Cassio è perso nei suoi pensieri, e fissa un drago scolpito nella pietra dell’anticamera. Ha il muso lungo. Avide fauci spalancate e costellate di zanne irregolari. Il cavaliere audace che ha tenuto testa alla famiglia Raa se n’è andato, lasciandosi dietro l’anima tormentata e riflessiva che conosco. Le ferite nei punti in cui il gruesli gli ha perforato la faccia sono gonfie e arrossate, ma si è fatto la barba e sembra più giovane di quanto non appaia da anni. Solo i suoi occhi sono quelli di un vecchio.
«A cosa stai pensando?» chiedo. Sembra non avermi sentito. Le voci lontane di un centinaio di gole sussurrano dietro due porte nere in fondo a una rampa di scale di pietra, subito sotto lo sguardo del drago. Le nostre guardie Grigie ci lasciano spazio, consentendoci di parlare. «Cassio?»
«Era un fiore» dice lui in tono sommesso.
«Un fiore?»
Mi rendo conto che è lontano anni luce da qui. «Una stella alpina. L’ultima cosa che mi ha dato mio padre prima di morire.» Fa una pausa, gli occhi sempre puntati sul drago. Non parla quasi mai della sua famiglia. «Era stato un giorno d’orgoglio» dice piano. Lancia un’occhiata alle guardie. «Tu eri troppo giovane, allora. La mamma ti teneva al Riposo dell’Aquila. Ma il resto di noi era a Egea, sui gradini della Cittadella, dove Augustus soleva fare il Discorso Perenne. La Sovrana ci aveva radunato lì per un consiglio di guerra. Le navi Augustus erano a due giorni da Deimos. Il sole era alto nel cielo; nell’aria si fiutava l’energia di una tempesta. Il vento era già arrivato. La pioggia sarebbe seguita. Ricordo che dagli scalini sentivo il profumo degli alberi di Giuda in fiore. E… per una volta, la nostra aquila argentata volava dai pennoni della Cittadella, dove per tutta la vita avevo visto sempre e solo leoni. Doveva essere la fine di un Marte corrotto e l’inizio della nostra era.
«Avevamo i numeri. Avevamo la ragione. E una volta sconfitto Augustus, avremmo avuto Marte… una cosa che papà non aveva mai desiderato, per cui sapevo che avrebbe agito con amore e dedizione. Eppure mi vergognavo. Dopo aver perso il duello con Darrow, mio padre mi disse che era deluso. Non perché avevo perso. Si vergognava del mio egoismo.» Fa una smorfia. «Del mio orgoglio meschino. Gli Scultori mi ricucirono e io mi dedicai a un unico scopo: la redenzione ai suoi occhi. Implorai la Sovrana di lasciarmi condurre le legioni mandate a intrappolare Augustus ai moli di Ganimede dopo che Plinio ci aveva dato la soffiata. Lei mandò Barca con me per assicurarsi che non fallissi. Non fallii. Tornai a Egea trascinando Augustus in catene. Trovai redenzione ai suoi occhi. Ma non la ebbi da mio padre finché non ci trovammo su quei gradini e lui vide quanto ero cambiato.
«Doveva incontrare le legioni dei lealisti Augustus in orbita con i nostri cugini e le nostre sorelle. Mi affidarono il resto dell’esercito di famiglia per difendere Egea. Non hai mai conosciuto un orgoglio del genere, Castore. I visi splendenti. Le risate. I capelli e i vessilli che fluttuavano nel vento mentre due intere generazioni di Bellona arrivavano dall’incontro nella loro corazza sotto il sole.
«Ai piedi delle scale si girò verso di me e mi disse che mi amava. Lo aveva fatto migliaia di volte prima. Ma stavolta era diverso. “Il ragazzo non c’è più” disse. “Al suo posto, vedo un uomo.” Per la prima volta sentii di meritare il suo amore, di essere suo figlio. Mi resi conto di quanto ero fortunato, di quanto ero privilegiato ad avere un padre come lui. In un mondo di uomini terribili, lui era paziente, gentile. Nobile come ci invitavano a essere le favole da bambini.»
Sbircio le guardie per vedere se ci stanno ascoltando. I loro volti dalla sommità del naso in giù sono coperti di unità di respirazione in duroplastica. Gli occhi inflessibili che sbirciano da sotto i cappucci grigi sono imperscrutabili.
«Prese una stella alpina dall’armatura e me la posò tra le mani, dicendomi di ricordare casa mia. Di ricordare Monte Olimpo. Di ricordare perché combattiamo. Non per la famiglia o per l’orgoglio, ma per la vita.
«Il fiore era cresciuto vicino alla sua panchina preferita su una cresta vicina, appena oltre i fabbricati del Riposo. Lui saliva in cima ogni giorno prima del tramonto per trovare pace, da noi bambini, dal lavoro.» Sorride. «Dalla mamma. A volte, se ero molto fortunato e tranquillo, mi permetteva di andare con lui, e parlavamo o semplicemente stavamo seduti a guardare le aquile che visitavano i loro nidi sulle rupi. Era l’unico momento in cui ricordo di essere stato davvero felice. Di non aver desiderato nient’altro.
«Julian era il preferito della mamma, ma papà non giocava a quel gioco.» Sorride. «So che non era soddisfatto della creatura venale che ero diventato negli anni precedenti all’Istituto, o della creatura amara che ne era uscita dopo, ma lì sulla scalinata… quando mi mise in mano quel fiore, capii di essere finalmente diventato l’uomo che aveva sempre sperato che fossi.»
Ha le lacrime agli occhi.
«Cosa ne è stato di quel fiore?» chiedo con delicatezza, perché non voglio spezzare l’incantesimo.
«L’ho perso nel fango.» Mi guarda mortificato. «Non sapevo che era l’ultima volta che lo vedevo.» È tranquillo, lotta con qualcosa di più grande della paura per l’imminente duello. «Tutti loro sono morti. Tutte quelle facce lucenti si sono spente. Le loro risa… c’è solo silenzio. Voglio rivederli…» Sta per dire il mio nome, ma si controlla. Guarda la porta. «Udire le loro voci. Sentire le mani di mio padre sulla testa. Ma non succederà, nemmeno quando sarò morto. Ad accogliermi non ci sarà altro che il Vuoto.»
«Non morirai oggi, Cassio. Puoi sconfiggerlo» dico, sapendo che le nostre vite sono probabilmente perdute comunque. «Sei il Cavaliere del Mattino. Sei ancora l’uomo buono che vide… nostro padre. E non sei destinato a essere l’ultimo Bellona.»
«Fratello caro…» Sorride e posa la mano sulla mia spalla. «A volte dimentico quanto sei giovane. Non ho paura di non sconfiggerlo.» Guarda il drago, il buio famelico della gola oltre le zanne. «Ho paura perché questo mondo è la sola cosa che esiste. Karnus aveva ragione.» Sorride tra sé. «Ma chissà, forse il buio sarà più clemente della luce.» Guarda le porte nere e ascolta le voci dall’altra parte. «Non importa quale destino attenda dietro quelle porte, non cedere. Se troveranno la loro prova, avranno la loro guerra. Impedirlo è il nostro dovere, fosse anche l’ultimo. Proteggere la gente.»
«Non è compito nostro proteggere la Repubblica» dico.
«Queste sono parole di Ottavia, non tue. Certo che è compito nostro.»
«E perché? È un cumulo di macerie, e ci ha traditi. Le persone che vuoi salvare sono immerse nel fango. Didone ha ragione: il Mietitore ha fallito.» Mi interrompo. «Sono state fatte delle scelte» dico lentamente, scegliendo le parole con cura in modo che non si senta aggredito. «Anche se posso non essere d’accordo, capisco perché le hai fatte. La Sovrana ha lasciato che lo Sciacallo massacrasse… la nostra famiglia. Era una tiranna. Questo lo so. La Società era corrotta. Ma guarda ciò che l’ha sostituita. Le persone su quella nave… le vedo ogni notte e penso a come avrei potuto fare meglio. Ma loro non sono morte perché ho scelto di aiutare una Oro. Sono morte per colpa di Darrow.» Esito. «Hai scoperchiato il vaso di Pandora. Hai passato anni a cercare di giustificare le scelte che hai fatto.» Abbasso la voce. «A vegliare sugli orfani che hai creato. A pattugliare le tratte commerciali che hai messo in pericolo. Forse questa è la tua occasione, la nostra occasione, di ricostruire. Non dando la caccia ai pirati nel bel mezzo del nulla, ma restaurando l’ordine.»
«Vuoi dargli la loro prova. La loro guerra.»
«Sì.»
Si avvicina a me perché solo io possa sentire. «Se apri quella cassaforte, sei morto. Non avrai la possibilità di ricostruire un bel niente non appena scopriranno chi sei davvero.»
«È un rischio che sono disposto a correre.»
«Smettila di pensare con l’uccello. Seraphina di te se ne sbatte. È l’esca che Didone ti agita davanti come se fosse un pezzo di carne.»
Sbuffo. «Lei non c’entra, Cassio.»
«No, è una questione di vendetta, vero? La tua vendetta.»
«Tu hai ottenuto la tua» dico con calma. Lo guardo incombere su mia nonna mentre moriva dissanguata. Lo guardo uccidere Aja, che per me era come una madre. «Tu non dormi. Bevi. Predichi e dai la caccia ai pirati. Non siamo mai stati nello stesso posto per più di un mese. Pensi che sia perché mi stai proteggendo? Pensi che sia perché hai il sacro dovere di salvare i mercanti che scelgono di avventurarsi nella Cintura per imbottirsi le tasche? Smetti di mentire a te stesso per un dannatissimo momento e ammetti che hai commesso un errore! Hai lasciato entrare i lupi. Essere un “uomo buono” non rimedierà a quello che hai fatto. Né stare sospeso in uno stato di movimento continuo. Non c’è espiazione, se non nell’uccidere i lupi, chiudere la porta e ristabilire l’ordine. È così che rendiamo le cose migliori di quello che sono. È così che possiamo ricostruire i mondi.»
Anche se conosco l’intransigenza del mio amico, mantengo l’infantile speranza che le mie parole suscitino in lui un minimo di buon senso. Invece i suoi occhi, inesorabilmente, si induriscono, il nostro mondo si oscura e so che la nostra amicizia è finita.
«Ti ho avuto per dieci anni. Lei ti ha conquistato in un istante. Il suo incantesimo è davvero irrevocabile?»
Provo compassione vedendo che si rende conto di aver fallito. Non nel proteggermi, ma nel convincermi che aveva ragione. Che il dolore che mi aveva causato fosse giusto. Se potesse convincere me, solo me, allora forse penserebbe di poter convincere se stesso e sapere oltre ogni dubbio che quello che ha fatto era giusto. L’ho derubato di quella speranza e di ogni possibilità di mettersi il cuore in pace.
Dieci anni di fratellanza evaporano in un respiro.
Ci guardiamo e vediamo due estranei.
Schiocca un dito per attirare l’attenzione delle guardie. «Abbiamo finito.» Loro avanzano e io mi faccio da parte perché possano condurlo via, giù per le scale, verso la morte.
In fondo alle scale si ferma. «Questo duello non è per me. È per te. Se ci tieni a me, lasciami morire.»
Oltre le porte nere, in fondo a uno stretto baratro di roccia grigia, si trova il Cerchio del Sangue. È un anfiteatro circolare scavato nella pietra della montagna. Tra fiori di loto scolpiti, i draghi di pietra, lucidi e imperlati di condensa, pendono dal soffitto scuro come per bere il sangue che secoli di Raa hanno versato qui per risolvere le loro contese. I domestici finiscono di raschiare via il muschio giallo e verde da una sezione di panche digradanti scavate nella roccia. Le tribune circondano un pavimento di marmo bianco. Al centro del pavimento, il Sigillo Oro è stato inciso nella pietra chiara. Centinaia di Oro si sporgono per vedere la pietra mentre il brillante figlio di Marte va incontro al loro pallido campione. Molti sono ioniani, ma vedo uno stemma Codovan, un Norvo, uno dei Felix e molti altri. Una dozzina di lune sono rappresentate, e non solo quelle di Giove. Vengo accompagnato a una tribuna del terzo ordine, nel punto in cui siedono più di trenta rappresentanti della famiglia Raa, nonostante i vuoti lasciati da quelli imprigionati con Romulus nelle Celle di Sabbia.
I Margini obbediscono a...