Joe camminava lentamente. Doveva concentrarsi anche solo per spostare il piede in avanti. Si sentiva il cervello in fiamme e un affanno nel petto. Meno male che aveva smesso di fumare anni prima, anche se da come il cuore gli martellava la cassa toracica gli venne da pensare che l’aveva fatto comunque troppo tardi.
Cosa avrebbe potuto dire ad Anne? Cercava di non chiederselo, di far vagare la mente altrove, ma più ci provava, più il pensiero correva a lei e ad Angela, e la sua disperazione crebbe ancora di più.
Un passo alla volta, salì le scale che lo portavano al suo appartamento. Tornando a casa era passato di fianco alla chiesa, e per un istante aveva provato l’assurdo impeto di scendere dall’auto, entrare, inginocchiarsi e pregare. Non pregava da anni. Non aveva mai creduto in niente, se non nella sua routine: a ogni turno, arrivare in università, salutare senza che nessuno lo vedesse davvero – e gli andava benissimo così –, entrare nello stabulario, vestirsi con gli indumenti protettivi, passare per le procedure di decontaminazione e poi iniziare il suo lavoro, coscienziosamente. Gabbia sporca, gabbia pulita. Cabina di cambio. Aprire le gabbie sotto flusso laminare. Afferrare il ratto, spostarlo nella gabbia pulita, sistemare la gabbia pulita nello scaffale. Svuotare la gabbia sporca, metterla sullo scaffale per il lavaggio. E così via, per centinaia di gabbie. Per decine di anni. Non aveva mai fatto carriera, ed era felice così.
… stava di nuovo pensando al lavoro. Avrebbe voluto far tacere il cervello. Si può far stare zitta la mente? Era una cosa che si chiedeva spesso. La routine lo aiutava. Quando era concentrato sul lavoro, ci riusciva.
… ancora il lavoro.
Quando arrivò davanti alla porta, esitò. Non fece nemmeno il gesto di cercare le chiavi.
Ancora una volta, si chiese che cosa avrebbe potuto dire ad Anne. Come avrebbero fatto, adesso? Sii uomo, Joe, si rispose. Sii…
Si toccò il viso. Era sudato fradicio. Si portò una mano allo stomaco, che da quando aveva ricevuto la notizia aveva cominciato a pulsare a intermittenza. Aveva pianto? No, ancora no. Si sfregò il viso umido. Era solo sudore. Si decise a entrare.
La casa odorava di chiuso e di umidità e di quell’indefinibile aroma che lui associava alle case degli anziani. Era diventato vecchio anche lui.
Appoggiò le chiavi, appese la giacca, si tolse le scarpe, camminò in calze per il corridoio sporco di polvere e di capelli. Che disordine. Che schifo. Si era dimenticato di pulire e Anne come al solito… Non importa. Non si doveva arrabbiare. La colpa era sua. Era sua anche la colpa di cos’era successo al lavoro? E di nuovo quella domanda: Come faccio a dirglielo? Si fermò sulla soglia. Sua moglie era seduta sul divano. Come spesso di recente, invece di guardare la TV aveva un tablet appoggiato sulle ginocchia, che fissava spingendo la testa in avanti in una posa innaturale… per poi lamentarsi che le faceva male il collo.
Anne notò vagamente la sua presenza, spostò gli occhi verso di lui e gli fece un gesto col mento. Non si accorse che c’era qualcosa che non andava. Era totalmente concentrata sul video che stava seguendo. Joe allungò lo sguardo: sul tablet dei tizi vestiti in tute colorate sfrecciavano su alcune bici a velocità pazzesca in un bosco dalla pendenza ripidissima. Le riprese erano fatte con le GoPro, le telecamere che si mettevano addosso gli sportivi per far vedere quello che facevano in soggettiva: la sensazione di velocità e il rischio di finire contro gli alberi che sembravano sbucare all’improvviso lo terrorizzarono.
Joe si avvicinò ad Anne. Fece per sedersi, ci ripensò. Si sfregava le mani tra di loro, sul viso, ancora sudato. Lei lo guardò impassibile. C’era risentimento in quegli occhi? Odio? Delusione? Come faccio a dirglielo? Come…
«Mi hanno licenziato.»
Anne non ebbe particolari reazioni. Sospirò, forse. Le vennero gli occhi lucidi, forse. La cosa più terribile per Joe fu l’assoluta mancanza di stupore.
Joe balbettò qualcosa a proposito del fatto che avrebbe subito chiesto il sussidio di disoccupazione e si sarebbe messo alla ricerca di un nuovo lavoro già dal giorno dopo, che non avrebbe mollato…
Lei annuì distrattamente, un gesto così impercettibile da far venire il dubbio che si fosse mossa davvero.
Mentre Joe si allontanava dalla sala, gli parve di sentirle dire qualcosa.
«Non mi stupisce», forse.
Tornò verso di lei, incerto se chiederle di ripetere o meno. Invece rimasero in silenzio a guardarsi. Era la donna che amava, che gli aveva dato due figli, era malata e aveva bisogno di lui. «Ti giuro che non mollerò finché non avrò trovato un nuovo lavoro.»
Anne stavolta annuì più decisa. Continuò a muovere la testa anche mentre volgeva lo sguardo su di lui. «Come non hai smesso di cercare Angela.»
A Joe andò di traverso la saliva. Aveva sperato che almeno un giorno, almeno quel giorno, non gliel’avrebbe rinfacciato. Iniziò a tossire. Il cuore gli martellava nel petto. Si piegò in due per il dolore e la mancanza di fiato, in preda al panico. Per un attimo di cui si vergognò sperò di smettere di respirare, che l’aria non entrasse più nei polmoni, sperò di soffocare e poi andarsene, e vaffanculo, e addio a tutti. Invece lentamente si riprese, tornando a respirare. Se si dispiacque di essere ancora vivo, cercò di non ammetterlo con se stesso.
Dopo essersi cambiato, spedì il messaggio di WhatsApp che mandava periodicamente da parecchi mesi, ormai. Sette mesi, tre settimane e cinque giorni. All’inizio telefonava. Poi l’ispettore capo Childs aveva fatto capire che le sue telefonate erano peggio che inutili. Joe aveva stretto i denti. Si era offerto di collaborare alle indagini (non sarebbe servito a nulla), aveva chiesto se poteva portare altri effetti personali per aiutare le ricerche (erano già in possesso di tutti gli elementi necessari), qualsiasi cosa (non era necessario). Finché una sera, complici probabilmente diverse pinte di birra al pub, Childs gridò al telefono a Joe di non rompergli più i coglioni. Joe era passato quindi a quelli che considerava più discreti messaggi su WhatsApp, mandati prima ogni due giorni, poi con frequenza settimanale. L’ispettore non si era mai scusato, ma si limitava a un laconico “Nessuna novità nelle indagini, la avviseremo se ne avremo”. La risposta divenne presto “Nessuna novità”. E poco dopo la risposta più frequente fu il silenzio. Joe si era ritrovato più volte a fissare il cellulare in attesa di una spunta blu.
Nessuna novità. Sua figlia Angela era sparita e se ne erano perse completamente le tracce.
Era successo senza preavviso. Così aveva sostenuto Joe la prima volta che era andato a denunciare la scomparsa. Modificò la sua versione quando gli chiesero se ci fossero dei problemi in famiglia.
Ce n’erano? Ce n’erano mai stati? Quelli che ci sono in ogni famiglia, pensava Joe, e così disse. Angela era appassionata di sport e passava il tempo a girare l’Europa tra gare di free climbing, parkour e… come cazzo si chiamavano quelle cose che praticava? Come farsi i selfie sulle cime di grattacieli senza protezioni… Roofing, lo chiamavano. Una follia. Joe aveva provato a dire alla figlia che Anne aveva bisogno di cure costose, che col suo stipendio ce la facevano a malapena e che l’altra figlia, Laura, non poteva aiutarli ora che aveva un bambino. Angela se ne fregava. La vita era sua, diceva. E la vita di sua madre? E la mia vita, si chiedeva Joe?
Angela era già andata a vivere da sola. Le telefonate erano rare e se Joe rispondeva al telefono, Angela chiedeva immediatamente di sua madre. Joe si vergognava ad ammettere che a volte doveva sbirciare l’account Instagram e Facebook della figlia per sapere dove si trovasse e cosa stesse facendo. Lei non era di quelle che vivevano on line, ma quegli sporadici post permettevano a Joe di farsi un’idea precisa – o almeno così lui voleva credere – di cosa succedesse ad Angela. Una sera, la figlia era passata a trovarli, e Joe non era riuscito a evitare che dopo pochi istanti tutto degenerasse in litigio. Per l’ennesima volta le aveva ripetuto di trovarsi un lavoro sicuro, di mettere la testa a posto, di essere concreta. Angela gli aveva gridato di rimando che non poteva controllare la sua vita, che ormai era un’adulta, che avrebbe fatto da sola le sue scelte. Poi aveva ricevuto una chiamata su uno strano modello di cellulare, e sul suo volto si era dipinto un misterioso stupore.
Joe non poteva immaginarlo, ma quella sarebbe stata l’ultima volta che avrebbe visto sua figlia.
Un giorno si accorse che le notifiche dai social network si erano interrotte. Due, tre giorni. Una settimana. Joe le mandò messaggi, sapendo che non avrebbe risposto. E infatti così fu. Provò a chiamare. Ancora niente. Chiese a Laura di telefonare alla sorella. Con un messaggio Laura gli disse che non rispondeva neanche a lei. Quando lui insistette di provare ancora, Laura, infastidita, gli diede le chiavi dell’appartamento di Angela.
«Sai cosa succede se le entri in casa senza avvisarla» lo avvertì.
Joe andò lo stesso a casa della figlia minore. Entrò temendo il peggio. Ma l’appartamento sembrava in ordine. Solo un paio di soprammobili fuori posto, e un portafoto caduto a terra. Lo raccolse. Era un selfie della figlia; sorrideva.
Joe non ricordava più da quanto tempo non la vedeva sorridere. E il peggio era che ora non sapeva quando – se – sarebbe potuto succedere ancora.
«È colpa tua» aveva detto Anne dopo che Joe le aveva raccontato dei post su Facebook e della casa vuota. Non lo gridò: quasi lo mormorò. Colpa sua?, si era detto Joe. Colpa sua perché le aveva chiesto una mano? Colpa sua se l’aveva implorata di aiutarlo a badare alla madre? Colpa sua se… si fermava ogni volta prima di finire quel pensiero, perché era orribile, e sapeva che se ne sarebbe vergognato.
E poi era cominciata la seconda accusa ossessiva: «Hai smesso di cercarla. Hai mollato». Ma anche su questo fronte, cosa avrebbe potuto fare, lui? Quando la polizia aveva rifiutato il suo aiuto, Joe aveva provato a contattare gli amici di Angela, o almeno i suoi contatti sui social network. Nessuno sapeva niente. Qualcuno disse solo che sembrava molto preoccupata per le condizioni di salute della madre. Joe avrebbe voluto domandare: “E di me parlava? Mi ha menzionato almeno una volta, una volta sola, almeno per dire che mi odiava?”. Ma si sentiva già abbastanza patetico a chiedere informazioni a quei ragazzi che lo guardavano con espressioni che variavano dalla pena allo schifo, o un misto delle due cose.
Qualche giorno dopo essere andato a casa di Angela, Joe aveva provato di nuovo a chiedere aiuto a Laura, che però si era disinteressata alla cosa da subito. Il marito di Laura, Ian, aveva detto che Angela era adulta ed erano stracazzi suoi se voleva andarsene senza dire un cazzo a nessuno. «Ian ha detto…» Il disco rotto. Ciò che diceva quella specie di gorilla diventava all’istante il pensiero della figlia. «Tuo padre è un rompicoglioni» era una delle frasi preferite di Ian, e Laura su quel fronte non aveva certo bisogno di inviti, perché non aveva mai comunque dato retta alle raccomandazioni di Joe. Quando si era ritrovata incinta giovanissima, Joe aveva sperato, tramite il nipote, di potersi indirettamente riavvicinare alla figlia. E invece Ian non aveva perso tempo a metterci becco: «Adesso che abbiamo un bambino, di’ ai tuoi di non stare troppo in mezzo alle palle, se abbiamo bisogno di una mano ci sono i miei genitori». Suo nipote Mike stava crescendo senza che lui vedesse i suoi progressi. Si sarebbe perso le prime parole, le volte che avrebbe tentato di mettersi goffamente in piedi…
La sera in cui perse il lavoro, dopo aver parlato con sua moglie Anne Joe si fece forza, prese il cellulare e cercò in rubrica il numero della figlia.
«Sono papà» disse con un filo di voce.
«Lo so, pa’, ho visto il numero sullo schermo.»
«Era… era solo per sapere come andava.»
In sottofondo, i rumori gutturali emessi da Mike.
«Il solito. La mamma come sta?»
«Il solito.»
Silenzio. Il bambino aveva cominciato a piangere debolmente.
«Senti, pa’, se non hai niente da dirmi…»
«Sì, in realtà qualcosa ci sarebbe…»
«Dài, che devo andare. Mike sta per mettersi a piangere e poi non smette più.»
«Io…»
Cercò di pensare a cosa dire. Si immaginò la scena. La notizia del licenziamento. All’altro capo del telefono, il volto schifato della figlia, preoccupata dalla sicura richiesta di aiuto economico che non poteva dare. Le scuse. Le accuse mute di essere un fallito. Era una situazione facile da immaginare. Si chiese: allora perché viverla? Era già abbastanza dolorosa nella sua mente.
«Niente» disse alla fine, «volevo solo sapere come stavate tu e il bambino. Scusa se ti ho disturbato.»
«Mh-mh. Bene. Grazie. Ora scappo. Ciao.»
Laura riattaccò. Joe si ritrovò a fissare lo schermo nero del cellulare. Fino ad allora non aveva pianto. Ne sentiva ferocemente l’impulso, ma si trattenne anche quella volta. Il groppo che aveva in gola non andò v...