La bambina ovunque
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La bambina ovunque

  1. 144 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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La bambina ovunque

Informazioni su questo libro

Anche un padre "aspetta" un figlio, ma, all'opposto di una madre, "non percepisce i movimenti fetali, non perde per un istante il respiro mentre capisce che un altro essere vivente lo abita, poiché nessuno lo abita: in un padre non c'è posto. Né sente la vita che arriva: se la ritrova".

Stefano ha trentacinque anni e tra qualche mese la sua vita cambierà per sempre. La gravidanza della moglie è il risultato di un percorso a ostacoli innescato da un fortissimo desiderio di maternità e passato per un'estenuante trafila medica: dopo la grande salita, tutto sembra procedere bene, ma allora perché Stefano non è felice? Il suo stato, nient'affatto interessante, appena degno di nota, non lo soddisfa: si sente invisibile, inutile - e per giunta braccato dal panico, un animale goffo e ingombrante che non lo lascia mai in pace -, un personaggio secondario che "rimpicciolisce sempre di più mentre la madre si diffonde nello spazio, aumenta di volume e sostanza".

Con una prima persona originalissima, ironica e divertita, ma anche così sincera da risultare spudorata, Sgambati racconta il titubante viaggio di un uomo verso la paternità, in tutte le sue tappe: la prima sussurrata idea e le mille discussioni che porta con sé, il primo tentativo razionale di mettere al mondo un figlio, la frustrazione di fronte a quell'embrione che non si decide a formarsi, gli esitanti "Che vuoi che sia", i terribili "Arriverà", l'enormità di una madre che non riesce a essere madre ("Di quanto amore si deve essere capaci per soffrire a tal punto la non esistenza di un altro essere umano?"), le prime, inevitabili, indagini sul corpo di lui e poi di lei, gli avanti e indietro dal reparto Sterilità dell'ospedale, il girotondo di paura, rabbia e speranza della fecondazione in vitro. E infine l'attesa: il lentissimo avvicinamento all'idea di diventare genitore.

Un'indagine autobiografica e romanzesca che incanta, fa ridere, commuove e abbatte ogni tabù attorno alla paternità.

Domande frequenti

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2018
Print ISBN
9788804702993
eBook ISBN
9788852089220

PRIMA PARTE

Il conduttore del quiz preserale e la concorrente si chiamano per nome con intimità e il nome della concorrente è Elisabetta: «Una bellissima donna in attesa del principe azzurro» spiega il bravo presentatore, Flavio, subito prima di mostrare in camera con orgoglio la cravatta che indossa, regalo di una spettatrice («Grazie per la vostra generosità, non ho più spazio negli armadi!»), precisamente la signora o signorina Alessandra Di Pace («Ci vuole, ci vuole. Ce n’è tanto bisogno...» riconosce il presentatore, in riferimento forse alla “pace”...), e prosegue: «Ha unito nel ricamo le mie due grandi passioni, le àncore, quindi il mare, e l’impero, il giallo e il rosso di questa città che nonostante tutto è la più bella del mondo, cioè Roma! Grazie Roma!».
Cinquantacinque pollici più in là c’è il mondo reale, fatto di momenti noiosi, spaventi, malumore, dolori intercostali e un matrimonio. Milano, una casa, un sesto piano, i problemi, un padre che spalle allo schermo un po’ ascolta, un po’ no; di sicuro non guarda, preso com’è dalla preparazione di una perfetta zuppa di ceci. Da solo, attende sua moglie, la madre, che se fosse presente lo criticherebbe: “La tv o la guardi o la spegni. Non mi piace che stia lì come sottofondo...”. Glielo ripete spesso, con altre piccole puntualizzazioni: “Stai calmo”, “Ti amo”, “Non ti preoccupare”, “Cosa mangiamo stasera?”, “Hai chiuso la porta d’ingresso?”, “Quando comincerà a vedersi la pancia?”.
Non è un caso la zuppa di ceci: i legumi sono un alimento importantissimo durante la gravidanza. Carboidrati complessi e fibre che insieme contribuiscono a mantenere stabili i livelli di glicemia. Acidi grassi fondamentali per lo sviluppo del sistema nervoso centrale e retinico dell’embrione. Alti contenuti di vitamina B1 e B2, sali minerali per ossa e muscoli. Ferro, zinco, calcio, potassio, magnesio: nuove abitudini. Un nuovo lessico. Tuba ovarica, follicoli, ovuli, ipotalamo, progesterone, cromosomi, fimbrie. Riflesso nel vetro della finestra – fuori, l’oscurità già piena delle sette e mezzo di sera: l’inverno – il padre analizza questa miniera d’oro di informazioni affastellate nel suo cervello e osserva il poco che di sé riesce a distinguere, notando appena, ma notandola, oltre i suoi confini corporei la figura labile di un altro se stesso in cui mi sembra di riconoscere la mia persona.
*
La partita di Elisabetta è un disastro. Presto non ne rimarrà niente. Subito bruciati i due pacchi migliori, quelli da 250 e da 500.000 euro, con inesorabile tracollo della drammaturgia. Il padre, afflitto come al solito per eccessiva empatia, dà una rimestata forse un po’ troppo nervosa alla zuppa, che schizza sotto forma di svariati punti esclamativi sul piano cottura; non riesce a resistere e vuole sapere, prende il telefono: la prima lezione di yoga è andata bene, sua moglie sta tornando ed è soddisfatta. Un’idea della ginecologa: quel dolore insistente dietro la coscia era sciatica, normale nelle fasi iniziali di una gravidanza, e lo yoga poteva aiutare. La madre aveva annuito e lui aveva pensato ecco, ci siamo: stiamo cominciando ad assomigliare alla forma che avremo da vecchi. «Arrivo» dice invece adesso la moglie al telefono, pochissime settimane più tardi. «Entro in garage e salgo.» Non lo sa ancora che c’è una zuppa che ribolle per lei. Forse preferirebbe dei fiori. Certamente una pizza.
“Sali piano” vorrebbe dirle il padre, ma si trattiene. “Sali piano, stai attenta, prendi l’ascensore, non sollevare pesi, la borsa lasciala in macchina.” Negli ultimi tempi è così ansioso. Fin troppo zelante. Indaga sulle sue abitudini e spesso la infastidisce. Insiste troppo. Stai bene? Stai male? Come ti senti? Era il caso di farlo? Non mi nascondi niente? Hai mangiato? Hai bevuto abbastanza? Di continuo domande. Devi proprio guidare? A quanto pare così è fatto un padre: insicuro e allo sbando. Sono tentativi goffi e innocenti di farsi notare su un proscenio che altrimenti tenderebbe a escluderlo. Non percepisce i movimenti fetali, non perde per quell’istante il respiro mentre capisce che un altro essere vivente lo abita, poiché nessuno lo abita: così è fatto un padre, in un padre non c’è posto. Né sente la vita che arriva: se la ritrova; e in mancanza d’altro tende a relativizzare ogni cosa. I disegni degli uccelli nel cielo, la forma degli alberi, tutto è un messaggio cifrato, ovunque può esserci un’informazione preziosa, nel complicato disegno del cavo degli auricolari, nella data di uno scontrino e peggio si sente, il padre, se gli capita di sognare, cosa che succede più spesso di quanto vorrebbe: mareggiate, case che crollano, nudità imbarazzanti. E situazioni ospedaliere, ovviamente. Più spesso di quanto vorrebbe, il padre sente il bisogno di confrontarsi via sms con la madre, perché è possibile che si sogni insieme e ci si trovi nottetempo svegli all’unisono con le code dei rispettivi incubi che ancora spuntano da sotto i cuscini, e se a quell’ora profonda è troppo tardi o troppo presto per discuterne – tutta l’energia impegnata nel tentativo di riaddormentarsi il prima possibile dragando a caccia di pensieri positivi –, a giorno fatto è più facile, addirittura si trova spazio anche per un po’ di ironia, e il dettaglio più pulp riesce a scatenare perfino un sorriso (“Ho sognato che partorivo un uovo”, “Nel mio, invece, avevi un travaglio lungo non so quanti giorni e poi ci rimandavano a casa così, senza aggiungere nulla, fatto sta che non eri più incinta”), ma questo è quanto. Nessuno che gli dica qualcosa, in molti lo ignorano. La figura della madre è dominante e assoluta, ogni preoccupazione è per lei.
Ma così è fatto un padre.
Nemmeno il panico gli è concesso, perché lui non porta la vita, non ha un organismo di madre da preservare, non necessita di legumi. Al limite un panico sornione e bonario che giace come una cattedrale o per meglio dire che gli fa compagnia, un grosso San Bernardo su un tappeto, un San Bernardo che ogni tanto solleva la testa per guardare e che non fa paura a nessuno. È ingombrante, più che spaventoso: il padre non lo riesce a spiegare che pure così è impegnativo. Gli dicono “Ma tu non sei mica la madre che fa tutto il lavoro”. Se si avvicina all’anta dell’armadio che contiene i primi due o tre bodini unisex che non si sa come hanno avuto l’ardire già di comprare, il cane si agita, abbaia. È un San Bernardo goffo e pesante che precede il padre nella passeggiata e si gira ogni tanto a guardarlo con la grossa testa inclinata per controllare a che punto è e la verità è che il padre è ancora indietro e lo sarà sempre, ma poco male: per fortuna il padre ha una guida e questa guida è la madre. Si fa condurre da lei, dalla sua disciplina, dal suo coraggio, dalla sua capacità di visione. Rimpicciolisce, il padre, ancora di più, mentre la madre si diffonde nello spazio, aumenta di volume e sostanza; già disormeggiata dal molo sicuro dell’Essere Figlia, alla volta dell’Essere Madre, a suo agio in un mare aperto scarsamente coperto da mappe. Non per caso lei quell’armadio già lo apre con sicurezza, come fosse niente: ogni tanto osa prendere uno dei microvestiti, lo annusa, si gira nella direzione del padre, il coniglio di questa stramba fattoria chiamata famiglia, e glielo mostra come se da qualche parte, all’oscuro da lui e da tutti, avesse già stretto un precisissimo patto d’amore con la creatura assurda che esonderà.
Così è fatto un padre: l’opposto di una madre.
*
Una mano identica alla mia spegne il fuoco sotto la zuppa di ceci. Sette anni fa con la stessa mano toccai per la prima volta mia moglie, liberando uno stormo di punti di domanda che è il pallone aerostatico su cui viaggia qualsiasi rapporto. Un inizio trascurabilissimo, come tutti: non eravamo a Parigi o a guardare un tramonto spegnersi nell’oceano Indiano, come avremmo fatto pochi anni più tardi; bensì al Pigneto, un quartiere di Roma che al tempo frequentavo per motivi senza importanza e che, volendo molto riassumere, riguardavano sesso, stupidità e lavoro. C’era un localino ben pensato, gestito da un amico di rara grazia e cervello, che tra presentazioni librarie, vino e polpette s’era arrischiato perfino a diventare una specie di punto di riferimento per i non più tanto giovani Holden dell’ambiente letterario romano, tra cui il sottoscritto. Succedevano cose, risse ogni tanto, un frequente proliferare di soggetti curiosi, dai punkabbestia ubriachi ai citazionisti compulsivi di David Foster Wallace, passando per un appropinquarsi inatteso di Alessandro Piperno ancora vergine di Strega o di Edoardo Nesi, o semmai di un tizio à la Charles Bukowski, semiavvinazzato, che poi scoprivi aveva contribuito a fondare la beat generation sessant’anni prima. Qualche Wu Ming. Un luogo brutto, per la verità, ma oltremodo buffo e amorevole in cui si tirava tardi, fino a toccare orari incredibili, orari a cui oggi quasi mi sveglio e che allora invece rappresentavano la norma. Ancora vivevo coi miei genitori, a trent’anni suonati, e ricordo accortissime mandate di chiave di notte e passi felpati per non farmi scoprire e la spiacevole sensazione di imbarazzo generico per il fatto d’essere ancora figlio a tal punto, eppure allo stesso tempo anche la consapevolezza che fosse ben più dignitoso così che fingere una falsa emancipazione fatta di un prestito di 300-400.000 euro per un loft soppalcato dalle cui chaise-longue dire male dei coetanei mammoni.
Lì fui invitato in occasione di un evento letterario per leggere uno stralcio del romanzo che stavo scrivendo e che al tempo ancora non aveva trovato un editore; e lì c’era anche mia moglie, arrivata grazie all’azione combinata della casualità e di una complessa mistura impalpabile che potrebbe prendere il nome di “destino”; una ragazza sconosciuta seduta tra il pubblico, insieme a un’amica. Era estate, era un’altra vita. Lei bionda, la sua amica mora, una persona qualsiasi tra miliardi: come successe che andò proprio così, che le nostre mani si strinsero, che ci guardammo per quel secondo in più del normale, fino a ritrovarci più vecchi in una cucina milanese a mangiare una zuppa di ceci? Successe. Andò. C’erano tra il pubblico ragazze più belle e un paio erano venute a salutarmi prima che la mia futura moglie arrivasse, ma trascorso da allora un bel po’ di tempo una soltanto è quella che tra poco entrerà dalla porta, felice della sua prima lezione di yoga, e questa mano che ha appena spento il fuoco non è identica alla mia: è la mia. Perché andò così? La verità è che né andò in alcun modo né fu predestinazione. Non fu incanto. Ci incontrammo e senza ragione continuammo a rispondere a quei punti di domanda, uno di seguito all’altro, che scoppiando facevano cambiare direzione al nostro rapporto portandoci lontano, sempre più lontano dal punto di partenza, e questo viaggio era bello. Avrebbe potuto essere brutto, invece era bello. “Moglie” non significa “anima gemella”, non indica uno stato di eccellenza. Non ci siamo incontrati e non ci siamo innamorati in virtù di un qualche tipo di volontà. È soltanto successo. Non è detto che la sceglierei ancora, o che andrebbe di nuovo così. Da qualche parte, nel mondo, è probabile, anzi è sicuro, che un’altra persona più adatta a me di lei esista. Che viva. Che abbia una marca di cereali preferita diversa da quella di mia moglie (che, per inciso, non ha una marca di cereali preferita, nel senso che ne prova una diversa al giorno e dopo il primo assaggio la scarta, perché troppo dolce poco dolce c’è il miele non c’è il miele si sentono i pezzi c’è la frutta non c’è la frutta non c’era mica scritto che era un muesli la frutta secca non mi piace si ammollano troppo non si ammollano affatto galleggiano affondano hanno una forma strana io volevo quegli altri vuoi mettere con le Macine, eccetera, col risultato che la collezione di cereali in dispensa sembra un’opera di pop art monumentale trovata sotto un lenzuolo nel garage di un qualche collezionista giapponese X); è possibile insomma che chissà dove, a Mosca o in Sardegna, forse in Francia, adesso, o ancora peggio in un altro tempo, domani, tra duecento anni, o nel secolo scorso, un’altra persona col naso a due centimetri da una tela materica in una galleria d’arte, una figura minuta e titubante, misteriosamente lasciva come un ritratto di Balthus attrarrebbe le mie attenzioni, se soltanto potessi vederla. Non c’è una ragione razionale per cui è capitato che avessi un futuro con lei e non con l’amica con cui si presentò a quel locale, Miriam. Il nostro stare insieme, il nostro resistere come marito e moglie, i risvegli, la quotidianità, i reciproci odori nel bagno, tutto ciò non è un miracolo, ma un atto di coraggio, uno sforzo, qualcosa che va alimentato, ché altrimenti morirebbe annegando. Quindi non è un miracolo, ma un merito. Merito nostro. Di una volontà precisa. Perciò lottiamo oltre i litigi e le piccole frantumazioni, le prevaricazioni, i silenzi. Perciò ci teniamo. Se camminassimo sull’acqua, quella sì sarebbe una cosa mai vista. Ma come coppia se ci mettete sull’acqua affondiamo. Dobbiamo sbracciarci o chiedere aiuto.
Non c’è alcun miracolo.
Si nuota per sopravvivere.
*
Flavio sta letteralmente spazzando con una scopetta di paglia la sfiga dal tavolo della concorrente Elisabetta e lo sta facendo con così tanto cuore che potrebbe anche funzionare. Potrebbe esserci un senso. Ma c’è dell’altro: per contrastare le Forze Del Male, Elisabetta chiede al conduttore un intervento più definitivo, e allora eccolo raccomandarsi a un oggetto ricorrente del programma, cioè un gufetto appeso a una catenella che lui fa oscillare come un aspersorio vagando per lo studio. È inquietante da vedere perché il rituale assume sul serio i contorni di una liturgia e, mentre in sottofondo parte il motivo dello Squalo di Spielberg, il miracolo si compie: Elisabetta chiama il pacco successivo e il pacco è buono!
Il padre scuote la testa davanti a tanta villica scaramanzia e cerca di decifrare i rumori provenienti dal pianerottolo. Arriva la madre. Pochi minuti più tardi stanno finalmente mangiando la zuppa. Lei gli dice «Buona», ma senza particolare entusiasmo; poi gli racconta – e qui l’entusiasmo si avverte – del suo corso di yoga, la prima cosa effettivamente da madre che fa, e ogni tanto, mangiando, gli tocca una mano: lei è come sempre aggraziata, animata da una gioia generica che riempie di particolari inutili la sua narrazione, piccole gemme ultradescrittive da cui ogni tanto il padre si stacca per osservarla, cercando di captare sottopelle la traccia di ciò che sta per diventare. Ci deve essere per forza da qualche parte il segno, la prova tangibile (e terribile) di quello che hanno fatto succedere, un omicidio al contrario, ma ciò che il padre vede o gli sembra di vedere è solo una donna che parla; si aspetta in effetti che confessi, che urli, che vomiti fuori qualcosa, qualsiasi cosa, il senso di ciò che è, di ciò che diventeranno, della decisione enorme che hanno preso, come quegli assassini interrogati nei film che a un certo punto sbottano e lo gridano, con liberazione, sono-stato-io!; invece la madre dice soltanto: «Indovina chi è l’unica persona del corso a cui ancora non si vede la pancia?». Appena appena con uno strascico strano, come fosse un’onta inaffrontabile, quell’“unica” sottolineato tre volte.
Il padre sorride in silenzio.
Lui quasi non c’entra in questa storia di corpi.
Diecimila pose diverse davanti allo specchio, di fronte, di fianco, le magliette arrotolate ben sopra l’ombelico.
Il sorriso che piano piano comincia a spuntare.
L’azzardo di qualche autoscatto.
Quarto mese, poi quinto.
Un tempo inerme, noioso. Animato solo dall’angoscia del padre. Il San Bernardo sempre parcheggiato in salotto, davanti all’armadio che contiene i bodini. La madre va e viene dall’ufficio come tutti i giorni, viaggia perfino, in lungo e in largo per l’Europa, sempre a suo agio nella tuta da supereroina contemporanea, marketing manager di una multinazionale giapponese – atroci sveglie all’alba per prendere aerei, tassisti sotto casa che cambiano faccia appena la vedono, prodigandosi all’improvviso in gentilezze estreme, un marito immerso in una bolla allucinatoria di attesa –, priva di qualunque sintomatologia esterna, ma dentro è un’altra storia. La prima volta che a Malpensa ha usato un parcheggio riservato alle donne incinte, lo ha tenuto al telefono dieci minuti.
I miei genitori chiedono naturalmente soltanto del padre, mai di me, che pure sono stato figlio, ma evidentemente quando un figlio diventa padre, be’, il figlio scompare; chiedono del padre, ma ancora prima della madre, come sta, che fa, dov’è. Se li chiamo dopo un’ecografia mi rispondono dopo mezzo squillo; nemmeno più dicono “Pronto”, subito scatta una domanda diretta, vogliono sapere, sono circondato da amore amore amore, amore di tutti nei confronti di mia moglie e di ciò che contiene, qualche attenzione semmai nei confronti perfino del padre, ché comunque vale la pena che stia bene anche lui; infine ci sono io, in fondo alla lista, come un vaso per l’...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. La bambina ovunque
  4. PRIMA PARTE
  5. SECONDA PARTE
  6. EPILOGO
  7. Nota dell’autore
  8. Copyright