Per un attimo il neonato restò sospeso a testa in giù, incerto se fosse nato o meno, e poi lanciò un vagito.
Olga diede un’occhiata alla madre. Aveva perso i sensi ma respirava. Anche il bambino respirava, e anche il padre. Respiravano tutti in famiglia, quindi il suo lavoro era compiuto. Appoggiò il neonato sulla pancia della madre per qualche istante, ma lei non riprendeva i sensi, così controllò che il sangue nel cordone avesse smesso di pulsare e lo tagliò, mentre con un gomito teneva a bada il padre, che cercava di avvicinarsi. Alla fine glielo mostrò, facendo in modo che si vedesse bene cosa aveva tra le gambe e, per rassicurare tutti con qualcosa da medico, aggiunse: «È maschio».
Il diciotto scoppiò in lacrime per l’emozione. Olga lo lasciò fare, mentre lei e la sorella della madre avvolgevano il bambino nell’ultimo asciugamani pulito. Quando ebbero finito, anche il padre era pronto.
«Un braccio sotto, una mano dietro la testa» gli spiegò Olga.
«Ciao, Luca» fece lui stringendolo in modo quasi decente. «Ciao ciao.»
Dalla poltrona in fondo alla stanza da letto, il nonno li fissava con i suoi occhi traslucidi. Era un uomo sotto i cinquant’anni tenuto in ottime condizioni, quasi calvo, con i baffi e la barba brizzolati. Indossava una camicia azzurra e un gilè cambiati di recente. Aveva fissato Olga per tutte le tre ore del travaglio, e a lei non piaceva essere fissata dai bloccati. Aveva chiesto al padre di coprirgli la testa con un panno, ma l’avevano guardata come se avesse proposto di dargli fuoco.
E adesso erano tutti intorno alla poltrona per mostrargli il bambino. Perfetto.
«Luca, ti presento tuo nonno» disse il padre del neonato avvicinandolo al volto del bloccato. «Papà, questo è Luca. Hai un nipotino, adesso.»
Ovviamente l’uomo non si mosse, come non si era mosso negli ultimi quattro anni. Il diciotto lo tenne un po’ lì sospeso e poi fece per restituirlo a Olga.
«Ah, no. Il figlio è vostro.»
«Ma io…»
Lei lo ignorò mentre controllava che la placenta fosse integra, poi schioccò le dita per attirare l’attenzione della zia del neonato. «Aspettate che si svegli la madre e allattatelo. Non è difficile, il bambino sa tutto.»
«Ma Cami ha solo quindici anni.»
Da quando era arrivata, non avevano fatto altro che ripeterle che la madre aveva solo quindici anni.
«Quindici anni sono più che sufficienti» aveva provato a spiegare Olga. «Prima si fa, meglio è.» Ma i ragazzi non si erano fidati, e a Olga non piaceva ripetere le cose due volte. Per fortuna l’acqua calda e gli asciugamani li avevano portati senza che dovesse neanche chiedere. Pile e pile di asciugamani: quello lo avevano visto nei film.
Tra le montagne l’accesso alla rete non era granché, e tantomeno in quella baita sperduta, così Olga si fermò a dettare istruzioni sull’allattamento nel registratore vocale di un vecchio Galaxy con lo schermo spaccato, mentre la zia e un’altra ragazza con la testa rasata ascoltavano concentrate e la coprivano di domande. Alla fine scesero in cucina. Testa rasata le diede un bicchier d’acqua e le chiese se aveva fame.
«Ho sempre fame» rispose Olga sedendosi al tavolo.
Testa rasata le indicò la porta. «Non mangiamo qui.»
L’odore della carne le arrivò ancor prima che testa rasata le indicasse le scale, tre gradini che portavano in uno spazioso seminterrato, dove una ventina di persone la aspettavano sedute a un grande tavolo a ferro di cavallo.
Quando entrò, si alzarono tutti in piedi e applaudirono.
Pasta in brodo e pane alle mele, risotto con i funghi e frittata al formaggio, salsiccia, zeppole fritte e torta multistrato con marmellata di fragole e Nutella, vino, birra e ovviamente fiumi di sakè. Per Olga abbuffarsi alle feste di nascita era normale, considerato che era sempre l’ospite d’onore, ma quella sera sentì di aver superato se stessa. Qualcuno le offrì una poltrona e lei ci sprofondò. Si sentiva esplodere la pancia. Qualcuno le passò una canna. Olga fece due o tre tiri, poi chiese un bicchiere di Coca-Cola e limoncello e si rilassò.
D’un tratto la porta si aprì ed entrò il padre con una copertina tra le braccia. Mezza canna e mezzo litro di sakè prima Olga si sarebbe alzata e gli avrebbe fatto il culo per aver portato il bambino appena nato in una stanza piena di fumo, ma la poltrona era troppo comoda e il figlio non era suo. Il padre sollevò il piccolo Luca come una coppa del mondo e la stanza applaudì. Qualcuno incominciò a scandire: «Re-ga-li! Re-ga-li!». Lui chiese di aspettare la madre, ma i regali stavano già arrivando. La zia e testa rasata si affrettarono a portare via il neonato, e un momento dopo spuntò dal nulla una tavola da snowboard aerografata, seguita da una mazza da baseball rosa, un buono per un bot di architettura nascosto in un modellino della Torre Eiffel, un libro intitolato Il partigiano Johnny e un cappello da renna di One Piece. Il padre mise il cappello, biascicò quattro parole confuse dalla stanchezza e Olga rise con gli altri.
Arrivavano altri regali, ma si accorse di un ragazzino che la guardava, un tredici o un quattordici con la riga al centro e gli incisivi più grandi che avesse mai visto.
«E tu che vuoi?» gli disse. «Hai messo incinta una tipa?»
Il ragazzino fece di no con la testa, troppo timido per rispondere. Olga finì la Coca col limoncello, gli passò il bicchiere e lui tornò un attimo dopo con la ricarica. Poi a bruciapelo le domandò: «Posso venire con te?».
«Eh?»
«Domani, quando te ne vai, posso venire con te? Questo posto è una palla. Sono mesi che cerco di andarmene, ma gli altri dicono che sono troppo piccolo.»
«Tipo?»
«Quattordici.»
«Eh!» fece Olga. «Hanno ragione, sei troppo piccolo. E anche se fossi un ventuno, io viaggio da sola.»
«Allora tu puoi viaggiare da sola e io posso viaggiare da solo… diciamo a dieci metri da te?»
Lei si mise a ridere, sorpresa dall’ostinazione. «Ascolta, io mi muovo a piedi. In giro ci sono gli animali, ci sono le squadre. Giù a valle, scendendo da qui, è pieno di squadre.»
«Ah» fece lui deluso. Un applauso accompagnò il padre che sollevava trionfante una foto incorniciata del nonno bloccato sulla poltrona. Olga lo indicò, per cambiare discorso, ma il ragazzino aveva un istinto per le domande sbagliate.
«Perché viaggi a piedi? Non hai i syyn per la bici?»
«Preferisco andare piano e vedere dove vado. Così non cado nelle imboscate.»
«E non ti beccano?»
«Se mi beccano, ho questo.» Sollevò il braccio per mostrare il tatuaggio da medico errante che aveva sul polso.
«Tutti possono farsi un tatuaggio.»
«Ma se poi ti chiedono di curare qualcuno e non lo sai fare si incazzano.»
«E se invece sei un vero medico, davvero ti lasciano in pace?»
Olga lo guardò incredula: quel chupi non sarebbe riuscito a sembrare più idiota se si fosse sforzato. «Sei troppo piccolo» ripeté. «E io non posso proteggerti.»
«Che palle.»
«Una cosa, però, puoi farla.»
Il volto del ragazzino si illuminò: «Cosa?».
«Portarmi un’altra fetta di torta.»
La mattina dopo si svegliò tardi, fece colazione e cercò qualcuno per farsi pagare. Dormivano tutti, tranne un venti con una maglia dell’Inter che si era alzato apposta per lei.
“Non sarebbe male vivere qui” pensò Olga, mentre aspettava che il venti le trasferisse il pagamento in syyn sull’account. Le diede anche mezzo pane alle mele, un tupperware con dieci uova, un sacchetto di piselli secchi, una manciata di more e un po’ di carne avanzata dalla sera prima. Olga trovò il posto per tutto, poi si mise lo zaino in spalla, il fucile a tracolla e sollevò una mano per segnalare all’interista che stava andando. Lui le fece segno di aspettare e venne a stringerle la mano.
«È un po’ difficile raggiungerci, ma ogni volta che vuoi passare ci trovi qui.»
Olga ringraziò per la cena e si mise in marcia.
Per scendere a valle bisognava percorrere una serie di tornanti molto stretti, separati da ripidi tratti pieni di rocce. In alcuni punti era possibile prendere delle scorciatoie, ma altrove il terreno era troppo accidentato e Olga aveva paura di trovarsi con una caviglia slogata lassù, dove nessuno l’avrebbe aiutata.
A metà giornata trovò una spelonca nascosta dagli alberi e si fermò per fare una sosta. Dopo essersi guardata intorno aprì la giacca e il pile sotto di essa, fino a raggiungere la sottilissima tracolla che portava sotto l’ascella in cui era nascosto il telefono. Lo accese, aspettò che trovasse il segnale, scaricò le novità e poi per precauzione disattivò i dati, anche se aveva ricaricato tutte le powerbank il giorno precedente.
Quelli della baita si erano svegliati, e il padre di Luca le aveva dato il voto massimo, riportandola a 9,8. Nell’inbox c’erano sedici nuovi messaggi. Dieci erano spam, servizi che avrebbe dovuto disdire, newsletter inutili. Tre erano aggiornamenti dal board Ostetricia, che salvò per leggerli con calma offline. E poi c’erano tre mail dalla famiglia di Pagazzano: una, in cui le chiedevano di sbrigarsi, l’avevano mandata il giorno precedente, ma il server se l’era tenuta per tutta la notte. La seconda era arrivata verso le tre, ed era identica alla prima. Nella terza, mandata quella stessa mattina, annunciavano la nascita prematura di Bart, maschio, vivo. C’era anche un selfie col bambino, piccolo ma in forma. Olga schiacciò un cuore e rispense il telefono, tagliò due fette di pane alle mele, ci infilò dentro un po’ di carne fredda e le more e mangiò osservando la vallata. Una cinquantina di metri più in basso, una volpe la fissava dalla cima di una roccia.
Due ore dopo raggiunse la superstrada. Lì era meglio non fermarsi più del necessario perché le probabilità di incontrare una squadra di razziatori erano maggiori. Si avviò verso ovest. Senza la famiglia di Pagazzano non aveva niente da fare per quasi un mese. A fine maggio si sarebbe dovuta far trovare a nord di Casale Monferrato, ma non poteva restare così a lungo senza lavoro, quindi l’unica era dirigersi verso la pianura e le zone più abitate e sperare di trovare qualcosa.
Imboccò una buona statale, dritta e sgombra dalle macchine. Correva al centro della valle tra un bosco di alberi spogli e un campo di erba alta attraversato da stretti canali fangosi. Passò accanto a un trattore che spuntava da una roggia, il muso verso l’alto in un’ultima, formidabile impennata. Il guidatore era sdraiato sul sedile con la testa all’indietro. Il ventre, aperto dagli animali, si era riempito di margherite. A sud una sottile ciminiera azzurra dominava un gruppo di capannoni tozzi e desolati.
Dopo tre o quattro chilometri si accorse che qualcuno la seguiva. Per la verità non faceva nulla per nascondersi, a cominciare dal giaccone da snow verde acido. Era il quattordici con cui aveva parlato la sera prima, vestito con scarpe da montagna e zaino da campeggio. Olga decise di ignorarlo ma, ogni volta che si voltava per controllare, lui aveva recuperato qualche metro.
«Oh!» gli gridò, scatenando il canto di un piccolo stormo di uccelli tra gli alberi. «Tornatene a casa, prima che faccia buio!»
Il quattordici si fermò. Olga riprese a camminare. Pochi minuti dopo si voltò e lo trovò sempre alla stessa distanza. Scrutò la campagna deserta fatta di strade vuote, distese di rovi e case disabitate, domandandosi che cosa avesse fatto per attirare quell’idiota. Decise di ignorarlo, si sarebbe stancato presto.
Più avanti la statale piegò verso sud e si infilò tra due filari di alberi spogli. A un bivio un grande cartello segnalava la direzione per Lecco. Olga imboccò l’altra strada, si arrampicò su per una salita e mentre scollinava avvistò la squadra.
Erano appollaiati di vedetta sul fianco di un autobus rovesciato: molto carini da vedere, ma anche facili da notare. Alle sue spalle il quattordici continuava su per la salita, ignaro di tutto. Olga gli fece segno di aspettare, poi si accovacciò dietro un guardrail e prese il binocolo: non contenti di essersi messi lì in bella mostra, avevano tutti un ...