Da dove nasce la poesia? Da dove arrivano le canzoni che cantiamo e le storie che raccontiamo? Vi siete mai chiesti com’è che qualcuno fa dei sogni così meravigliosi e sapienti e grandiosi e poi li trasforma in poesia per passarli al mondo, in modo che possano essere cantati e narrati finché il sole continuerà a sorgere e a tramontare, finché la luna continuerà a crescere e a calare? Come mai alcuni fra noi creano splendide canzoni e poesie e racconti, e altri no?
È una lunga storia, e nessuno ne esce troppo bene: contiene un omicidio, e inganni, bugie, stupidità , seduzione e faticosa ricerca. Ascoltate.
Iniziò poco dopo l’alba dei tempi, con una guerra fra gli dèi: gli Aesir combattevano contro i Vanir. Gli Aesir erano dèi guerrieri, votati alla battaglia e alle conquiste; i Vanir erano più gentili, fratelli e sorelle che rendevano fertile la terra e facevano crescere le piante, ma non per questo meno potenti.
Gli dèi Vanir e quelli Aesir erano troppo ben assortiti. Nessuna delle due parti riusciva a vincere. E, soprattutto, più combattevano più si rendevano conto di aver bisogno gli uni degli altri: che una battaglia gagliarda non dà gioia se non hai campi ben coltivati e prosperi allevamenti che forniscano cibo ai banchetti per festeggiare al termine delle ostilità .
Si riunirono per trattare la pace, e una volta conclusi i negoziati firmarono la tregua sputando uno dopo l’altro, sia gli Aesir che i Vanir, dentro la stessa tinozza. Mescolandosi, i loro sputi vincolavano l’accordo.
Seguì un banchetto. Mangiarono, bevvero l’idromele e brindarono, scherzarono e parlarono e si vantarono e risero mentre il fuoco si trasformava in brace, e il sole spuntava all’orizzonte. Poi, quando gli Aesir e i Vanir si alzarono per andarsene, pronti ad avvolgersi nelle pellicce e nei caldi tessuti e ad affrontare la neve pungente e la bruma del mattino, Odino disse: «Sarebbe un peccato lasciare qui i nostri sputi mischiati».
Frey e Freya, fratello e sorella, erano gli dèi Vanir che da quel momento sarebbero rimasti ad Asgard con gli Aesir, secondo i termini della tregua. Annuirono. «Potremmo farne qualcosa» disse Frey. «Dovremmo farne un uomo» disse Freya, e affondò le mani nella tinozza.
Lo sputo si trasformò e prese forma al tocco delle sue dita, e in un attimo assunse l’aspetto di un uomo che stava nudo di fronte a loro.
«Tu sei Kvasir» disse Odino. «Sai chi sono io?»
«Sei Odino l’altissimo» disse Kvasir. «Sei Grimnir e Terzo. Hai altri nomi, troppi per elencarli adesso, ma li conosco tutti, e conosco le poesie e i canti e i kenning con le perifrasi che accompagnano i tuoi nomi.»
Kvasir, creato dall’unione degli Aesir e dei Vanir, era il più saggio degli dèi: univa in sé testa e cuore. Gli dèi sgomitavano per rivolgergli le domande a cui tenevano, e le sue risposte erano sempre sagge. Osservava con attenzione, e interpretava correttamente ciò che vedeva.
Qualche tempo dopo, Kvasir si rivolse agli dèi dicendo: «Adesso voglio viaggiare. Visiterò i nove mondi, vedrò Midgard. Ci sono domande che non mi sono ancora state poste e a cui bisogna rispondere».
«Ma tornerai da noi?» chiesero gli dèi.
«Tornerò» disse Kvasir. «Perché c’è pur sempre il mistero della rete, che un giorno o l’altro bisognerà svelare.»
«La cosa?» chiese Thor. Ma Kvasir si limitò a sorridere, e lasciò gli dèi a chiedersi cosa avesse voluto dire, e mise il mantello da viaggio, e si allontanò da Asgard dirigendosi verso il ponte dell’arcobaleno.
Kvasir viaggiò di città in città , di villaggio in villaggio. Incontrò persone di ogni genere, le trattò gentilmente e rispose alle loro domande, e non c’era luogo dove il passaggio di Kvasir non portasse benefici.
In quei giorni c’erano due elfi oscuri che vivevano in una fortezza presso il mare. Qui mettevano in opera la magia e l’alchimia. Come tutti i nani, nei loro laboratori e nelle loro fucine costruivano oggetti meravigliosi, eccezionali. Ma c’erano oggetti che non avevano ancora realizzato, e farli era per loro un’ossessione. Erano fratelli, e si chiamavano Fjalar e Galar.
Quando vennero a sapere che Kvasir si trovava in una città vicina, decisero di andare a conoscerlo. Fjalar e Galar trovarono Kvasir nella sala conciliare, dove rispondeva alle domande dei cittadini, riempiendo di stupore chi lo ascoltava. Spiegò alle persone come purificare l’acqua e come creare dei vestiti con le fibre di ortica. Disse a una donna chi le aveva rubato il coltello, e perché. Quando ebbe terminato di parlare e i cittadini lo ebbero rifocillato, i nani si avvicinarono.
«Vorremmo farti una domanda che mai nessuno ti ha rivolto prima» dissero. «Ma dobbiamo farlo in privato. Vieni con noi?»
«Vengo» disse Kvasir.
Andarono alla fortezza. I gabbiani strillavano, e le grigie nuvole minacciose erano della stessa sfumatura di grigio delle onde. I nani portarono Kvasir nel loro laboratorio, nella parte più interna della fortezza.
«Cosa sono questi?» chiese Kvasir.
«Sono catini. Si chiamano Son e Bodn.»
«Vedo. E cos’è quello laggiù?»
«Come fai a essere tanto sapiente se non conosci questi oggetti? È un calderone. Noi lo chiamiamo Odrerir, fonte di estasi.»
«E vedo che qui avete dei secchi pieni di miele. È miele non sigillato dalle api, liquido.»
«Infatti» disse Fjalar.
Galar rivolse a Kvasir uno sguardo sprezzante. «Se tu fossi sapiente come dicono, sapresti qual è la domanda che vogliamo farti prima che apriamo bocca. E sapresti a cosa servono questi oggetti.»
Kvasir annuì rassegnato. «A me pare» disse «che se foste sia intelligenti che malvagi, potreste aver deciso di uccidere il visitatore e far defluire il suo sangue nei catini Son e Bodn. E poi scaldereste piano piano quel sangue nel calderone, Odrerir. Dopo di che unireste il miele liquido alla mistura e lo lascereste fermentare finché non diventa idromele, un idromele eccezionale, che intossicherebbe chiunque lo beva ma darebbe anche, a chiunque lo assaggi, il dono della poesia e il dono della cultura.»
«Siamo intelligenti» ammise Galar «e forse c’è qualcuno che ci ritiene malvagi.»
E con queste parole squarciò la gola a Kvasir, e poi insieme tennero Kvasir per i piedi sospeso sui catini finché non fu prosciugato anche dell’ultima goccia di sangue. Riscaldarono il sangue e il miele nel calderone chiamato Odrerir, e gli fecero altre cose che avevano personalmente ideato. Ci misero dentro delle bacche, e lo rimescolarono con un bastoncino. L’intruglio bollì, e poi smise di bollire, e loro due lo assaggiarono e risero, e ciascun fratello scoprì in sé versi e poesie che non aveva mai buttato fuori.
Il mattino seguente giunsero gli dèi. «Kvasir» dissero. «L’ultima volta l’hanno visto con voi.»
«Sì» dissero i nani. «È venuto qui con noi, ma quando si è reso conto che siamo soltanto dei nani, sciocchi e poco saggi, si è soffocato con il suo stesso sapere. Se solo fossimo stati in grado di rivolgergli delle domande.»
«È morto, dite?»
«Sì» dissero Fjalar e Galar, e diedero agli dèi il corpo dissanguato di Kvasir da riportare ad Asgard, per celebrare un funerale degno di un dio e forse (perché gli dèi non sono come gli altri, e la morte non sempre è permanente, per loro) per l’eventuale ritorno di un dio.
E così avvenne che i nani ebbero l’idromele della saggezza e della poesia, e chiunque desiderasse assaggiarlo doveva implorare i nani. Ma Galar e Fjalar davano l’idromele solo a quelli che trovavano simpatici, e a loro non stava simpatico nessuno tranne se stessi.
C’erano però delle persone nei cui confronti avevano degli obblighi. Ad esempio, il gigante Gilling e sua moglie: i nani li invitarono a venire a trovarli nella loro fortezza, e in un giorno d’inverno la coppia si presentò alla porta.
«Andiamo a fare un giro con la nostra barca» dissero i nani a Gilling.
Il peso del gigante faceva abbassare molto la barca, e i nani remando la portarono fino agli scogli che si nascondevano sotto il pelo dell’acqua. Prima la loro barchetta aveva sempre serenamente navigato sopra gli scogli. Non questa volta. La barca sbatté sugli scogli e si ribaltò, facendo cadere in mare il gigante.
«Torna a nuoto verso la barca» gridarono i fratelli a Gilling.
«Non so nuotare» disse lui, e fu l’ultima cosa che disse, perché un’onda gli riempì la bocca di acqua salata, e poi il gigante sbatté la testa contro gli scogli, e in un attimo scomparve alla loro vista.
Fjalar e Galar raddrizzarono la barca e tornarono a casa.
La moglie di Gilling li aspettava.
«Dov’è mio marito?» chiese.
«Lui?» rispose Galar. «Oh, è morto.»
«Annegato» aggiunse Fjalar, zelante.
La moglie del gigante gemette e singhiozzò come se le stessero strappando l’anima. Chiamò il marito morto e giurò che lo avrebbe amato per sempre, e gridò e si lamentò e pianse.
«Zitta!» disse Galar. «Le tue grida e i tuoi lamenti mi fanno venir male alle orecchie. Sono assordanti. Immagino dipenda dal fatto che sei una gigantessa.»
Ma la moglie del gigante pianse ancora più forte.
«Senti» disse Fjalar. «Ti aiuterebbe vedere dove è morto tuo marito?»
Lei tirò su col naso, e annuì, e pianse e gemette e si lamentò della perdita di quel marito, che mai sarebbe tornato da lei.
«Mettiti qui e ti indicheremo il punto» disse Fjalar, mostrandole esattamente dove stare e cioè fuori dal grande portone e proprio sotto il muro della fortezza. E fece un cenno al fratello, che salì di corsa fino in cima alle mura.
Appena la moglie di Gilling uscì, Galar le fece piombare un pietrone sulla testa, e lei cadde, con il cranio fracassato.
«Bel colpo» disse Fjalar. «Cominciavo a essere stufo di tutto quel baccano.»
Gettarono il corpo della donna in mare. Le dita delle onde grigie trascinarono la donna senza vita lontano da loro, e la moglie di Gilling e Gilling si riunirono nella morte.
I nani alzarono le spalle, e si ritennero davvero astutissimi nella loro fortezza sul mare.
Ogni sera bevevano l’idromele della poesia, e declamavano versi stupendi, creando formidabili saghe sulla morte di Gilling e della moglie di Gilling, che recitavano sul tetto della loro fortezza, e alla fine ogni notte si addormentavano, completamente ebbri, e si risvegliavano dove si erano seduti, o erano caduti, ...