Tutti i ragni che aveva ucciso per lei non erano serviti a niente. Centinaia, forse migliaia, di ogni forma e dimensione, sacrificati sull’altare della convivenza. Sua moglie ne aveva una paura maledetta. Non temeva potessero farle del male, la sua era piú una repulsione inconscia: il modo in cui si muovevano, il fatto che avessero piú di quattro zampe, quella bava con cui creavano reti architettonicamente perfette: erano creature adatte agli incubi, non al mondo reale, e se sapeva che in casa ce n’era anche solo uno non le riusciva di addormentarsi. A volte capitava nel cuore della notte: si svegliava, accendeva la luce per leggere ed eccone là uno, appeso a un angolo della stanza come un funambolo sorpreso a svaligiare un museo. Claudia ci provava a riassopirsi, era capace di passare ore, cercando di cancellare il ricordo del ragno dal buio che aveva confuso i connotati della stanza, ma alla fine era piú forte di lei: gli toccava dolcemente un gomito, Edoardo sgusciava controvoglia fuori dal sonno e si trovava addosso i suoi occhi spalancati, teneri e insieme imbarazzati, che lo imploravano di aiutarla a dormire. Lui sbuffava, la malediceva scherzosamente, andava a recuperare uno strappo di carta igienica e poi, con noncuranza, coglieva l’aracnide dal muro e lo faceva sparire nello scarico.
La stessa noncuranza l’aveva ritrovata in lei quando lo aveva piantato, dopo quattordici anni di convivenza, un giorno prima che scadesse il loro secondo contratto matrimoniale. Aveva preso poche cose, lo aveva baciato sulle labbra e se ne era andata, lasciando la casa piena dei suoi vestiti e del suo odore; come un astronauta, aveva abbandonato la propria bandiera su un pianeta che non sarebbe tornata a visitare.
A volte pensava che era un peccato che Alessio non l’avesse mai incontrata, perché di sicuro sarebbero andati d’accordo. Claudia in un certo senso l’aveva conosciuto: dai suoi racconti, dalle foto, dagli articoli di giornale; aveva imparato ad apprezzarlo, poi ad accettarlo nella loro vita, infine a odiarlo. Ci aveva messo un po’ a confessargli che non ce la faceva piú, a sentirlo parlare del fratello morto vent’anni prima, in continuazione, come se fosse una specie di divinità onnipresente da onorare con le loro attenzioni. Quando litigavano, lei spesso lo accusava di essere ancora un ragazzino, di vivere con le spalle voltate all’orizzonte, mentre diventare adulti significa accettare il concetto di perdita, ed è solo rinunciando all’amore di una persona che si diventa sé stessi. Edoardo non l’aveva mai ascoltata, e non l’aveva fatto nemmeno quando lei gli aveva chiesto, o meglio lo aveva implorato, con lo stesso miscuglio di tenerezza e imbarazzo negli occhi, di cercare aiuto, di parlarne con qualcuno, non necessariamente lei, magari un collega che gli insegnasse come gestire quel tipo di ossessioni. Lui la lasciava sfogare, convinto che non ci fosse alcuna emergenza, dando per scontato che finché fosse stato disposto a farsi svegliare nel cuore della notte per uccidere ragni, tutto il resto le sarebbe bastato.
Ora lei era impegnata a ricostruirsi una vita, mentre lui si limitava a dimagrire fra le macerie del loro rapporto. Sapeva che Claudia aveva ragione, su Alessio, l’aveva capito il giorno che se n’era andata, vedendola scendere le scale con quelle valigie leggere, ma gli ci era voluto piú di un anno per accettarlo. Il problema era che non si fidava degli psicologi, nonostante ne avesse sposata una.
Qualche settimana prima aveva letto l’annuncio di un certo Samir Kaveshi, che proponeva una nuova terapia basata sulla scatola specchio di Ramachandran. Quel nome aveva subito acceso una lampadina: conosceva la storia di Vilayanur S. Ramachandran, in quattordici anni di matrimonio Claudia gliel’aveva raccontata decine di volte. Negli anni Novanta Ramachandran si era ritrovato a curare dei pazienti che avevano perso una mano in un incidente ma sostenevano di sentirla paralizzata in un crampo. La mano era assente ma il dolore era reale, e questo perché, per quanto fisico possa risultare, il dolore appartiene al dominio del cervello, che è in grado di imporlo sulla realtà dei fatti. Il neurologo indiano aveva passato mesi a sbatterci la testa, finché un giorno era arrivata l’illuminazione: se il cervello decide che la mano c’è ancora, tanto vale giocare secondo le sue regole. Prese una scatola, ci posizionò in mezzo uno specchio e praticò su un lato due fori abbastanza grandi; quando il paziente infilava entrambi i polsi nella scatola, ai suoi occhi la mano mutilata veniva rimpiazzata dal riflesso di quella sana. A questo punto era sufficiente chiedergli di aprire e chiudere entrambe le mani simultaneamente perché il cervello ricevesse il feedback visivo che gli mancava e il crampo si sciogliesse. Si trattava di un inganno, naturalmente, ma poiché anch’esso avveniva nel dominio del cervello, il trucco funzionava.
L’annuncio diceva solo che il laboratorio era situato presso il Centro Joseph E. LeDoux, a Milano, e che l’offerta era indirizzata a cittadini nei quali fosse riscontrabile un trauma da perdita. Edoardo dubitava che la paralisi di un arto fantasma potesse essere in qualche modo paragonata alla morte di un fratello, ma aveva comunque preso nota del numero di telefono in calce all’annuncio e si era rimesso a letto, in attesa che il sonno arrivasse a diluire ancora una volta tutti i buoni propositi. Si era ripromesso di chiamare il Centro LeDoux come prima cosa l’indomani mattina, poi si era svegliato tardi e aveva rimandato, e cosà per settimane.
Ogni sera passava lunghe ore a guardare il soffitto, aspettando che la luce del crepuscolo scivolasse fuori dalla finestra lavando via le macchie di umido dalla tappezzeria, e ogni sera, quando il buio finalmente arrivava a cancellare forme e contorni, Edoardo accendeva la lampada e controllava se ci fossero ragni da uccidere. Non ne trovava mai nessuno.
Per qualche motivo, anche loro avevano levato le tende.
Mentre salivano le scale, Edoardo si rese conto di non ricordare il nome della ragazza.
Ada? O forse Tania?
Gliel’aveva detto nemmeno un’ora prima, stringendogli debolmente la mano al bancone del bar in cui si erano dati appuntamento, e come al solito lui era troppo concentrato a cercare in lei i sintomi della delusione per incamerare quel dettaglio fondamentale.
O era Laura?
Non era questo gran problema, comunque, la mattina seguente sarebbero tornati a essere dei perfetti estranei e i nomi non avrebbero piú avuto importanza. Lei però il suo se lo ricordava, e lo dimostrava in continuazione, piazzandolo alla fine o all’inizio delle frasi. «Edo, dove preferisci farlo?», «Edo, non ti devi vergognare, è una cosa bellissima» oppure «Su questa materia chiunque ha da imparare, Edo, anche a cinquant’anni».
Era brava a mettere le persone a proprio agio, l’aveva intuito dalle prime parole che si erano scambiati, davanti a due birre che nessuno avrebbe finito di bere. Sapeva essere seducente senza ricorrere alla malizia, le sue parole e i suoi sguardi erano coccole che nulla avevano di materno. Forse anche ricordarsi i nomi faceva parte del suo lavoro e lui si stava preoccupando troppo.
– Rilassati, Edo, – disse lei, completando con una falcata gli ultimi gradini che portavano al pianerottolo di casa sua. Aveva l’aspetto di una ragazza qualunque: trent’anni circa, capelli scuri leggermente mossi, occhi castani, un sorriso spontaneo che si impennava sul lato sinistro. La sua era una bellezza silenziosa, aveva piú a che fare con l’armonia che con i dettagli. Per qualche motivo Edo si era aspettato una donna volgare, tutta curve, con le labbra rosso acceso e un trucco invadente, invece Maura, o Carla, non si era nemmeno passata la matita per gli occhi; in compenso aveva scelto un vestito elegante, e lui gliene era grato.
Raggiunse il pianerottolo e la trovò appoggiata allo stipite della sua porta, con le caviglie accavallate e le mani giunte all’altezza delle cosce: aveva controllato il nome sul campanello e si era fermata ad attenderlo, sorridente, professionale. Vedendolo ancora cosà schivo gli strinse una spalla e cercò il suo sguardo.
– Edo, non devi dimostrare nulla a nessuno.
– Non so se riuscirò a rilassarmi.
– La prima lezione è di due ore, abbiamo tutto il tempo che serve.
Edo aprà la porta.
Entrando in casa, come troppo spesso succedeva, si ritrovò per un attimo a sperare di trovarci Claudia, vestita con i pantaloni della tuta e la vecchia maglietta di South Park, con i capelli raccolti e il piumone tirato fino al mento, ad aspettarlo davanti al televisore acceso sulle repliche di Lost. Quel pensiero entrò in scivolata mozzandogli il fiato, Edo non poté fare altro che lasciarlo correre, immaginando sua moglie che si sollevava dal divano nelle sue calze di spugna, sgranava gli occhi e lo accusava, isterica, di essere uno schifoso puttaniere. Ma Giulia, o come diavolo si chiamava, non era una prostituta; tecnicamente era un’insegnante, e la sua competenza era talmente rispettata che la mutua ne copriva in parte le spese.
– Accomodati, – disse, vedendo che non l’aveva seguito, ma quando si voltò vide che la ragazza aveva cambiato espressione. Il suo sorriso tremava, i suoi occhi, leggermente spalancati, si spostavano da un punto all’altro del soggiorno come se non riuscissero a inquadrarlo bene. Appena comprese perché si sentà assalire dalla vergogna.
– C’è… un po’ di disordine, – disse lei, sforzandosi di mantenere un tono professionale.
Edoardo non era in grado di rispondere, per una volta guardava quel posto con gli occhi di uno sconosciuto: le scatole sparse sul parquet, i libri impilati contro il muro, il divano sepolto sotto strati di vestiti, tutti quei dischi e quelle bottiglie vuote: il caos armonico in cui si era abituato a vivere aveva le fattezze di una gabbia informe intenta a fagocitarlo, lentamente, uno strato di sudiciume alla volta.
– C-c’è una stanza da letto? – disse lei. La sua gentilezza lo fece sentire ancora peggio. Tutta l’eccitazione e la paura di pochi istanti prima erano state risucchiate in uno spietato gorgo di autocommiserazione, Edoardo ora voleva solo scusarsi e pagarle il disturbo, ma i punti sanitari erano già stati decurtati dal suo conto, e lei era troppo giovane per dare un valore empatico al denaro contante.
– Chiara, forse è meglio se andiamo da te.
– Sonia.
– Sonia, scusa. Andiamo da te, per favore.
In strada camminarono a lungo senza dirsi una parola. Attraversarono piazza Duca d’Aosta lasciando che l’aria pesante della sera si impigliasse nei polmoni strappando imbarazzati colpi di tosse. Edo stava per fermarsi e dirle di tornare pure a casa, quando lei lo prese a braccetto e strinse la spalla contro la sua.
– Perché hai bisogno di lezioni, Edo? C’è una ragazza che ti piace?
La sua premura era commovente, Edo cacciò giú il magone e si schiarà la gola.
– Non proprio.
– Allora è la tua ex?
Edo si girò, sorpreso. – Da cosa si capisce?
– Hai ancora la fede al dito, e mi sembra chiaro che vivi solo.
Edo annuà e continuò a camminare in silenzio. Si stavano avvicinando a piazzale Lagosta, il traffico distribuito era già stato interrotto, nell’aria risuonava solo il ronzio dei generatori elettrici.
– Non lo so, Sonia, credo di non essere abbastanza bravo.
– Ti confido un segreto: quasi nessuno lo è.
– Sà ma io ho l’impressione di essere al minimo sindacale, faccio il mio dovere, ma è come se lo facessi da solo, non riesco a entrare in quel gioco di malizia.
– Cos’è un minimo sindacale?
– Devo migliorare, se voglio tornare con lei.
– Ha detto cos�
– Chi?
– La tua ex.
– No.
Sonia attese qualche istante, cercando le parole.
– Hai pensato che magari semplicemente non vuole stare con te?
Edo si voltò a guardarla, lei gli restituà uno sguardo buono.
– Non lo so, – disse.
Sonia si staccò dal suo braccio e scese dal marciapiede.
– Io abito là .
Edo si affrettò a seguirla lungo via Pola, ma quando fece per attraversare la strada vide qualcosa che lo paralizzò. Nell’aiuola spartitraffico, in una zona poco illuminata dai lampioni, c’erano due ragazzi; erano entrambi molto giovani, indossavano due giacconi con il cappuccio e parlavano tenendo i volti vicini. Era chiaro che fosse in corso una trattativa.
– Ehi! – gridò, cominciando a correre.
Uno dei due lasciò cadere un pugno di monete e scappò verso via Taramelli, l’altro si issò in spalla il malloppo e prese la direzione opposta. Edoardo seguà quest’ultimo. Lo vide prendere via Sassetti per poi virare di colpo in via Spalato, correva veloce, ma non abbastanza, nel giro di pochi minuti Edo lo stava tallonando.
– Sealth! – urlò, vedendolo zigzagare tra i taxi parcheggiati a spina di pesce. – Fermati, sono io!
Ma il ragazzo continuò a correre. Arrivato all’incrocio con via Volturno lasciò cadere a terra qualcosa e aumentò la velocità . Edo oltrepassò un sacco di tela da cui sbucavano alcune paia di guanti di cuoio. Il ragazzo ora correva in mezzo alla strada, ma doveva essere parecchio affaticato perché stava pe...