My World
  1. 248 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
eBook - ePub

Informazioni su questo libro

Richmond 2015, Doha 2016, Bergen 2017. Tre perle per scalare la vetta dell'Olimpo dei ciclisti, autentici capolavori per regalarsi l'immortalità.

Tre volte campione del mondo UCI, come solo Alfredo Binda, l'«Imbattibile», e Eddy Merckx, il «Cannibale». Tre maglie iridate UCI conquistate in tre anni consecutivi, come nessuno prima di lui.

Basterebbe questo per raccontare chi è Peter Sagan. Ma il più forte ciclista slovacco di tutti i tempi è molto di più. E le pagine di My World ci aiutano a scoprirne i lati umani e professionali meno noti.

«Se ci sono cento corridori sulla linea di partenza, al traguardo ci saranno cento storie diverse da raccontare.» E la sua è davvero speciale.

A soli 28 anni vanta un palmarès degno dei grandi di questo sport, che annovera già più di cento affermazioni tra cui spiccano, oltre alle «maglie arcobaleno UCI» da campione del mondo, due Classiche monumento come il Giro delle Fiandre 2016 e la tanto sospirata Parigi-Roubaix 2018, tre Gand-Wevelgem, undici tappe al Tour de France, impreziosite dalla conquista di sei maglie verdi, e quattro alla Vuelta a España. Nel 2016 è stato incoronato come il ciclista migliore dell'anno.

Definire il Sagan ciclista è impresa ardua. Un velocista puro? Uno sprinter che tiene in salita? Un finisseur capace di sparate fulminanti negli ultimi chilometri? Uno scattista? A giudicare dalle sue vittorie, è una miscela esplosiva di tutto questo. Definire il Sagan uomo è forse ancora più difficile. Il personaggio abbaglia. «Tourminator» è uno showman unico, capace, in un ambiente tutto sudore e fatica, di divertire il pubblico con improvvise impennate su una ruota sola, in corsa, anche al cospetto di «giganti» come il Mont Ventoux, o di lanciarsi in gustosi siparietti in conferenza stampa o in esultanze fantasiose e sempre diverse sulla linea del traguardo. E di divertirsi tra feste e scherzi con i compagni di squadra, e qualche birra di troppo. Ma la persona, lontano dai riflettori, è di grande spessore. E per la prima volta possiamo conoscerla a tutto tondo. Il legame forte col padre e quello simbiotico col fratello ciclista Juraj. Le amicizie inossidabili con il road manager Gabriele Uboldi e l'agente Giovanni Lombardi. L'impegno nel sociale con la Peter Sagan Academy rivolta ai ragazzi slovacchi. I rapporti con i colleghi.

Ad accompagnarci, con totale sincerità e immancabile senso dell'umorismo, in questo mondo fatto di passione per lo sport e per la vita, è lo stesso Peter, l'uomo che, negli ultimi anni, capelli lunghi e tatuaggi da rockstar, ha dato lustro al ciclismo professionistico.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2018
Print ISBN
9788804705314
eBook ISBN
9788852090578
Parte seconda

Doha

2016
Ornamento di separazione

INVERNO

Rendermi conto che avrei vinto, in quegli ultimi metri, incise significativamente sui minuti a seguire. È una gran cosa sapere già di essere il nuovo campione del mondo senza bisogno di lanciare la bicicletta al traguardo in un affondo disperato, o di aspettare che i giornalisti all’arrivo ti dicano se sei arrivato primo, o che i preparatori atletici ti abbraccino, o addirittura che sia il fotografo ufficiale a decretarti vincitore. Anche poter sorridere e lasciar andare le mani invece di accartocciarsi in un cumulo di sfinimento è assolutamente straordinario.
Mi misi in piedi in mezzo alla strada, spinsi via la bici senza far caso se ci fosse qualcuno a prendermela (grazie mille a chi l’ha fatto!) e lanciai il caschetto per aria. Incrociai lo sguardo di Tom Boonen mentre tagliava il traguardo qualche istante dopo e lui, a suo onore e merito, devo dire, invece di picchiare con stizza sul manubrio per l’occasione mancata, mi fece un largo sorriso e mi batté il cinque, come Elia Viviani e Zdeněk Štybar.
Ci fu un po’ di trambusto quando mi sembrò che alcuni dei complimenti stessero un po’ passando il limite. Attorno al podio, le iperboli della stampa iniziarono ad assumere toni surreali e io spostai la conversazione sulla crisi dei rifugiati in Europa. Non so se vi ricordate come andavano le cose nell’estate del 2015, ma ogni giorno c’erano notizie di gente disperata che moriva nel tentativo di fuggire da luoghi che un tempo aveva chiamato casa. Non che volessi autoproclamarmi ambasciatore o robe simili, solo mi sentivo un po’ a disagio che facessero la fila per baciarmi i piedi mentre nel mondo succedevano cose ben più importanti.
Ma nel mio, di mondo? Eh sì, era tanta roba. Il 2015 aveva fatto da sfondo ai momenti più bassi e anche a quelli più alti della mia carriera.
Ok, a questo punto devo ammetterlo, avevo deciso che assolutamente non mi volevo più ritirare. Era stata una faccenda seria: il superallenamento, il licenziamento di Bjarne Riis, i dissapori con Bobby Julich, la totale assenza di forma, il problema all’anca, la pressione del team, la presunta ridiscussione del contratto, la disillusione che si era impadronita di me; tutti questi elementi erano stati molto pesanti.
Ma la California, Patxi, il Team Peter e andare in bici mi avevano rimesso al mondo. Tutte queste cose insieme, sì. Ma una in particolare. Avere accanto una donna straordinaria come Katarina aveva risvegliato in me una forza che non sapevo di avere, e c’erano due cose di cui, cazzo, volevo essere sicuro: uno, che lei sapesse quanto l’amavo, e due, che non l’avrei lasciata andar via tanto facilmente.
E così ci sposammo, in Slovacchia, tra l’affetto dei nostri parenti e amici, neanche due mesi dopo che io ero diventato campione del mondo.
Riguardo al nostro matrimonio ci sono un paio di punti che devo chiarire, visto che la gente pare voglia sapere soprattutto di questo.
Molto interesse è suscitato dal fatto che non abbiamo voluto delle nozze da vip. In moltissimi hanno provato a intrufolarsi, a darci dei soldi, o anche solo a ottenere un invito, ma per quello che ci riguardava non rientrava proprio nello spirito di un’occasione del genere. Quindi se non riuscite a trovare granché su YouTube è per questo. Il giorno del nostro matrimonio è stato un mix di tradizioni slovacche, altre più specifiche della città natale di Katarina, e qualche trovata divertente di cui avevamo fantasticato tra di noi.
Ci siamo sposati nella città di Katarina, Dolný Kubín. In fase di preparativi, avevo acquistato una Cadillac bianca per accompagnarci alla cerimonia, ma quella si ruppe, malauguratamente, giusto il giorno prima. Per non rinunciare al desiderio che avevo di arrivare al mio matrimonio con un’auto veramente speciale, mi misi in giro e riuscii a mettere le mani sulla seconda miglior scelta: una vecchia Trabant verde.
Guidava il mio amico Martin, e tra un colpo di tosse e uno sputacchio del motore passammo tra le ali di amici e gente del posto che erano venuti a farci gli auguri. La prima tappa però non era in chiesa, bensì fuori dalla casa della famiglia di Katarina, per rispettare un’importante tradizione. In tutta franchezza, non sono sicuro se si tratti di un rituale slovacco o magari solo di un qualcosa che si usa fare a Dolný Kubín perché non l’avevo mai visto prima, comunque mi trovai di fronte un sottile tronco d’albero poggiato di traverso sul vialetto d’accesso e mi porsero un vecchio seghetto arrugginito. È compito del futuro sposo segare il pezzo di legno prima di poter passare, così mi misi all’opera. Dopo qualche minuto che ansimavo e sbuffavo con la lama spuntata, la folla intorno cominciò a spazientirsi. Mentre iniziavo a surriscaldarmi e a sudare nel pesante abito da sposo tipico slovacco che avevo indosso, mi venne da chiedermi se non avremmo magari dovuto muoverci il giorno prima per portarci avanti, ma poi, grazie al cielo, arrivò la cavalleria. O per meglio dire Martin, che si materializzò al mio fianco con una motosega a scoppio che un signore del posto aveva recuperato per solidarietà. Molto più nel mio stile, e ora il broccato d’oro che ornava il mio abito tradizionale era più a rischio per la segatura che non per il sudore.
Vroom! Crunch! Dio sia lodato per quella motosega. Avrei potuto essere ancora lì adesso, a scavarmi il mio piccolo misero varco nel legno con quella lama antiquata, mentre Katarina fissava accigliata l’orologio sui gradini della chiesa e i capelli a mano a mano le diventavano dello stesso bianco del vestito. Amo le tradizioni, come le ama chiunque, ma il mio piano era di sposarmi quel giorno.
Missione compiuta, ed eccoci di nuovo nella Trabant come Batman e Robin, a fiondarci giù per la strada poco più veloci che a passo d’uomo, col motore che rombava a una frequenza nemmeno lontana parente di quella della motosega.
La religione e tutto lo stile di vita radicato nella chiesa cattolica sono un caposaldo per la maggior parte di noi slovacchi. Vedere la donna stupenda con cui avrei passato il resto della vita che saliva in abito da sposa la storica scalinata di Santa Caterina è stato per me un momento emozionantissimo, al punto che a malapena riesco a ricordare la cerimonia che seguì. Tutto ciò che riesco a visualizzare quando provo a ripensarci è Katarina, radiosa con quell’incredibile abito bianco e il velo.
Poco fuori Dolný Kubín, una ripida scogliera di pietra calcarea sovrasta un’ansa del fiume Orava. La stretta piattaforma di roccia in cima a questa formazione impressionante ospita da circa un millennio l’incredibile castello di Orava. È lì che negli anni Venti è stato girato il famosissimo film muto del terrore Nosferatu il vampiro, e lo scegliemmo per fare da suggestivo scenario ai festeggiamenti.
Avevamo passato più di una divertente serata a chiacchierare a cena su cosa fare perché la gente non dimenticasse quel giorno. Ci si sposa una volta sola, quindi ci sembrava che delle foto di noi due in piedi su un prato, o davanti a un hotel, sarebbero state… be’, carine, ma potevamo agghindarci e andarcene in giardino in qualsiasi altro momento. Questo invece era un una tantum, e volevamo che anche le foto fossero uniche. Avevamo il castello di Nosferatu: e quindi? Alla fine, abbiamo coinvolto il nostro amico fotografo Jakub Klimo chiedendogli di inventarsi qualcosa, ed è stato lui a uscirsene con un’altra trovata di cui la gente mi domanda spesso. Dovetti togliermi il vestito, farmi montare addosso un’imbracatura da stuntman, e poi rimettermi il vestito sopra. A quel punto mi sollevarono per aria e mi calarono su una stretta barra sospesa a circa sei metri da terra. Lì ad attendermi c’era una specie di minuscolo velocipede da equilibristi in stile vittoriano che pareva esser stato catapultato da un qualche piccolo lunapark dell’Ottocento. Sotto di me, per mantenere quella specie di ambientazione steampunk alla H.G. Wells, si radunarono alcune persone in cilindro e cuffietta, mentre dense nubi di fumo iniziavano a fluttuare loro intorno. In mezzo a quella calca, raggiante nel suo splendido abito da sposa, avanzava Katarina, tirando dei fili che davano l’aria di manovrare me e la mia bici acrobatica nel cielo come in uno spettacolo di burattini al contrario. A dirla tutta, non so concretamente spiegarvi quest’ultimo passaggio, dovreste chiedere a Jakub, ma di certo fu parecchio divertente.
Il signore e la signora Sagan. Suonava bene.
Giovanni quell’inverno era già avanti. Personalmente, pensavo di essere giunto vicino all’apice della mia esistenza, riuscendo a conciliare i doveri commerciali che il team si aspettava da me con la lista crescente di impegni e accordi a livello personale che mi ero assunto, così come a trovare il tempo per gli amici, la famiglia e per rilassarmi, ma comunque allenandomi abbastanza duramente da vincere altre gare e fare onore alla maglia iridata.
Mi sbagliavo.
Era come se da qualche parte nell’etere avessero schiacciato un interruttore nell’istante esatto in cui avevo tagliato il traguardo di Richmond e un pianeta intero pieno di gente che fino a quel momento era stata felicemente ignara della mia esistenza sentisse il desiderio, anzi no, il bisogno di parlare con me. L’attenzione che si riceve per il fatto di essere un atleta di un certo livello, ai miei occhi è sempre stata un effetto collaterale bizzarro ma non spiacevole del successo. Mi ha sempre divertito, però fino a un certo punto; quel punto è quando chiudo la porta di casa e lascio il mondo fuori, o salgo sul pullman con i miei compagni di squadra o, meglio ancora, quando sono in sella alla mia bici in compagnia del peloton dei professionisti. Ora, non c’era tregua.
In quei mesi dopo Richmond, il mio tempo non era più mio ed era difficile vedere la luce alla fine del tunnel. Come posso descriverlo? Immaginate di nuotare in un mare caldo e azzurro, con l’acqua limpida sotto di voi e il sole che vi solletica le spalle. Bello, eh? Ora immaginate di non vedere più la terra. Non è più così bello. Di fatto, l’esperienza che state vivendo non è cambiata, ma la paura di andare sotto prima che finisca ha radicalmente modificato la prospettiva.
Iniziai quasi a credere alla cosiddetta «maledizione della maglia iridata», per cui i campioni del mondo hanno visto seguire al giorno più bello della loro vita una tormentosa stagione di risultati deludenti. In realtà, la maledizione non c’entrava niente: il crollo di forma era stato molto più probabilmente causato da un cambiamento nei collaudati programmi di allenamento e dalla vita condotta lontano dalla bici.
È qui che avere come manager un consumato uomo d’affari, amico fidato nonché ex corridore di altissimo livello rappresenta un vantaggio cruciale. Invece di sfruttare all’istante le opportunità che fioccavano e si accalcavano alla porta del Team Peter, Giovanni sapeva che quello era esattamente il momento in cui più avremmo dovuto prenderci cura della mia carriera.
Parlammo a lungo di cosa avremmo dovuto fare per aiutarmi a rimanere concentrato. Concentrato e felice: non vinco niente quando sono depresso, lo sapevamo entrambi.
Qui è il momento di fare un po’ di luce sul secondo adulto più importante della mia vita, il mio eterno sodale, la mia spalla, l’inarrivabile e imperturbabile Gabriele Uboldi.
Gabriele era già nell’organico della Tinkoff, seguiva tutti noi corridori in veste di ufficio stampa. In un grande team di ciclismo si tende a entrare parecchio in confidenza con i ragazzi delle PR, più che in altri sport, perché il fatto di essere su strada e così a contatto col pubblico li rende una componente fondamentale per il buon funzionamento della squadra. In fin dei conti, il senso del finanziare un team di ciclismo professionistico sta tutto nel generare pubblicità, quindi non è possibile per chi corre spegnere semplicemente i riflettori. Devi trovare un equilibrio tra il concedere qualcosa di te agli appassionati, l’allenarti e il correre al meglio delle tue possibilità e il preservare un briciolo di te stesso per chi ti è più vicino. Gente come Gabriele diventa parte della squadra, proprio come i corridori, i direttori sportivi, gli allenatori, i preparatori atletici e i tecnici.
Già prevedendo i problemi che l’attenzione extra dovuta al fatto di essere diventato campione del mondo avrebbe sollevato, Giovanni contattò Stefano Feltrin alla Tinkoff per proporgli di spostare Gabriele in un ruolo in cui potesse seguirmi di più, continuando comunque a ottemperare ai suoi altri compiti nel team e nell’ipotesi che svolgesse entrambi i lavori per la stessa cifra. Avevamo già sentito Gabri per verificare se fosse disposto al passaggio, e dopo un attimo di riflessione lui si era detto d’accordo. Ovviamente non ci aveva pensato su troppo, ma così è fatto Gabri.
Le cose, tuttavia, non andarono secondo i piani. Feltrin pensava non ci fosse modo di alleggerire Gabriele dai suoi doveri di squadra e che tutti dovessimo solo abbassare la testa, lavorare sodo e sorbirci l’attenzione in più di cui sarei stato oggetto.
Ora, questa è una cosa di me che magari non sapete, e non credo sia mai venuta fuori prima d’ora, ma io adoro gli estintori. C’è gente che va matta per dar fuoco alle cose. Io vado matto per spegnerle. Dai, chi di noi può mettersi una mano sul cuore e giurare di non aver mai pensato: «Ooh, ma guarda qui. Rosso e lucente. Divertente, vero?».
Prendete la casa che mi sono fatto costruire a Žilina, per esempio. Quella col garage, la camera da letto, la palestra e poco altro che ha poi finito per diventare il centro sportivo. Be’, quando l’hanno finita, ho invitato un po’ di amici per festeggiare, come si fa di solito, e ovviamente non è mancato un «momento estintore». Ci sono voluti tre passaggi di una squadra di pulizie professionali per liberare tutto. La schiuma bianca vola per aria, in attesa che quelli delle pulizie facciano il loro lavoro e se ne vadano, e poi delicatamente si posa per terra e lascia un nuovo strato sottile a ricoprire ogni cosa.
Non tutti condividono il mio entusiasmo per gli estintori, così passo la maggior parte dei giorni a tenere a freno il mio naturale istinto a spegnere conflagrazioni virtuali, ma di quando in quando pare proprio la cosa giusta da fare.
Come, per esempio, quando il team della Tinkoff era a Poreč, sulla costa dell’Istria, per un campo di allenamento invernale, il giorno dopo che Stefano Feltrin aveva rifiutato la richiesta di Giovanni di spostare Gabriele per farlo diventare il mio manager, assistente e aiutante a tempo pieno. Lì, nell’atrio affollato dell’hotel, con i compagni di squadra, lo staff, il personale dell’albergo e gli altri ospiti che mi giravano intorno, mi fu chiaro che avrei sollevato il morale a tutti se li avessi inzuppati con un estintore.
L’indomani mattina, Feltrin era al telefono con Gabriele, e gli stava dicendo che aveva avuto un’idea: che gliene pareva di diventare assistente a tempo pieno di Peter Sagan? O almeno, credo che abbia detto «assistente». Ma avrebbe potuto anche essere «quello che lo tiene lontano dagli estintori».
Da lì in poi, dove vado io va anche Gabri. È stato un enorme salto di qualità per me, e positivo sotto ogni punto di vista. Ora posso concentrarmi sull’andare in bicicletta, fare gare, rilassarmi e passare più tempo possibile con la mia famiglia, invece di correre a destra e a manca col timore di essermi scordato qualcosa: il passaporto, il bagaglio, il cervello. È lui a preoccuparsi di tutto, a sbrigarsela per quanto possibile, a portarmi dove devo andare. Ora, se Gabri dice che devo fare una cosa, io so che quella cosa è già stata testata e verificata per vedere se per me è davvero necessaria, quindi acconsento senza battere ciglio.
Non dà l’impressione di tenermi fuori dalle grane, ma suppongo che lo faccia, perché il tempo lo occupiamo con tutt’altre attività. Oltre alle solite scommesse, provocazioni e sfide, tutti i tempi morti tra gli allenamenti, le corse e gli impegni pubblicitari adesso li passiamo a giocare a PS4, e non con gli estintori. Quando sei in hotel trascorri lunghe ore in cui non c’è abbastanza tempo per tornare a casa, ma comunque c’è del tempo da riempire. Ed è qui che Gabri è proprio nel suo. È il perfetto avversario a FIFA18: volenteroso, entusiasta, non impedito, ma non bravo quanto me. Vi dirà che mi lascia vincere, perché mi fa bene al mo...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. MY WORLD
  4. Prologo
  5. Parte prima. Richmond
  6. Parte seconda. Doha
  7. Parte terza. Bergen
  8. Epilogo
  9. Illustrazioni
  10. Inserto fotografico
  11. Copyright