Sprofondiamo nel silenzio per un lungo istante.
Corvium si spalanca intorno a noi, piena di gente, ma sembra vuota.
Dividi e conquista.
Le implicazioni sono chiare, il percorso è segnato. Farley e Davidson mi osservano con la stessa intensità e io ricambio i loro sguardi.
Suppongo che Cal non abbia idea, nessun sospetto che la Guardia Scarlatta e Monforte non intendano minimamente lasciargli il trono che gli verrà assegnato. Ma immagino che a lui importi più della corona che dell’opinione dei rossi. E poi non dovrei più chiamarlo Cal.
Tiberias Calore. Re Tiberias. Tiberias Settimo.
È il suo nome di battesimo, il nome che aveva quando l’ho conosciuto.
“Ladra” mi aveva chiamata allora. Era quello il mio nome.
Vorrei poter dimenticare l’ultima ora. Tornare indietro solo un poco. Vacillare. Inciampare. Godermi un altro secondo di quella strana beatitudine in cui l’unica cosa che sentivo era il dolore dei muscoli stanchi e delle ossa riparate. Il vuoto dopo l’adrenalina della battaglia. La certezza del suo amore e del suo sostegno. Eppure, nonostante mi abbia spezzato il cuore, non riesco a trovare la forza di odiarlo per la sua scelta. La rabbia arriverà, più avanti.
Farley ha l’aria preoccupata. È strano vederla così. Da Diana Farley mi aspetterei una fredda determinazione o l’ira tipica della rossa. Si accorge che la sto fissando e contrae le labbra deturpate dalla cicatrice.
«Riferirò la decisione di Cal al resto del Comando» esordisce, rompendo il silenzio carico di tensione. Mantiene un tono basso e pacato. «Soltanto al Comando. Ada trasmetterà il messaggio.»
Il presidente di Monforte annuisce in segno di approvazione. «Bene. Credo che i generali Tamburo e Cigno possano aver immaginato simili sviluppi. Hanno tenuto d’occhio la regina Lerolan da quando è entrata in gioco.»
«Anabel Lerolan è rimasta alla corte di Maven abbastanza a lungo, almeno un paio di settimane» ribatto. Sembra incredibile, ma non mi trema la voce. Le parole mi escono senza difficoltà, piene di vigore. Devo sembrare forte, anche se al momento non mi ci sento affatto. È una finzione, però a fin di bene. «È probabile che sia più informata di me.»
«Può darsi» commenta Davidson con un cenno pensieroso. Poi punta lo sguardo a terra. Non cerca nulla, si concentra soltanto. Un piano gli balena nella mente. Il percorso che ci attende non sarà facile, questo lo capirebbe persino un bambino. «Motivo per cui devo tornare lassù» soggiunge quasi scusandosi. Come se potessi prendermela con lui perché fa quel che deve. «Orecchie e occhi aperti, intesi?»
«Orecchie e occhi aperti» rispondiamo io e Farley all’unisono, e ci stupiamo a vicenda.
Lui esce dal vicolo e si allontana. La luce del sole risplende sui suoi capelli grigi e luminosi. Si è premurato di darsi una ripulita dopo la battaglia, si è lavato via di dosso il sudore e la cenere e si è tolto l’uniforme sporca di sangue per metterne una intonsa. Il tutto per ostentare la sua solita immagine tranquilla, composta e inspiegabilmente ordinaria. Una saggia decisione. Gli argentei dedicano davvero tante energie all’aspetto esteriore, al falso mito della forza e del potere apparenti. Soprattutto re Samos e la sua famiglia, nella torre sopra di noi. Accanto a Volo, Evangeline, Ptolemus e l’infida regina del casato Viper, Davidson si nota a malapena. Potrebbe confondersi con le pareti, se volesse. Non si accorgeranno di lui. Non si accorgeranno di noi.
Inspiro, titubante, e deglutisco, poi mi sforzo di fare il ragionamento successivo. Nemmeno Cal se ne accorgerà.
“Tiberias” rimprovero a me stessa. Stringo il pugno e mi pianto le unghie nella carne, procurandomi abbastanza fastidio. Chiamalo Tiberias.
Le mura nere di Corvium sembrano stranamente silenziose e spoglie, ora che l’assedio è terminato. Distolgo lo sguardo dalla figura di Davidson che si allontana e mi volto a osservare i parapetti che delimitano la sezione interna della città fortificata. La tempesta di neve scatenata dagli agghiaccianti è ormai un ricordo, il buio si è diradato e ora sembra tutto meno spaventoso. Fino a poco tempo fa, i soldati rossi venivano fatti sfilare come un gregge per le vie della città, molti di loro in marcia verso una morte certa in trincea. Ora invece pattugliano le mura, le strade, i cancelli. Siedono accanto ai sovrani argentei e parlano di guerra. Qualche soldato con la bandana color cremisi cammina avanti e indietro, lo sguardo vigile e la vecchia pistola stretta in mano, pronta all’uso. I membri della Guardia Scarlatta non si faranno cogliere di sorpresa, benché non abbiano motivo di essere così sulle spine. Almeno per ora. Gli eserciti di Maven si sono ritirati, e nemmeno Volo Samos sarebbe tanto sfrontato da sferrare un attacco all’interno di Corvium. Non finché avrà bisogno della Guardia, di Monforte e di noi. E soprattutto non finché Cal (Tiberias, cretina!) farà i suoi bei discorsi vuoti sull’uguaglianza. Come noi, Volo ha bisogno di lui. Gli serve il suo nome, la sua corona e la sua stupida mano in quello stupido matrimonio con la sua stupida figlia.
Mi va a fuoco la faccia. Mi sento in imbarazzo per la fitta di gelosia che mi assale. Perderlo dovrebbe essere l’ultima delle mie preoccupazioni. Non dovrebbe far male quanto il pensiero di morire, di perdere la guerra, di lasciare che tutto quello per cui abbiamo combattuto sia vanificato. Eppure è proprio così. Non posso far altro che cercare di sopportare.
Perché non ho detto sì?
Ho voltato le spalle alla sua proposta. A lui. Ero a pezzi per l’ennesimo tradimento: quello di Cal, ma anche il mio. “Ti amo” è una promessa che abbiamo fatto entrambi e che entrambi abbiamo infranto. Dovrebbe significare: “Scelgo te rispetto a tutto il resto. Voglio te più di ogni altra cosa. Ho bisogno di te. Non posso vivere senza di te. Farò di tutto per impedire che le nostre vite si separino”.
Ma non l’ha fatto. E io non lo farò.
Valgo meno della sua corona e lui vale meno della mia causa.
E meno, molto meno, della paura di finire in un’altra gabbia. Mi aveva offerto una corona insopportabile, da concubina. Avrebbe fatto di me una regina, se avesse potuto mettere Evangeline di nuovo da parte. Ma io so già com’è il mondo stando alla destra di un re. Non mi interessa rivivere quell’esperienza. Benché Cal non sia Maven, il trono è sempre lo stesso. Cambia le persone, le corrompe.
Che strano destino sarebbe stato. Cal con la sua corona, la regina Samos e io. Mio malgrado, una piccola parte di me vorrebbe aver detto sì. Sarebbe stato facile. Un’occasione per lasciare andare, fare un passo indietro, vincere… e godermi un mondo che non avrei mai potuto neanche sognare. Offrire alla mia famiglia la migliore vita possibile. Tenerci tutti al sicuro. E restare con lui. Rimanere al fianco di Cal, una regina rossa a braccetto con un re argenteo. Con il potere di cambiare il mondo. Di uccidere Maven. Di dormire senza più incubi e vivere senza paura.
Mi mordo forte il labbro per scacciare quel desiderio. È allettante e a momenti capisco la scelta di Cal. Persino separati, siamo fatti l’uno per l’altra.
Farley si muove e fa rumore, attirando la mia attenzione. Sospira mentre appoggia la schiena alla parete del vicolo, con le braccia conserte. A differenza di Davidson, non si è presa la briga di cambiarsi l’uniforme insanguinata. La sua non fa schifo quanto la mia, sporca di fango e liquame. Com’è ovvio che sia, ha addosso del sangue argenteo che, seccandosi, è diventato nero. Sono passati solo pochi mesi dalla nascita di Clara e lei ostenta con fierezza i chili in più che ha accumulato sui fianchi. Qualunque compassione abbia provato nei miei confronti svanisce per lasciare spazio alla rabbia che le illumina gli occhi. Non ce l’ha con me, però. Alza lo sguardo verso la torre sopra di noi, dove l’insolita riunione di argentei e rossi sta cercando di determinare i nostri destini.
«Era lui, quello là dentro.» Non aspetta che chieda delucidazioni. «Con i capelli argentati, il collo grosso e un’armatura ridicola. Eppure respira ancora, nonostante abbia trafitto il cuore di Shade con una lama.»
Mi affondo le unghie nella carne al pensiero di Ptolemus Samos, il principe degli Squarci, l’assassino di mio fratello. Provo anch’io una rabbia improvvisa, proprio come Farley. E una simile dose di vergogna.
«Sì.»
«Solo perché hai stretto un accordo con sua sorella. La tua libertà in cambio della vita di Ptolemus.»
«In cambio della mia vendetta» ammetto con un borbottio. «E sì, ho dato la mia parola a Evangeline.»
Farley digrigna i denti, palesemente disgustata. «Hai dato la tua parola a un’argentea. Come promessa vale meno della polvere.»
«Ma è pur sempre una promessa.»
Emette un suono gutturale, una specie di ringhio. Raddrizza la schiena robusta e si volta verso la torre. Mi chiedo quanto autocontrollo le ci voglia per non tornare lassù e strappare gli occhi dalle orbite a quel mostro. Non la fermerei, se ci provasse. Anzi, mi metterei seduta a guardare la scena.
Apro appena il pugno e allevio il dolore. Faccio un passo avanti in silenzio, accorciando le distanze tra noi. Dopo un attimo di esitazione, le poso una mano sul braccio. «Una promessa che io ho fatto. Non tu, né nessun altro.»
Farley si calma un poco e il suo ghigno rabbioso si trasforma in un sorrisetto sarcastico. Mi guarda dritto in faccia, i suoi occhi azzurri brillano alla luce del sole. «Credo che tu sia più tagliata per la politica che per la guerra, Mare Barrow.»
Ricambio con una smorfia triste. «Sono la stessa cosa.» Una dura lezione che ho finalmente appreso. «Pensi di poterlo fare? Ucciderlo?»
Un tempo, mi sarei aspettata che mi deridesse per il mio scetticismo. Farley è una donna dura, con una corazza ancora più dura. È così che dev’essere. Eppure qualcosa – forse Shade, di certo Clara, il legame che ora abbiamo – mi permette di vedere al di là dell’aspetto fermo e distaccato del generale. Tentenna e il suo sorrisetto si affievolisce.
«Non lo so» mormora. «Ma non potrò più guardarmi allo specchio, o guardare Clara, se non ci provo.»
«Nemmeno io, se ti lascio morire provandoci.» Stringo la presa sul suo braccio. «Ti prego, non fare stupidaggini.»
In un battibaleno, quel sorrisetto riacquista tutto il suo vigore e lei mi fa addirittura l’occhiolino. «Da quando in qua commetto stupidaggini, Mare Barrow?»
Voltarmi a guardarla mi provoca una fitta alla nuca, all’altezza delle cicatrici. Me n’ero quasi scordata. Quel dolore non è nulla in confronto a tutto il resto. «Mi chiedo solo come andrà a finire» mormoro nella speranza che capisca.
Lei scuote la testa. «Non posso rispondere a una domanda con troppe opzioni possibili.»
«Voglio dire… Shade. Ptolemus. Tu lo uccidi, e poi? Evangeline uccide te? Uccide Clara? Io uccido Evangeline? E avanti così, all’infinito?» Non sono estranea alla morte, ma stavolta sembra sorprendentemente diverso. Sono omicidi calcolati: è una cosa che farebbe Maven, non è da noi. Benché Farley avesse condannato a morte Ptolemus molto tempo fa, quando ancora mi spacciavo per Mareena Titanos, l’aveva fatto per la Guardia. Per una causa, per qualcosa di diverso dalla cieca e spietata vendetta.
Il generale sgrana gli occhi, il suo sguardo spiritato è insostenibile. «Vuoi che lo lasci in vita?»
«Certo che no» sbotto. «Non so cosa voglio. Non so cosa sto dicendo.» Le parole rotolano fuori una dopo l’altra. «Ma mi pongo comunque delle domande. So come la rabbia e la vendetta possano ridurre le persone e chi sta loro intorno. E di sicuro non voglio che Clara cresca senza la madre.»
Lei si volta di scatto dall’altra parte e nasconde il viso. Ma non abbastanza in fretta da celare un fiotto improvviso di lacrime che, però, non scende. Con una scrollata di spalle, si libera dalla mia presa.
Io insisto. Devo. Ha bisogno di sentirselo dire: «Ha già perso Shade e se potesse scegliere tra la vendetta del padre e la vita della madre, so per cosa opterebbe».
«A proposito di scelte» riprende senza ancora guardarmi. «Sono fiera della tua...