La vicenda onnicomprensiva – e purtroppo tragicamente assurda – della Uno Bianca inquadrata come “ditta criminal-familiare” dei fratelli Savi, nel “ramo d’azienda” dove la giustizia italiana ha deciso di incasellare anche la Banda delle Coop, è una delle più grandi mistificazioni della storia contemporanea del nostro Paese.
C’è tutto il peggio delle nostre, intese come italiche, virtù negative, nel disegno strategicamente manipolatorio di dare a queste trame eversivo-delinquenziali, tra indagini e sentenze passate in giudicato, una lettura assolutamente di parte e come minimo fantasiosa e con paradossi al limite del grottesco con conti che davvero non tornano mai.
1. La culla
È il 24 febbraio 1989: «Non ce l’abbiamo con te, ce l’abbiamo con lo Stato»2. Sono queste le parole, a loro modo fatalisticamente consolatorie, che dicono i banditi al portavalori Gianfranco Fava Favalini mentre lo rapinano a Bologna in quel giorno di fine febbraio. È una frase un po’ sbruffona e fuori tempo massimo dall’anarchismo rivoluzionario ottocentesco? No, al contrario, è una precisa manifestazione d’intenti.
Per la rapina sono stati condannati in maniera definitiva, una colorita signora bolognese, Annamaria Fontana, prostituta informatrice della Squadra mobile della questura di Bologna e quattro rapinatori catanesi: Emilio Platania, Mimmo Catalfamo, Giuseppe Raciti e Carmelo Amato3. La Fontana sostiene che questi individui sarebbero anche fra i protagonisti di uno degli assalti alle Coop rivendicati dai fratelli Savi, persone di cui non sa nulla, anche se non ignora che “i componenti della Banda delle Coop avevano aderenze con appartenenti alle forze di polizia”4. Essendo rimasta coinvolta anche per la rapina alla Coop di via Gorki del 26 giugno dello stesso anno, in cui viene assassinato Adolfino Alessandri5, fatto per il quale sarà condannata con sentenza definitiva della Corte d’assise d’appello di Bologna del 23 ottobre 1992, si spaventa e contatta un funzionario conosciuto in precedenza, un funzionario della cosiddetta “Buoncostume”.
Il suo racconto è degno di nota perché ha come protagoniste diverse squadre di rapinatori catanesi, conosciuti tramite il marito, un pluripregiudicato originario di Catania. Queste squadre si servivano di appartamenti che lei, diversificando il suo business, metteva a loro disposizione come base logistica per l’esecuzione delle rapine a Bologna. Il colpo di scena che scoprono gli inquirenti è che alcune di queste rapine, come la stessa rapina alla Coop di via Gorki, sono fra quelle attribuite alla Banda delle Coop, con decine di riscontri per tutte le sue affermazioni. D’altronde non c’è da stupirsi perché Annamaria Fontana conosce personalmente i rapinatori. Costoro sono a Bologna nei giorni delle tante rapine descritte e in quelle dei sopralluoghi circonstanziati dalla donna e addirittura si trovano riscontri dattiloscopici – insomma, le impronte – e fotogrammi di rapine che immortalano i personaggi di cui parla.
Infatti, sia la Fontana che i rapinatori catanesi vengono condannati con sentenze passate in giudicato per decine di rapine, ma non per tre rapine che rientrano nella saga della Uno Bianca, per le quali, dopo le condanne in primo e secondo grado, interviene una pronuncia assolutoria a seguito delle salvifiche vicende che stiamo per dire.
In merito alla rapina “allo Stato”, perpetrata fisicamente nei confronti della guardia giurata Fava Favalini (che la Fontana chiama “il Commesso”), uno dei banditi ammette di aver partecipato ai pedinamenti del portavalori. Ed è esattamente quello che la donna ha raccontato, spiegando, nel dettaglio, come il bandito fosse stato sostituito dal nipote Emilio Platania, che lei presenta come il capo della squadra responsabile non solo della rapina al Commesso, ma anche di quella di via Gorki in cui viene assassinato Adolfino Alessandri.
La rapina a Fava Favalini, in apparenza, non c’entra nulla né con la Uno Bianca, né con la Banda delle Coop. Però dopo le confidenze della donna, si scopre un particolare decisivo. Dopo l’ultimo sopralluogo, avvenuto il 12 febbraio, i rapinatori commissionano a un altro catanese, un autotrasportatore residente a Bologna, il furto di un’auto. La Fontana ignora chi abbia materialmente eseguito il furto, ma secondo lei la macchina, una Fiat uno, era a disposizione dei rapinatori il giorno della rapina, ovvero il 24 febbraio6. Ebbene: «Nel febbraio 1989 furono rubate quattro Fiat Uno, di cui tre erano già state recuperate […] prima della rapina Fava Favalini, mentre una sola era ancora nelle mani dei ladri: la Fiat Uno diesel sottratta il 21 febbraio a Danilo Gileno»7.
Si tratta dell’auto utilizzata dai responsabili della rapina alla Coop di via Gorki. Fra le due rapine – ossia tra il 24 febbraio e il 26 giugno – la macchina percorre 1.500 chilometri e passa per il centro di Parma, città dove i Savi non sono mai stati. Viceversa, il 18 aprile 1989 le immagini della videosorveglianza della Banca Emiliana di Parma, secondo due perizie antropometriche, di cui dà conto la Corte d’assise del processo Amato, immortalano due dei rapinatori che avrebbero rapinato sia Fava Favalini che la Coop di via Gorki. Uno dei due è proprio Mimmo Catalfamo, il rapinatore mancino8 che, secondo quanto riferito da Annamaria Fontana, avrebbe materialmente sparato a Adolfino Alessandri.
La Corte d’assise e la Corte d’assise d’appello elencano molte decine di conferme oggettive alle parole della Fontana, ma una, ai fini della nostra storia, merita un pizzico d’attenzione in più.
Il 26 giugno 1989, il lunedì della rapina alla Coop di via Gorki, il treno delle 10.30 da Catania arriva a Bologna, con due ore di ritardo. Annamaria Fontana lo ricorda bene, testimoniandolo agli inquirenti e raccontando che su incarico di Mimmo Catalfamo quella mattina va in stazione a prendere i due giovani rapinatori che si dovevano unire alla squadra già presente in città. E poco dopo accompagna i due “ragazzini”, come li definisce lei, insieme a un terzo personaggio, a fare un sopralluogo in via Gorki.
Siamo a Corticella, quartiere popolare della periferia nord, all’epoca frequentato prevalentemente dai residenti. E la comitiva, con vociare non bolognese, non ha certamente l’aria dei normali clienti di quella Coop. I tre spingono un ingombrante carrello con due o tre piccole ma colorate confezioni di vasetti da barba e formaggini e vengono notati da un teste che descrive il comportamento scanzonato dei due ragazzini lungo le corsie del supermercato e il contenuto del carrello9. La stessa tipologia di prodotti per numero, dimensioni e impatto visivo, e lo stesso comportamento, seppur con un linguaggio più gergale – «facevano i mongoli […] cincischiavano tutti così, poi prendevano, per esempio, un vasetto da uno scaffale e lo cacciavano sopra in un altro» – vengono confermati anche dalla signora Fontana10. Invece al cliente della Coop non sfugge come lo abbia guardato il terzo personaggio, ovvero con «uno sguardo duro, molto duro, non saprei descriverlo diversamente»11 dice lui. Gli sembra di riconoscerlo in una ricognizione effettuata durante un’udienza di Corte d’assise nel processo Amato. La persona vista alla Coop aveva però una capigliatura più folta. Il dubbio viene sciolto da fotografie dell’epoca, dal maresciallo dei carabinieri che ben lo conosceva e, soprattutto, dal suo barbiere. Parlano del 1989 come di un tempo più fortunato per la chioma del nostro personaggio, seppure già alle prese con lozioni contro la caduta dei capelli12. Si tratta di René Napolitano, gestore del ristorante Parco Covignano, nella collina di Rimini, e residente nel ravennate, a Lido di Savio, posto da cui, come spiega un altro teste, la mattina del 26 giugno, si era allontanato per recarsi a Bologna13.
D’altronde la stessa Fontana, nei mesi precedenti, aveva accompagnato Emilio Platania al ristorante Parco Covignano. Ma non c’è nemmeno bisogno delle sue parole per stabilire i rapporti fra Platania e René Napolitano. Il locale da lui gestito, nel 1988, era stato sottoposto a intercettazione telefonica dalla procura di Ravenna. Grazie all’ascolto delle telefonate, il processo alla Banda delle Coop, che nel recinto conoscitivo della prostituta bolognese riguardava solo alcune squadre di rapinatori, assume colori completamente diversi. E consegna un senso a quel «non ce l’abbiamo con te, ce l’abbiamo con lo Stato» con cui i rapinatori si sono presentati a Fava Favalini.
Vediamo chi sono i personaggi che frequentano il locale sulla collina riminese che, dopo le parole dei fratelli Savi, beneficeranno di una salvifica assoluzione per tutte le vicende, anche di contesto, riconducibili alla Uno Bianca. Cominciamo dal gestore. Prima di Parco Covignano, dal 1974, Napolitano vive in Belgio, a Charleroi, dove gestisce La camorra14, una pizzeria dal nome evocativo. Delforge, un poliziotto di quella città, sentito per rogatoria il 26 dicembre 1991, lo indica come interessato alle rapine15 e amico di vari banditi belgi16. Inoltre, nelle pertinenze di una abitazione nella sua disponibilità a Lido di Savio, si rinviene una pistola mitragliatrice priva di matricola che, secondo Delforge, somiglia a un’altra arma che un uomo dell’entourage di Napolitano gli aveva mostrato nella pizzeria belga17. Mentre uno degli ospiti di Napolitano è Francesco Sgrò, il bidello romano condannato per aver depistato le indagini sulla strage dell’Italicus che millanta anche la sua appartenenza alla segreteria di Giulio Andreotti. Nel processo per la Banda delle Coop è accusato – e condannato in primo e secondo grado e poi assolto dalla Cassazione – di aver procurato dei documenti ad alcuni latitanti.
In una siffatta combriccola può mancare un uomo dello Stato? Certo che no. È l’ex magistrato – ex perché è stato radiato – Nicola Marcucci. Che racconta di una cena svoltasi proprio a Parco Covignano in cui si parla dell’organizzazione di rapine in Emilia-Romagna c...