Valerio era in attesa dell’arrivo da Venezia della motonave Morosini, ormai in ritardo di oltre un’ora per le cattive condizioni del mare. Il personale dell’imbarcadero, dove avrebbe attraccato la motonave, in Riva 4 Novembre – la Riva Vecchia –, restava sul vago con chi chiedeva informazioni: avrebbe potuto recuperare o perdere altro tempo. Non si poteva sapere. Valerio non aveva nessuna voglia di rimanere là , insieme alla piccola folla, radunata sulla banchina, che scrutava l’orizzonte nella speranza di vederla spuntare. Lasciò la Riva e s’infilò in una delle calli che portano verso il Duomo. Si sedette al tavolino di un bar e aspettò che qualcuno si accorgesse di lui.
Accanto al bancone, il cameriere discuteva così animatamente con una persona che, se anche avesse visto un cliente in attesa per l’ordinazione, non si sarebbe affatto preoccupato della sua presenza, tanto era infervorato nella discussione: «Gliel’ho detto, sono venuti qui tutti e tre l’altro ieri: hanno preso un rabarbaro e il ragazzino un gelato. Li ho visti io con i miei occhi, erano là ». Il cameriere si girò, per indicare il posto dove erano seduti, e si accorse di Valerio. «Maestro carissimo» gli disse, «sono subito da lei.» Ma invece di chiedergli cosa desiderasse, si avvicinò al suo tavolo, girò la sedia per appoggiarsi alla spalliera con le braccia incrociate, e invitò anche l’altra persona, con cui prima stava parlando, a unirsi a loro.
«Maestro, lei conosce bene gli Zelencich. Bravissima gente: lui dirigente scolastico, lei devota alla famiglia, hanno educato così bene il figlio che tanti dovrebbero prendere esempio da loro… Spariti.»
«Cosa è successo?» chiese Valerio, più per cortesia che per la curiosità di sapere.
«È questa la cosa più sconvolgente: non ne abbiamo la minima idea» gli rispose il cameriere.
«Saranno partiti; in gita, da parenti. Perché preoccuparsi?» intervenne l’uomo che aveva raggiunto Valerio e il cameriere.
Valerio lo conosceva, era un professore di matematica e fisica al liceo classico Gabriele D’Annunzio, discreto come insegnante, impegnato in politica, fascista prima del 25 luglio, poi badogliano, poi antifascista: una di quelle figure ambigue, abili a rimanere sulla cresta dell’onda, che Valerio detestava.
«Sono scomparsi, vi dico» insistette il cameriere. «Qui, in mezzo ai croati ustascia di Pavelić e ai comunisti di Tito, si ammazzano le persone per bene.»
«Ma avanti, non dica sciocchezze: le piace creare drammi dove non ci sono» replicò il professore.
«Non hanno forse scoperto, la settimana scorsa, tra gli scogli della valle di Barcagno, due cadaveri con il cranio fracassato, che non si sa ancora a chi appartengano? E prima? Nei boschi di Boccagnazzo, non hanno trovato le scarpe e la giacca coi documenti del povero Salem?»
«Di chi?» chiese il professore.
«Salem, quello che ha la tipografia dietro piazza dei Signori. Scarpe e giacca: lui sparito. Se non stai attento a come parli, ti fanno sparire.»
«Chi fa sparire chi?» disse il professore con sarcasmo per sdrammatizzare. «E lei cosa ne pensa?» domandò poi a Valerio, che rimaneva in silenzio.
«C’è da preoccuparsi» tagliò corto lui, non avendo nessuna voglia di discutere con quell’individuo.
«Il maestro sarà tutto preso a preparare il suo concerto al Teatro Verdi. Non ha tempo per interessarsi adesso di politica. Sicuramente dopo: lui è sempre un nostro riferimento. Suona bene, ma parla anche bene. Le porto un caffè?» chiese il cameriere.
«Presto, però, tra poco devo andare.»
«Ha visto? Ho appeso anch’io la locandina del suo concerto. Là tra la porta e il bancone: si vede bene, vero?» gli disse, sperando di ricevere qualche complimento.
Valerio fece un cenno d’approvazione, augurandosi che il cameriere gli portasse il caffè. E invece riprese a discutere con il professore sulla scomparsa della famiglia Zelencich. Quando si accorse che Valerio se ne stava per andare, si affrettò con il caffè.
«Mi scusi» gli disse, «ma non si può sostenere che se la gente scompare è perché se n’è andata in gita o dai parenti… Poi avevo parlato io al signor Zelencich e so per certo che non aveva in programma di lasciare Zara… Cambiamo discorso: preoccupiamoci adesso del suo concerto. Sta andando in teatro a provare?»
«No, oggi no. Sto aspettando che arrivi mia moglie col Morosini da Venezia. È in ritardo.»
«La signora torna a stare qui con lei!» esclamò il cameriere. «C’è anche la bambina? Oh, mi scusi, m’intrometto sempre in faccende che non mi riguardano.»
Valerio non gli rispose; accennò un sorriso e uscì, avviandosi verso il molo. La motonave era data in arrivo entro mezz’ora, così si mise a passeggiare lungo la Riva Vecchia fino all’angolo con la Riva Derna, avanti e indietro. Si fermò su una panchina a guardare l’altro lato del porto, il molo Porporella. Là dietro, ai Bagni Spiaggia e, un po’ oltre, ai Bagni Maria, riparate dal vento che di tanto in tanto imperversava, alcune persone giocavano a palla a volo o si godevano l’ultimo raggio di sole lasciato all’autunno da quella calda estate del ’43, quando la città viveva gli ultimi mesi di una quiete apparente, prima che la brutalità della guerra si accanisse con i suoi bombardamenti contro la fragile bellezza di un’antica terra.
La motonave comparve all’imboccatura del porto, e Valerio si affrettò a tornare nei pressi dell’imbarcadero. Comprò un piccolo mazzo di fiori nel chiosco accanto a Porta Marina e rimase in attesa tra la folla accalcata sul molo.
«Zara, porto di Zara» ripeteva una voce attraverso il megafono. Due marinai, mentre la Morosini si stava avvicinando alla riva, fecero un balzo a terra tenendo una grossa fune per legare a poppa e a prua la motonave all’imbarcadero. Fissarono alla meglio una passerella, perché oscillasse il meno possibile, e aiutarono, a uno a uno, i passeggeri a scendere.
Valerio se ne stava in disparte, osservando le persone che gli sfilavano accanto. Diede un’occhiata al mazzo di fiori che teneva tra le mani senza troppi riguardi e, come se si liberasse da un fastidio, lo gettò senza indecisione in un cestino per l’immondizia.
Il flusso dei passeggeri si stava diradando. Lontano, tra gli ultimi, riconobbe Milena dal suo modo di camminare ondeggiante, aggraziato, quasi facesse passi di danza.
«Come volevi» gli disse appena gli fu vicino.
Valerio scosse il capo, mostrando di non capire il senso di quella frase.
«Sono qui, come mi hai chiesto» aggiunse lei, alzando le spalle.
Non un gesto da parte di Valerio per esprimere affetto o un po’ d’emozione, solo un «grazie» con voce sommessa, appena percepibile. Uno di fronte all’altra, due profili immobili sullo sfondo azzurro del mare. Per qualche istante nessuno si mosse né riuscì a parlare, come se nell’aria salmastra di Zara i loro corpi si fossero impietriti.
«Hai voglia di camminare?» le chiese infine Valerio.
Ormai dalla motonave erano scesi tutti i passeggeri, e per la Riva Vecchia era tornato il consueto andirivieni di gente che si recava al mercato o arrivava con le barche dalle valli di pesca.
Milena si strinse nella giacca del suo tailleur beige e a testa bassa s’incamminò verso Porta Marina; Valerio le sfiorò appena il braccio per attirare la sua attenzione. Lei non ci fece caso, troppo distratta dai ricordi che, appena scesa a Zara, avevano preso ad aggrovigliarsi dentro di lei senza un ordine, irritandola. Quasi si stava pentendo di avere fatto quel viaggio e cominciava a prendersela con se stessa per essere stata così disponibile e sollecita alla richiesta di Valerio. E, poi, quella sua ostentata freddezza nell’accoglierla… l’aveva trovata una provocazione. O forse era lei a dover essere più affettuosa: non è che il suo atteggiamento fosse stato molto diverso da quello di Valerio. Come sempre, le bastava qualche incertezza per angosciarsi. Sensi di colpa: con lui era sempre stato così. Non era mai cambiato niente.
«Non da quella parte» le disse.
Senza pensarci, Milena aveva preso la strada che portava alla loro vecchia casa. Quanti anni avevano abitato lì, insieme? Era convinta di ricordarsi non solo gli anni, ma anche i mesi e i giorni, e il pensiero di ripiombare nel passato le infondeva un’ansia insopportabile.
«Non da quella parte. Di là c’è troppa gente. Dove vuoi che andiamo?»
«Se non lo sai tu…» gli rispose con indifferenza.
Lasciarono la Riva e si diressero verso San Michele. Le calli erano così strette che non riuscivano a rimanere uno accanto all’altra, se non di tanto in tanto, quando non arrivava nessuno dalla parte opposta. Camminavano ormai da più di un quarto d’ora e, appena ci fu uno slargo, Milena s’arrestò all’improvviso. «Che cosa vuoi, Valerio?» Aveva atteso qualche istante per averlo di fronte. Era spazientita, stanca. Non le aveva ancora detto perché le avesse chiesto di venire da lui, e perché, invece di andare a sedersi da qualche parte e parlare con calma, dovevano procedere in fila indiana, scambiandosi qualche inutile frase spezzata.
«Hai avuto difficoltà ?» le chiese Valerio.
«Ti pare che siano tempi senza difficoltà ? Comunque no, non ho avuto problemi.»
«Io sì.»
«Tu sì: cosa vuoi dire?»
Era come se Valerio non si fidasse di lei, e lei non volesse dargli alcuna confidenza. Ci fu ancora qualche mezza frase imbarazzata, per non svelare fino in fondo il loro stato d’animo.
«Sono venuto a Venezia un paio di settimane fa. Un viaggio faticoso, pieno di contrattempi, inconvenienti di tutti i tipi.»
«Non ti sei fatto vedere. Forse hai fatto bene… sì, è stata la cosa giusta.»
«Io, però, ti ho vista. Nelle Mercerie. Uscivi dal negozio dove lavora tua madre. Eri con Renata, ti è scappata avanti e l’hai rincorsa. Siete sparite tra la gente. Non sono neppure riuscito a vederla bene. A chi di noi due assomiglia. Cosa dici, assomiglia a me mia figlia?»
«No.»
«Non mi sopporti, vero?»
«Renata non ti assomiglia, e basta» tagliò corto Milena. Riprese a camminare, lasciando Valerio un passo indietro. Nel campiello, dove c’è la chiesa di San Michele, si sedette su una panchina con l’intenzione di non alzarsi da lì finché Valerio non le avesse detto cosa voleva, irritata più con se stessa che con lui perché ciò che veramente non capiva era la propria immediata, irrazionale disponibilità a prendere la motonave e raggiungerlo. Valerio le si mise accanto, appoggiando il braccio intorno alle sue spalle.
«Volevo sapere soltanto se avevi trovato difficoltà ad allontanarti da casa» le chiese.
«Ho detto a Carlo la verità , che mi volevi vedere.»
«E lui è stato d’accordo, non si è ingelosito?»
«Finiscila!» Milena aveva perso la calma che si era ripromessa. «Ma ti rendi conto che ancora non mi hai detto una parola, non so cosa vuoi da me?» Si era alzata in piedi di scatto e gli parlava con voce alterata, attirando l’attenzione dei passanti.
«Stai calma, qui mi conoscono.» Le prese la mano, invitandola a risedersi. «Ero in pensiero… temevo di averti creato dei problemi… ti ringrazio di essere qui.» Il tono di voce affettuoso non tranquillizzò Milena, sempre più innervosita con se stessa, disorientata, incapace di controllare la situazione.
«Ti ripeto: a Carlo ho detto la verità . Volevi vedermi; mi sembravi preoccupato. Si è anche offerto di accompagnarmi.»
«Sarebbe stato divertente. Come fai a stare con quello?» le disse sprezzante.
«Ci aiuta, è generoso, si è affezionato a Renata, e lei gli vuole bene. Una vita semplice che tu non riesci neppure a concepire. Se credi sia stato facile andar via di qui, trovare un lavoro… te ne sei fregato altamente di noi. La tua musica, la politica: quello t’interessa… e io sempre a sperare… Sì, se lo vuoi proprio sapere, Carlo è molto importante per noi: dopo tanto tempo mi ha fatto trovare un po’ di serenità , e a Renata dà sicurezza.»
«Se ti avessi chiesto di venire qui perché ...