autonomia. Poi, per spazzare via ogni dubbio, l’ho anche fatto.
Mi dispiace di essere stata a volte rude con loro, nel tentativo di far passare questi concetti, ma d’altra parte nell’anima sono un soldato. E la mimetica non è esattamente un abito per il ballo delle debuttanti.
Tutti i siciliani, raggiunta la maggiore età, vogliono solo una cosa: andarsene.
Adoriamo la nostra terra ma sappiamo bene che, se vogliamo lavorare, migliorare la nostra condizione sociale, costruire qualcosa, spostarsi è una scelta quasi obbligata.
Quand’ero bambina consideravo Gela il posto più bello del mondo, mai avrei immaginato di poter vivere altrove. Lì avevo la mia famiglia, lì avevo gli amici: non mi serviva nient’altro. Eravamo brava gente, e nessuno ci infastidiva. Il coprifuoco imposto dalla lotta alla mafia mi sembrava una regola come tutte le altre, non mi interrogavo sul motivo per cui alle sette di sera tutti dovessero rientrare in casa. Anche perché il nostro quartiere era talmente tranquillo che alcuni dei vicini, la notte, nemmeno chiudevano la porta a chiave.
Crescendo mi sono resa conto che certe compagnie erano da evitare, che i carusazzi (i “ragazzacci”, come sono soprannominati i mafiosi di oggi) sono forse più pericolosi per la gente delle “famiglie” di un tempo, perché non si limitano a farsi la guerra tra loro ma coinvolgono anche la popolazione. Ho visto i tre cinema della città chiudere uno dopo l’altro (anche se ultimamente due hanno riaperto i battenti), e tanti locali e negozi smettere di sollevare la saracinesca al mattino.
Della mia compagnia dell’epoca, a Gela non vive più nessuno. Le poche volte in cui ho la possibilità di tornare a casa esco pochissimo: non saprei con chi farlo. Tutti i miei amici vivono al Nord, compresa mia cugina. È pieno di gente questo Nord. A volte mi chiedo che cosa succederebbe se anche il Nord finisse i posti di lavoro… una tragedia!
Passato l’esame di maturità, comunque, ho ripescato un vecchio sogno: trasferirmi a Roma. E diventare un poliziotto.
Avevo visto la capitale due volte: la prima da bambina, la seconda a quindici o sedici anni.
Il primo viaggio aveva avuto una motivazione medica. Mia madre mi nutriva da sempre con una cura e un’attenzione uniche: quando ero piccola piccola, mi imboccava con mille trucchi (per esempio mi dava da mangiare davanti a Candy Candy, ...