Il 7 gennaio, al Tour d’Argent, Lobgeois fu l’ultimo ad alzarsi all’arrivo di Gustave Joubert, cosa che la diceva lunga sul suo stato d’animo. Con discrezione, Sacchetti batté due volte le mani; dopo un attimo di esitazione, iniziarono tutti ad applaudire, brevemente, ma abbastanza perché Gustave dicesse andiamo, amici miei, basta così. Sorrideva di gusto, lo avevano accolto calorosamente. Lobgeois gli tese la mano, voltando lo sguardo, Gustave si scusò per il ritardo, che modestia, erano pronti a perdonargli tutto. Da quindici giorni, era diventato una leggenda.
Brusio, movimento di sedie, tintinnio di posate, si sentì un primo tappo di champagne, i camerieri si avvicinarono, si levarono i calici. Una voce tra tante: discorso!
Gustave rifiutò umilmente.
«Ma lo champagne è per me!»
I presenti scoppiarono a ridere, ah ah, Gustave non era più simpatico dell’anno prima, ma era l’anno prima.
Lobgeois, con un gesto disperato, si era seduto di fronte a lui, tutti si fregavano già le mani pensando al fuoco incrociato che si preannunciava. Le ostilità non si sarebbero aperte prima dell’arrivo dell’anatra alle rape, e nell’attesa, fecero due chiacchiere, partendo come sempre dalla politica. Quell’anno, niente spazio alle polemiche, l’unanimità fu immediata, la sinistra era tornata al potere, che disastro.
Alle ultime legislative, le speranze che il piccolo gruppo di ex alunni dell’École centrale aveva riposto in Tardieu non erano state condivise dagli elettori. Non c’era da stupirsi, quel modernizzatore non era riuscito a modernizzare granché, la sua fiducia in una politica di prosperità si era ridotta a una fiducia in se stesso.
«Il paese» disse qualcuno «dovrebbe comunque rendersi conto che le riforme sono indispensabili!»
Quelle parole traducevano perfettamente lo spirito del gruppo, ma erano pedanti come qualsiasi frase inerente alla politica. E in quel gruppo, come un po’ dappertutto, la politica non godeva di buona reputazione. Oltre ai ripetuti scandali che avevano logorato anche le volontà più tenaci e scosso le convinzioni più radicate, si pensava che nessuno avesse avuto il coraggio di prendere le misure necessarie contro la burocrazia francese. Sacchetti sintetizzò l’opinione comune con la sua leggendaria abilità: «Sarebbe ora di lasciar fare a quelli che sanno fare!».
Riuscirono a finire solo gli antipasti, la grande idea era già sul tavolo. Erano tutti impazienti di ascoltare Joubert.
Per capire bene quel clima febbrile, probabilmente è utile spiegare al lettore cosa fosse successo in quei tre anni, dopo che alla fine del 1929 Gustave si era vergognosamente arricchito grazie al petrolio iracheno e con i metodi che sappiamo.
Per la prima volta in vita sua, i soldi gli davano la sensazione di avere possibilità di scelta. L’imprenditoria lo eccitava, soprattutto perché i suoi dubbi sul futuro delle banche venivano costantemente confermati. Lo spettacolare naufragio della banca Oustric, che aveva trascinato con sé quello della banca Adam, aveva mandato in fumo più di un miliardo di franchi. Gli istituti di piccole e medie dimensioni, come quello fondato da Marcel Péricourt, erano i più fragili e quindi i più a rischio.
E così Gustave aveva messo gli occhi sulla Souchon, una ditta di meccanica generale di Clichy ancora gestita dal suo fondatore, che aveva due figli morti durante la Grande Guerra. Sei macchinari un po’ obsoleti, una ventina d’operai di un’inquietante mezza età, una clientela sempre più ridotta… Il profilo ideale per fare una proposta di acquisizione che Alfred Souchon, in mancanza di eredi, si era visto costretto ad accettare. Gustave Joubert non dovette attendere molto per rallegrarsi del suo intuito. La bancarotta della Creditanstalt, seguita da quella della Danat Bank tedesca, seguita da quella della Banque nationale de crédit, confermò che il settore bancario faceva acqua da tutte le parti.
Joubert si era buttato. Si era licenziato per dedicarsi unicamente alla propria attività.
Il suo allontanamento aveva provocato una profonda crisi di fiducia tra gli amministratori e i clienti della banca Péricourt. Il panico si scatenò in una filiale di provincia e presto guadagnò la sede centrale di Parigi. Non fu possibile restituire il denaro ai risparmiatori che lo richiedevano. Le autorità nazionali avevano altre gatte da pelare, la banca Péricourt era affondata in meno di due settimane.
Charles aveva rilasciato una dichiarazione piena di dignità che gli consentiva di seppellire il fratello per la seconda volta.
Madeleine non fu neanche interpellata, non esisteva più per nessuno.
Il nuovo proprietario della Mécanique Joubert aveva già negoziato l’acquisto di quattro moderni macchinari e la sostituzione dei vecchi dipendenti con operai della generazione successiva, ed era riuscito a strappare dei buoni contratti con i clienti reclutati al Jockey e all’Associazione degli ex alunni dell’École centrale. Aveva chiuso con successo un’importante trattativa con la Lefebvre-Strudal per la fornitura di pezzi di motori aeronautici, che avrebbe messo la Mécanique Joubert al riparo dalle intemperie per almeno due anni. Nei panni del capitano d’industria, Gustave si sentiva finalmente realizzato.
Non crediate tuttavia che quel successo fulmineo, ma tutto sommato scontato, fosse la ragione per cui quel giorno al Tour d’Argent stavano festeggiando Gustave Joubert, no, il vero motivo di tutta quell’ammirazione si chiamava… Rinascimento francese, un nuovo progetto di cui era al contempo artefice, apostolo, ideologo e promotore, insomma, il Rinascimento francese era lui. Lui che aveva posto la questione in termini chiari: il raggio sismico della crisi americana ha toccato le coste francesi, la Germania si sta pericolosamente riarmando, l’Europa scricchiola dappertutto, ma la classe politica francese macera nel clientelismo e nella corruzione, e non impara nulla. È tempo che le autorità, spiegava, diano importanza a uomini saggi, capaci, sicuri, che difendono la patria e soprattutto, soprattutto, com-pe-ten-ti. Ai tecnici!
Il Rinascimento francese era questo, un movimento, un “laboratorio d’idee” formato da esperti che avrebbe rinnovato la Francia.
Il parlamento aveva finto di applaudire perché non poteva ignorare né combattere apertamente un gruppo che, dall’elettricità alla meccanica, dalla telefonia alla chimica, dalla metallurgia alla farmacia, riuniva il fior fiore dell’industria francese.
«I politici ci hanno provato» disse Joubert «con pessimi risultati… È giunta l’ora che un movimento apolitico e nazionalista dica finalmente la verità ai francesi!»
Con “apolitico” intendeva “anticomunista”.
«Non vedo come si possa essere contemporaneamente apolitici e nazionalisti» commentò Lobgeois. «Non lo capisco proprio!»
«Apolitico, mio caro Lobgeois, significa che siamo prima di tutto persone concrete. Che sia di destra o di sinistra, un provvedimento che contribuisca al risanamento del paese è un buon provvedimento. Per quanto riguarda il nazionalismo… Pensiamo solo che occorra essere pronti a ogni eventualità.»
«Quale eventualità?»
Joubert si lasciò sfuggire una risatina di sufficienza.
«Hitler vince le elezioni in luglio, la Germania lascia la conferenza sul disarmo in settembre, non ti preoccupa neanche un po’?»
«È l’eterno gioco della diplomazia! Io trovo Hitler piuttosto rassicurante. Rimetterà un po’ d’ordine in quella gabbia di matti che è diventata la Germania… Sbagli bersaglio, Joubert. Noi e Hitler abbiamo lo stesso nemico: il comunismo.»
Mormorio d’approvazione.
«È perché non sai leggere.»
La risposta rasentò l’insulto, comportamento contrario alle regole non scritte del gruppo, potevano essere in disaccordo ma restavano comunque ex compagni. E così Joubert si affrettò a rimediare: «Scusa, Lobgeois, mi sono espresso male. Volevo solo dire che non sai leggere il tedesco».
«E cosa avrei appreso, se lo sapessi leggere?»
«Che Hitler sta per salire al potere, e che considera la Francia il suo nemico giurato.»
«Ah, sì, ho letto qualcosa del genere…»
«Non sembra interessarti più di tanto. Eppure, che diavolo: “… der Todfeind unseres Volkes aber, Frankreich…”. Scusa, non sai il tedesco: “L’acerrimo nemico del nostro popolo, la Francia, ci soffoca senza pietà e ci consuma. Nessuna rinuncia deve sembrarci impossibile per abbattere un nemico che ci odia con tanta rabbia”. Non capisco cos’altro ti serva per…»
«Era scritto sui giornali?»
«No, è nel Mein Kampf, le memorie del signor Hitler, il breviario del partito nazista.»
«È politica, Gustave, nient’altro! Nessuno vuole una nuova guerra. Hitler gioca al rialzo per diventare cancelliere, fa la voce grossa, ma cercherà una soluzione pacifica. I conflitti sono troppo costosi.»
«Staremo a vedere… E la storia lo dirà.»
Gustave Joubert ritenne inutile proseguire la conversazione perché tra i commensali dovevano esserci opinioni favorevoli alla sua tesi ma anche alla tesi opposta, era un tema controverso.
Forte di quel silenzio, Lobgeois tentò di accrescere il suo presunto vantaggio: «E poi, il tuo progetto è troppo astratto. Il tuo Rinascimento francese pubblicherà degli studi, ma chi li leggerà? Proporrà un programma di riforme, ma chi le attuerà?».
A questo punto, un osservatore attento avrebbe notato che, come sul precedente argomento, il gruppo si era impercettibilmente spaccato in due. Era un segno dei tempi, tutto era oggetto di divisioni, dispute, disaccordi.
«Non resterà un progetto astratto, Lobgeois, te lo prometto» disse Joubert in tono pacato. «Appuntamento a fine mese.»
«Cosa accadrà tra un mese?»
Joubert si limitò a sorridere.
Sacchetti, che sapeva meglio di chiunque altro che il match era durato abbastanza, azzardò: «Vuoi dire che la nostra cena annuale diventerà mensile?».
Risate, si placarono gli animi, ripresero a saltare i tappi di champagne. Era tempo di parlare di donne. Joubert controllò discretamente l’orologio, pensando alla sua…
… Léonce, che in quel preciso istante era a quattro zampe e ansimava sotto i vigorosi colpi di reni di un giovanotto di nome...