Dopo il crollo dell’Impero romano d’Occidente (476 d.C.), comincia il lungo processo che porterà il latino variamente parlato nelle diverse parti d’Europa a diventare quelle che oggi chiamiamo lingue romanze o neolatine. Lingue come il francese, lo spagnolo, il portoghese, il rumeno e appunto l’italiano.
Il passaggio dal latino alle prime parlate neolatine (dette, per la fase più antica, «volgari») fu lento e graduale. Per diversi secoli le persone continuarono a non rendersi conto di parlare un’altra lingua. Anche perché, nel frattempo, il latino era molto cambiato rispetto a quello di Virgilio o di Cicerone.
Proprio per questo è difficile stabilire se i pochi documenti giunti fino a noi siano stati scritti all’epoca con l’intenzione di esprimersi in una lingua nuova. E, di conseguenza, individuare quella che potrebbe essere la presunta data di nascita della nostra lingua.
Il nostro viaggio nella storia della lingua italiana parte da Roma. E comincia scendendo in una catacomba. Dalla luce del sole alla penombra delle scale: tre piani che si addentrano sempre più in profondità. L’aria si fa fredda e comincia ad avvertirsi un odore di umido. Siamo nella catacomba di Commodilla, così chiamata dal nome della ricca matrona che donò questo terreno a una comunità cristiana. Nei primi tempi la catacomba è stata impiegata come luogo di sepoltura. Poi, anche di culto. Arrivati al secondo dei tre piani, infatti, la galleria si allarga e i muri appaiono rinforzati. Ci troviamo in una piccola cappella: una basilichetta ipogea (cioè, appunto, sotterranea) in uso tra il VI e il IX secolo. E qui c’è il motivo che ci ha spinti a scendere. Una scritta considerata da molti studiosi la più antica testimonianza della lingua che oggi chiamiamo italiano. Eppure, se ci guardiamo intorno, scritte non sembrano esserci. Non ci sono epigrafi scolpite nel marmo né parole dipinte sui muri. Nulla di così evidente da colpire la nostra attenzione.
Se però ci voltiamo verso l’affresco che occupa una delle pareti, e poi volgiamo lo sguardo alla fascia rossa che lo incornicia, ci rendiamo conto che qualcuno – graffiando la pietra – ha tracciato lì una breve frase. Per riuscire a leggerla dobbiamo avvicinarci perché la scritta è piccola (11 centimetri di altezza per 6,5 di larghezza) e ormai molto rovinata. Grazie a foto scattate quando ancora era integra, possiamo dire con certezza che il testo recita: NON / DICE / RE IL / LE SE / CRITA / ABBOCE, ovvero «Non dire le cose segrete ad alta voce».
Il grande affresco – raffigurante la Madonna con il Bambino e i santi Felice e Adautto – doveva trovarsi di fronte all’altare, nel punto in cui il sacerdote guardava mentre diceva la messa. Perché fino alla riforma liturgica del Concilio vaticano II (applicata sistematicamente solo dal 1969) l’officiante non era rivolto verso i fedeli, come adesso, ma verso l’altare. Dunque, su quel piccolo graffito doveva continuamente cadergli l’occhio. Ecco che ora le sue parole latine rimbombano nel silenzio della grotta. A un certo punto – adesso – la voce si abbassa, come stesse sussurrando tra sé e sé. Questo vuol dire che la scritta ha funzionato: l’obiettivo di chi l’ha tracciata è stato raggiunto.
Già, perché «le cose segrete» di cui parla la scritta (ille secrita) sono proprio le parti della messa che andavano dette a bassa voce. Si trattava, all’epoca, di una novità introdotta da poco. Facile che qualche sacerdote tendesse ancora a dimenticarsene e a pronunciare anche quelle orazioni a voce alta (abboce). Allora, le ipotesi sono due.
La prima è che la scritta sia un cartello di avviso o, meglio ancora, una sorta di promemoria. Se a scriverla fosse stato lo stesso sacerdote che ogni tanto si dimenticava di abbassare la voce, potremmo considerarla una specie di arcaico post-it. «Ricordati di dire a bassa voce le orazioni segrete!». Tornando molto più in qua nel tempo, qualcuno ricorderà ancora che quando le cinture di sicurezza divennero obbligatorie anche in Italia, molti attaccavano sul cruscotto della macchina un adesivo con un simbolo che significava: «ricordati di mettere la cintura!». (Oggi, grazie alla tecnologia, dimenticarsi delle cinture è diventato impossibile; l’incessante segnale sonoro non ci dà tregua finché non le indossiamo...).
L’ipotesi che, proprio sulla base di ragioni linguistiche, viene considerata più probabile è però un’altra. Cioè che chi ha scritto la frase l’abbia fatto con l’intento di prendere in giro il colpevole di quelle dimenticanze. In questo caso il graffito sarebbe, come tante scritte murali dei nostri giorni, nient’altro che un beffardo sfottò. Questo spiegherebbe perché – in un ambiente come quello religioso, in cui si aveva grande familiarità con il latino – qualcuno abbia scelto di scrivere questa frase in lingua volgare. Volgare in senso etimologico: lingua del volgo, del popolo. Quella lingua, sempre più distante dal latino, che a quel tempo si usava nel parlato di tutti i giorni.
Anche se a una prima lettura il testo può sembrare latino, ogni singola parola riporta in realtà al volgare: a quella che possiamo già considerare una forma di italiano antico. Vale anche per parole come
secrita (letteralmente «le cose segrete»), deformazione del latino
secreta, a sua volta plurale di
secretum «segreto». E anche per
ille e
dicere: parole latine, ma usate in un modo già molto diverso.
Ille (che nel latino classico era
illae «quelle») non ha infatti la funzione di aggettivo dimostrativo, ma di articolo determinativo (con il valore di «le»).
Dicere coincide con una forma del latino classico, ma è anche una forma ancora viva in molte parlate dell’Italia centro-meridionale. Basta pensare al napoletano, con cui il romanesco antico aveva molti tratti in comune. Non solo: in latino nessuno avrebbe detto
non dicere per dare un ordine. Avrebbe detto
ne dixeris o
noli dicere (come in
noli me tangere «non mi trattenere», la frase che Gesù risorto disse a Maria Maddalena).
È in particolare quell’abboce a rappresentare una prova evidente che chi scriveva aveva intenzione di fare il verso alla lingua parlata. Se riguardiamo con attenzione l’immagine, infatti, ci accorgiamo che la seconda b è stata aggiunta successivamente. Ed è stata inserita con il preciso scopo di rendere la scritta più fedele al modo in cui la frase veniva effettivamente pronunciata. Ancora oggi, quando parliamo (almeno dalla Toscana in giù) raddoppiamo sempre – quasi senza rendercene conto – la consonante che segue la preposizione a. Scriviamo a parte, a piombo, a Pietro, ma diciamo apparte, appiombo, appietro. Ce ne accorgiamo, appunto, solo quando la a e la parola successiva vengono scritte tutte di seguito, come se fossero una sola parola: appartarsi, appioppare, appena, apposta ecc. Non è un caso, poi, che la forma boce per voce (ancora diffusa in alcune parti d’Italia) sia la base etimologica di una parola come becero: cioè appunto, etimologicamente, qualcuno che parla a voce troppo alta.
Questa lingua così marcatamente volgare, allora, alluderebbe alla presunta rozzezza del destinatario. Un po’ come le scritte «Lazie gambione» di cui i tifosi romanisti (con molta ironia e altrettanta invidia) tappezzarono Roma nel 2001, quando l’altra squadra della città vinse lo scudetto. Il graffito di Commodilla andrebbe letto, insomma, come una caricatura linguistica. Una scritta fatta con l’intento di mettere in ridicolo – attraverso il linguaggio – quell’inadeguatezza rivelata dal modo rumoroso e superato di dire messa.
Arrigo Castellani, I più antichi testi italiani. Edizione e commento, Bologna, Pàtron, 1980. «Nel nome di Nostro Signore Gesù Cristo, l’anno ventunesimo del principato del nostro glorioso principe Landolfo, diciassettesimo del principato di Pandolfo e secondo del principato di Landolfo, eccellentissimi principi di lui figli...».
Capua, non molto prima dell’anno Mille. A quest’epoca la città fa parte del longobardo principato di Benevento, che comprende anche buona parte dell’odierno Lazio meridionale. Ed è qui che nel marzo 960 si tiene un processo in cui il giudice Arechisi è chiamato a risolvere una disputa territoriale. Un ricco signore di Aquino, Rodelgrimo figlio del fu Lapo, rivuole indietro alcuni terreni che il monastero di Montecassino, rappresentato dall’abate Aligerno, rivendica come suoi. Il processo si svolge alla presenza dell’aristocrazia locale; forse anche del principe e dei suoi figli, evocati nella formula iniziale. Di sicuro – complice l’aria mite della primavera – non sarà mancata la solita folla di curiosi, richiamata dall’importanza della contesa e dal lignaggio dei personaggi coinvolti.
Il primo a parlare è Rodelgrimo. Mostra al giudice un promemoria in cui quei terreni (oltre ventimila ettari!) sono descritti accuratamente con tutti i loro confini, e afferma di averli ereditati da suo padre. Da parte sua, il venerabile Aligerno – assistito dal chierico Pietro, avvocato del monastero – si appella al principio giuridico chiamato «usucapione». Come molti testimoni possono confermare, dice, quei terreni l’abbazia li ha sfruttati per trent’anni senza che nessuno protestasse: ora, dunque, le spettano di diritto.
Il giudice Arechisi ascolta attentamente, poi domanda a Rodelgrimo se ha dei documenti o qualche altra prova del fatto che quei terreni siano una sua eredità. Rodelgrimo scuote la testa e ammette che no, di prove non ne ha. Allora il giudice riconvoca le due parti, chiedendo all’abate Aligerno di portare con sé tre testimoni.
Non sappiamo in che lingua sia avvenuta questa discussione. Ma, com’era normale all’epoca, nel verbale redatto dal notaio Adenolfo tutto quello che è stato detto fin qui è scritto in latino. E allora perché questo atto notarile – questo placito, come si chiamavano le sentenze emesse da un giudice – è così importante per la storia della lingua italiana? Perché a questo punto il giudice dice che i tre testimoni, tenendo in mano la memoria in cui erano descritti i terreni contesi, dovranno pronunciare una precisa formula. «Sao ko kelle terre per kelle fini que ki contene trenta anni le possette parte sancti Benedicti». Una formula che i tre testimoni convocati nella successiva udienza – Teodemondo, diacono e monaco; Mari, chierico e monaco; Gariberto, chierico e notaio – ripeteranno tal quale, recitandola parola per parola. Pronunciandola, come si legge nel verbale, quasi con una voce sola («toti tres quasi ex uno ore»).
«Sao ko kelle terre per kelle fini que ki contene trenta anni le possette parte sancti Benedicti». Ecco, per la prima volta, una frase in lingua volgare all’interno di un testo in latino. Una frase in volgare all’interno di un testo giuridico: un testo ufficiale. Una frase in volgare che – proprio in forza di questa consapevole contrapposizione al latino – è stata tradizionalmente considerata l’atto di nascita della lingua italiana.
«Sao ko kelle terre per kelle fini que ki contene trenta anni le possette parte sancti Benedicti». Nel contenuto e nell’articolazione, la frase non ha in sé nulla di originale. Era, appunto, una formula di testimonianza codificata per avere valore le...