La terza volta che Makepeace si svegliò urlando, la madre andò su tutte le furie.
«Ti ho detto di scacciare quegli incubi!» l’apostrofò bisbigliando per non svegliare il resto della casa. «E qualunque cosa accada, di non gridare!»
«È stato più forte di me!» mormorò la ragazzina, spaventata.
La madre le prese le mani, il volto teso e grave alle prime luci del mattino.
«Non ti piace la tua casa. Non vuoi vivere con tua madre.»
«Ma sì! Certo che sì!» esclamò Makepeace, sentendo il mondo che le vacillava sotto i piedi.
«Allora devi imparare a trattenerti. Se gridi ogni notte, accadranno cose orribili. Ci cacceranno di casa!»
Appena dietro la parete dormivano la zia e lo zio di Makepeace, proprietari del forno al pianterreno, schietta e chiassona lei, burbero e scontroso lui. Sin da quando aveva sei anni, Makepeace accudiva i cuginetti piccoli e passava le giornate a imboccarli, pulirli, rammendarne gli abiti, svestirli, recuperarli sugli alberi dei vicini. E fra una cosa e l’altra dava una mano nelle faccende di casa e in cucina. Ma nonostante tutto la ragazzina e sua madre dormivano su un tavolaccio in uno stanzino gelido separato dal resto della famiglia. Erano ospiti in quella casa, e la sensazione era che il loro posto fosse un prestito, che si poteva revocare in ogni momento e senza preavviso.
«Peggio ancora, qualcuno potrebbe chiamare il pastore» proseguì la madre. «Oppure… altri potrebbero venirlo a sapere.»
Makepeace non aveva idea di chi potessero essere questi “altri”, ma da sempre questa parola indicava una minaccia. In quei dieci anni di vita la madre le aveva insegnato che non ci si poteva fidare di nessuno.
«Ci ho provato!» Notte dopo notte Makepeace pregava con devozione e poi andava a letto, al buio, concentrandosi con tutte le sue forze per non sognare. Ma l’incubo arrivava lo stesso, fatto di raggi lunari, bisbigli e figure deformi. «Che posso farci? Io vorrei tanto che finisse!»
La madre tacque per un lungo istante, poi le strinse la mano.
«Ti racconterò una storia» cominciò a dire, come tutte le volte che c’era in ballo qualcosa di serio. «Una bambina si perdette un giorno nella foresta, e un lupo l’inseguiva. Lei correva senza sosta graffiandosi e scorticandosi i piedi; il lupo ormai conosceva il suo odore e l’avrebbe seguita in capo al mondo. La bambina capì allora che era costretta a scegliere. Continuare a scappare e a nascondersi all’infinito oppure fermarsi, raccogliere un bastone e affilare la punta per difendersi. Secondo te quale sarebbe stata la decisione giusta, Makepeace?»
Makepeace comprese che non si trattava soltanto di una fiaba, e che dare la risposta giusta era importantissimo.
«Si può combattere un lupo con uno stecco?» domandò, dubbiosa.
«Uno stecco è un’opportunità.» La madre le rivolse un vago sorriso triste. «Una piccola opportunità. Smettere di fuggire, d’altro canto, è pericoloso.»
Makepeace ci pensò su.
«I lupi corrono più veloci delle persone» disse infine. «Se anche continuasse a scappare, presto o tardi il lupo la raggiungerebbe e la sbranerebbe. Le serve un bastone appuntito.»
La madre annuì piano. Non aggiunse altro, e non concluse il racconto. La ragazzina si sentì raggelare il sangue. Sua madre era fatta così a volte. Le conversazioni diventavano enigmi che celavano trappole, e ogni risposta comportava conseguenze.
Per quanto poteva ricordare Makepeace, lei e sua madre abitavano da sempre in quella minuscola cittadina operosa. Non riusciva a immaginare un mondo senza il fetore della pece e del fumo di carbone dei grandi chiassosi cantieri navali, senza i pioppi che le davano il nome – Poplar – o senza le paludi verdi e labirintiche, dove le greggi andavano a brucare. Londra incombeva qualche chilometro più in là, con il suo ammasso caliginoso di minacce e promesse. Era tutto familiare e semplice come respirare. Ma malgrado questo la ragazzina aveva la costante sensazione che lei e la madre fossero un corpo estraneo.
La madre non aveva mai detto: “Questa non è casa nostra”, non a parole almeno. Ma i suoi occhi non dicevano altro.
Appena erano giunte a Poplar, la madre le aveva cambiato il nome in Makepeace, per ingraziarsi la benevolenza della gente. Makepeace non sapeva quale fosse il suo vero nome, e questo le dava un senso di vaghezza, di indefinitezza. Makepeace, che significava “creare pace”, non sembrava neppure un nome. Era piuttosto un’offerta di riconciliazione con Dio e con la gente devota di Poplar. Era una richiesta di perdono per il vuoto in cui avrebbe dovuto esserci il padre della bambina.
Tutti i loro conoscenti erano dei devoti. Era così che la comunità stessa si definiva, devota, non per vanità ma per distinguersi da chi seguiva la strada oscura che conduceva alle porte dell’Inferno.
Makepeace non era la sola ad avere un nome bizzarro da ragazzina pia e osservante. Ce n’erano altre, e i loro nomi significavano “Verità”, “Sia fatta la Sua volontà”, “Derelitta”, “Redenzione”, “Scacciapeccato”, e così via.
Un pomeriggio sì e uno no la camera della zia ospitava incontri di preghiera e letture bibliche, e la domenica ci si radunava tutti nell’imponente chiesa color grigio ardesia.
Il pastore era dolce e garbato quando lo si incontrava per la strada, ma terrificante sul pulpito. Dai visi assorti dei fedeli Makepeace comprendeva che da quell’uomo irradiavano grandi verità, e una sorta di amore simile a una fredda cometa bianca. Esortava i fedeli a resistere alle tentazioni malefiche dell’alcol e delle scommesse e della danza; li invitava a rifuggire il teatro e le baldorie oziose del sabato. Erano tutte trappole tese dal demonio. Raccontava loro di quel che accadeva a Londra e nel mondo – gli ultimi tradimenti a corte, le macchinazioni ordite da infami cattolici. I suoi sermoni erano spaventosi ma esaltanti al tempo stesso. A volte Makepeace usciva dalla chiesa tutta euforica, immaginandosi l’intera congregazione come un’armata di soldati dalle armature scintillanti, uniti per lottare contro le forze dell’oscurità. Si persuadeva per qualche attimo che anche lei e la madre facessero parte di qualcosa di più grande e meraviglioso insieme ai loro concittadini. Era una sensazione destinata a non durare. Quasi subito tornavano a essere solamente un isolato esercito di due persone, distinte dal resto della gente.
La madre non diceva mai: “Non sono nostri amici”, ma le stringeva più forte la mano appena entravano in chiesa o si addentravano al mercato o si fermavano a salutare qualcuno. Era come se ci fosse uno steccato invisibile intorno a loro, che le separava da tutti gli altri. E così lo stesso mezzo sorriso che la madre riservava alle altre madri la ragazzina lo rivolgeva ai suoi coetanei; gli altri bambini, quelli che avevano il padre.
I bimbi erano piccoli sacerdoti del culto dei genitori, ne osservavano ogni gesto ed espressione in cerca di segni della loro volontà divina. Sin dai primissimi giorni di vita, Makepeace aveva appreso che lei e la madre non erano mai davvero al sicuro, e che gli altri avrebbero potuto tradirle.
Aveva così imparato a trovare conforto e vicinanza nelle creature prive di parola. Comprendeva la malizia operosa degli insetti, la rabbia e la paura dei cani, la pesante pazienza delle vacche.
Questa compassione finiva talvolta per cacciarla nei guai. Un giorno era tornata a casa con una ferita al labbro e il sangue dal naso dopo avere sgridato dei ragazzini che prendevano a sassate un nido d’uccelli. Uccidere gli uccelli per nutrirsene o rubargli le uova per la colazione andava ancora bene, ma la crudeltà ottusa e fine a se stessa la mandava davvero su tutte le furie. I ragazzini l’avevano guardata sbalorditi, e avevano cominciato a prendere lei a sassate. Non c’era di che stupirsi. La crudeltà era normale, faceva parte delle loro vite quanto i fiori e la pioggia. Erano abituati alle bacchettate a scuola, alle grida dei maiali dal retrobottega della macelleria e al sangue sulla segatura dopo le lotte dei galli. Devastare piccole vite piumate era una cosa naturale e fonte di soddisfazione per loro quanto saltare nelle pozze di fango.
E se non ci stavi, tornavi a casa con il naso sanguinante. Per sopravvivere Makepeace e sua madre avrebbero dovuto confondersi fra gli altri. Ma non sempre ci riuscivano.
Quella sera, dopo la storia del lupo, senza darle alcuna spiegazione, la madre condusse Makepeace al vecchio camposanto.
Di notte la chiesa pareva cento volte più grande, il campanile un rettangolo implacabile di nero assoluto. L’erba era morbida sotto i piedi e grigia alla luce delle stelle. In un angolo del camposanto c’era una piccola cappella di mattoni, abbandonata da tempo. La madre la spinse dentro, e gettò delle coperte in un angolino della cappella buia.
«Possiamo andare a casa adesso?» Makepeace sentiva un formicolio sulla pelle. C’era qualcosa lì vicino, avvertiva delle presenze tutt’intorno. Ne sentiva il brulicare inquieto, come zampette di ragno nella sua mente.
«No» disse la madre.
«Ci sono delle cose qui!» Makepeace provò a scacciare il panico crescente. «Le sento!» Con orrore riconobbe la sensazione, la stessa con cui cominciavano i suoi incubi: era un fremito di paura, con l’impressione che ci fossero nemici in agguato. «I demoni dei miei sogni…»
«Lo so.»
«Che cosa sono?» mormorò Makepeace. «Sono… morti?» In cuor suo conosceva già la risposta.
«Sì» rispose la madre, nello stesso tono pacato e imperturbabile. «Ascoltami. I morti sono come coloro che affogano. Sprofondano nell’oscurità, e cercano ogni appiglio intorno. Può darsi che non intendano farti del male, ma se glielo consenti, te ne faranno. Dormirai qui stanotte. Proveranno ad avvinghiarsi con i loro artigli e a entrarti nella testa. Qualunque cosa succeda, non devi permettergli di entrare.»
«Cosa?» esclamò Makepeace allibita, a voce alta, dimenticando per un attimo ogni prudenza. «No! Non posso stare qui!»
«Devi» insisté la madre. Nel volto della donna, scolpito e inargentato dalla luce delle stelle, non c’era posto per la gentilezza o per il compromesso. «Devi restare qui e affilare il tuo bastone.»
Sua madre era stranissima soprattutto sulle cose importanti. Era come se tenesse quest’altra metà di sé, questa parte determinata, indecifrabile, soprannaturale, nascosta nel baule sotto i vestiti buoni della domenica, per attingervi nei casi di emergenza. In momenti così non era sua madre, era Margaret. I suoi occhi parevano più cupi, i capelli sotto il berrettino più spessi, da strega, la sua attenzione focalizzata su cose che la figlia non era in grado di cogliere.
Di solito, quando la madre era così, Makepeace teneva il capo chino e non ribatteva. Stavolta però era sopraffatta dal terrore. Implorò come mai aveva implorato prima. Ribatté, protestò, pianse e le si avvinghiò con accanita disperazione. Non poteva lasciarla lì, non poteva, non poteva…
La madre scosse il braccio e si divincolò scagliando la figlia all’indietro. Si allontanò, uscì e sbatté la porta, facendo piombare la cappella nella più nera oscurità. Si udì il tonfo del chiavistello che ricadeva in posizione.
«Mamma!» gridò Makepeace, cui adesso non importava più nulla se le avessero scoperte. Provò a scuotere la porta, che non si mosse. «Mamma!» Non ci fu risposta, l’unico rumore che udì furono i passi che si allontanavano. Adesso Makepeace era sola con i morti, l’oscurità e il bubolare gelido dei gufi in lontananza.
Per ore restò sveglia e accovacciata nel suo nido di coperte, tremante di freddo, ad ascoltare i guaiti lontani delle volpi. Avvertiva le strane presenze cingerle la mente d’assedio, appostarsi in attesa del momento adatto, quando lei si sarebbe addormentata.
«Vi prego» implorò, premendosi le mani sulle orecchie, sforzandosi di non sentire i bisbigli. «Vi prego, vi prego non…»
Ma infine, malgrado ogni sforzo, i pensieri si annebbiarono, fu sopraffatta dal sonno e l’incubo venne a cercarla.
Come già altre volte, sognò una stanza scura e stretta, dal pavimento di terra battuta e dalle pareti di pietra nera come carbone. Cercava di chiudere gli scuri per impedire che i raggi lunari penetrassero: doveva tener fuori quei raggi che pullulavano di spiriti. Ma gli scuri della finestra non combaciavano, il nottolino era rotto. E dietro si apriva la notte malsana, le stelle che scintillavano penzolando come bottoni mezzi staccati.
Makepeace spingeva co...