George Orwell non aveva nessuna voglia di fare il libraio, e devo dire che lo capisco benissimo. Lo stereotipo del libraio insofferente, intollerante e misantropo (come il personaggio interpretato da Dylan Moran nella serie televisiva Black Books) trova spesso conferma nella realtà. Ci sono le immancabili eccezioni, ovvio, e molti colleghi di mia conoscenza non sono affatto cosí: io sí, purtroppo. Ma un tempo ero diverso, e prima di comprare la libreria ricordo di essere stato un tipo abbastanza disponibile e amichevole. Se oggi sono quel che sono, è colpa del quotidiano bombardamento di domande idiote, dell’incertezza finanziaria, delle eterne discussioni con il personale, dell’infinito, sfiancante mercanteggiare dei clienti. Eppure, se qualcuno mi chiedesse cosa vorrei cambiare, la risposta sarebbe: niente.
La prima volta che vidi il Book Shop avevo diciott’anni: ero appena tornato a Wigtown, ma sarei ripartito poco dopo per andare all’università. Ho un ricordo chiarissimo di me che passo davanti alla libreria insieme a un amico e pronuncio la seguente frase: «Scommetto che chiude prima di gennaio». Dodici anni piú tardi, durante le vacanze di Natale, ci entro per chiedere se hanno una copia di Le tre febbria di Leo Walmsley, e chiacchierando con il proprietario gli racconto che sto facendo una gran fatica a trovare un lavoro che mi piaccia. Invece lui non vedeva l’ora di andare in pensione: e se l’avessi comprato io, il suo negozio? Dissi che non avevo soldi. «Mica ti servono, i soldi: che ci stanno a fare le banche?» replicò il libraio. E cosí il primo novembre del 2001, a trentun anni e un mese, sono diventato il nuovo proprietario del Book Shop. Forse, prima di decidermi al grande passo, avrei fatto bene a leggere Ricordi di libreria, il breve saggio del 1936 in cui George Orwell racconta la sua esperienza in una libreria di Hampstead. Suona tutto vero, oggi come allora, ed è un salutare avvertimento per gli illusi come me: vendere libri usati non vuol dire starsene seduti in pantofole, i piedi sul pouf e la pipa in bocca a leggere Declino e caduta dell’Impero romano accanto a un caminetto crepitante, in un viavai di clienti deliziosi che ti impegnano in brillanti conversazioni e se ne vanno dopo aver sganciato fasci di banconote. Al contrario: la verità è quanto di piú diverso si possa immaginare. Tra le tante osservazioni contenute nel saggio di Orwell, ce n’è una che mi sento di condividere in pieno: «Molti dei nostri acquirenti appartenevano a quella categoria di persone che, pur essendo capaci di rendersi insopportabili ovunque, riescono a farlo particolarmente bene in una libreria».
George Orwell lavorò part time al Booklover’s Corner del quartiere londinese di Hampstead tra il 1934 e il 1936, mentre scriveva Fiorirà l’aspidistra. Il suo amico Jon Kimche racconta che lo scrittore sembrava infastidito dall’idea stessa di dover vendere qualcosa a chicchessia: stato d’animo certamente condiviso da molti librai. Per meglio illustrare le analogie – e le numerose differenze – tra la vita da libraio ai giorni nostri e ai tempi di Orwell, ogni mese di questo diario sarà introdotto da una breve citazione da Ricordi di libreria.
La Wigtown della mia infanzia era una cittadina vivace. Io e le mie due sorelle minori siamo cresciuti in una piccola azienda agricola a un chilometro e mezzo da quella che a noi, abituati alle paludi costiere e ai prati punteggiati di pecore, sembrava una fiorente metropoli. In realtà Wigtown conta meno di mille abitanti e si trova nel Galloway, la regione dimenticata che occupa l’angolo sudoccidentale della Scozia. È un paesino incastonato fra tondeggianti colline moreniche all’estremità della penisola di Machars (dal gaelico machair, nome che indica le pianure erbose e fertili lungo le coste nordoccidentali della Scozia e dell’Irlanda), la quale racchiude nei suoi sessantaquattro chilometri di costa i paesaggi piú vari, dalle spiagge di sabbia alle coste alte, rocciose e traforate di grotte. A nord si trovano invece le Galloway Hills, l’area magnifica e pressoché disabitata in cui corre il tratto occidentale della Southern Upland Way, il sentiero pedonale che attraversa serpeggiando tutto il Sud della Scozia, dall’Atlantico al mare del Nord. Al centro dell’abitato di Wigtown c’è un’imponente costruzione in stile neorinascimentale che un tempo ospitava gli uffici della contea e che ora viene utilizzata come centro civico. L’economia locale è stata sorretta per anni da una cooperativa casearia e dalla distilleria di whisky Bladnoch, la piú meridionale della Scozia: due attività che nel complesso assorbivano gran parte della forza lavoro locale. A ciò si aggiunga che un tempo l’agricoltura offriva molte piú opportunità rispetto a oggi, contribuendo a innalzare i tassi di occupazione sia nel paese, sia nelle aree circostanti. Ma poi, nel 1989, il caseificio chiuse i battenti causando la perdita di centoquarantatre posti di lavoro; la distilleria, avviata nel 1817, cessò ogni attività nel 1993. Ciò produsse grandi trasformazioni nell’economia del paese: dove c’erano stati un ferramenta, un fruttivendolo, un negozio di articoli da regalo, un negozio di calzature, una pasticceria e un hotel, per qualche tempo non ci furono che porte chiuse e vetrine sprangate da assi.
Negli ultimi tempi, tuttavia, sembra essere tornata una certa qual prosperità, e con essa un rinnovato ottimismo. Poco alla volta gli spazi lasciati liberi dalla scomparsa del caseificio sono rinati a nuova vita grazie alle piccole imprese: una bottega di maniscalco, uno studio di registrazione, una fabbrica di stufe. Nel 2000 la distilleria ha riaperto i battenti per dare inizio a una produzione su scala ridotta, sotto l’egida appassionata dell’imprenditore nordirlandese Raymond Armstrong. Anche l’area urbana di Wigtown ha beneficiato di una congiuntura piú favorevole, e oggi ospita una vivace comunità di librai e librerie. Le vetrine sono state liberate dalle assi, e dietro le porte dei negozi ora nuovamente aperti operano molte piccole imprese commerciali.
Chiunque abbia lavorato in una libreria sa bene che le interazioni tra clienti e gestori forniscono materiale piú che bastevole per un libro, come ampiamente dimostrato da Cose strane che si dicono in libreria di Jen Campbell: e cosí, essendo afflitto da una memoria terribile, un bel giorno anch’io ho cominciato ad annotare quel che succedeva in negozio, come una sorta di promemoria per un ipotetico progetto di scrittura. Se la data di inizio di questo diario vi sembra arbitraria, è perché in effetti lo è: l’idea di prendere appunti mi è venuta il 5 di febbraio, e strada facendo il promemoria è diventato un diario.
Mercoledí 5 febbraio.
Ordini online: 5
Libri trovati: 5
Alle nove e venticinque mi telefona un tizio dal Sud dell’Inghilterra che sta pensando di comprare una libreria in Scozia. Chiede a me quanto potrebbe valere, considerato che ha ventimila titoli in magazzino. Trattengo la risposta piú ovvia («Ma sei MATTO???») e domando invece quanto gli hanno chiesto. Ipotizzando un prezzo medio di sei sterline a volume, l’attuale proprietaria vorrebbe un terzo di quella somma (centoventimila diviso tre, ovvero quarantamila sterline). Gli dico che la cifra andrebbe divisa almeno per dieci, se non per trenta. Di questi tempi è pressoché impossibile spostare grandi quantitativi di libri: quasi nessuno è disposto ad accollarseli, e i pochi che lo fanno pagano un’assoluta miseria. Ormai le librerie dell’usato sono rare, ma in compenso c’è grande abbondanza di scorte: di conseguenza sono gli acquirenti a fare il mercato. Nel 2001, quando ho comprato il Book Shop, le cose andavano un po’ meglio, ma il precedente proprietario aveva comunque valutato a trentamila sterline il suo magazzino di ben centomila volumi.
Oltre ai Ricordi di libreria di Orwell, un’altra lettura che forse avrei dovuto consigliare all’aspirante libraio è lo straordinario Il libraio fallito ha altro da dire di William Young Darling. Entrambe le opere sono indicatissime per chiunque abbia in mente di fare questo mestiere. In verità Darling non era un libraio fallito ma un ex venditore di stoffe di Edimburgo, abilissimo nel convincere i lettori della reale esistenza del suo personaggio. I dettagli sono di una precisione non comune. Il libraio immaginario di Darling è «trascurato, malaticcio, ai limiti del trasandato, una figura umana priva di qualsivoglia interesse; se provocato, tuttavia, è capace di parlare di libri con un’eloquenza che non teme rivali»: in breve, un impeccabile ritratto del venditore di libri usati.
Oggi c’era anche Nicky al lavoro. Siccome non posso piú permettermi del personale a tempo pieno, soprattutto nei lunghi e freddi mesi invernali, per due giorni alla settimana lascio la libreria nelle sue mani e se ne ho bisogno esco per fare acquisti o sbrigare altre faccende di lavoro. Nicky va per i cinquanta, ha due figli grandi ed è tanto in gamba quanto eccentrica. Abita in un casolare dalle parti di Glenluce, a un quarto d’ora di macchina da Wigtown, ed è una testimone di Geova: di lei non serve dire altro, se non che il suo hobby consiste nel costruire «artefatti» – cosí li chiama – bislacchi e inutili. Confeziona da sé gran parte dei suoi abiti e vive di nulla, tuttavia non è avara; anzi, è molto generosa con quel poco che ha. Tutti i giovedí sera, mentre torna dalla riunione settimanale nella Sala del Regno di Stranraer, recupera una qualche prelibatezza dal cassonetto del supermercato Morrisons e me la porta in libreria il mattino seguente. «Il venerdí del ghiottone», lo chiama lei. I suoi figli dicono che è «sciatta come una zingara»; in realtà Nicky è necessaria al mio negozio tanto quanto i libri, e senza di lei questo posto perderebbe gran parte del suo fascino. Benché oggi non sia venerdí, si è comunque presentata con una rivoltante cibaria presa ieri dal cassonetto del Morrisons: una confezione di samosa talmente fradici da essere quasi irriconoscibili. È entrata di corsa sfuggendo alla pioggia battente, mi ha messo il pacchetto sotto il naso e ha detto: «Ehi, guarda qui: samosa. Buonissimi». Poi ne ha preso uno e se l’è mangiato, sgocciolando il ripieno viscido sul pavimento e sul bancone.
D’estate assumo delle studentesse: una o due, di solito, cosí ho il tempo di dedicarmi a qualcuna delle tante attività che rendono cosí piacevole la vita nel Galloway. Lo scrittore Ian Niall racconta che da bambino era convinto che la «terra del latte e del miele» di cui gli parlavano al catechismo fosse il Galloway: in parte perché la dispensa della sua fattoria ne era sempre colma, e in parte perché questa regione era davvero, per lui, un paradiso in Terra. Non posso che dargli ragione. Grazie alle ragazze che vengono a lavorare in libreria («le cocchine di Shaun», cosí le chiama Nicky) posso concedermi il lusso di andare ogni tanto a pesca, a passeggiare sulle colline o a farmi una nuotata.
Il primo cliente di oggi (alle dieci e trenta) è stato Mr Deacon, uno dei pochi abituali. È un signore di mezza età dall’eloquio forbito, con il classico girovita da cinquantenne sedentario; i capelli scuri e radi sono tirati sopra la zucca in quel modo assai poco convincente degli uomini che vorrebbero far credere di avere ancora una folta criniera. Veste in maniera abbastanza elegante, nel senso che porta abiti di buon taglio, ma non li porta bene: tende a trascurare certi dettagli, come i bottoni, i lembi posteriori delle camicie, le patte dei pantaloni. Dà l’impressione che qualcuno gli abbia sparato addosso i vestiti con un cannone, e dove arrivano arrivano. Sotto molti aspetti, Mr Deacon è il cliente ideale: non entra mai solo per dare un’occhiata, ma viene da me sapendo esattamente cosa vuole. Di solito la sua richiesta è corredata da un ritaglio del «Times» con la recensione del libro, che viene mostrata a chiunque si trovi dietro il bancone in quel momento. Mr Deacon si esprime con un linguaggio asciutto e preciso; non perde tempo in chiacchiere, ma non è mai scortese, e quando mi ordina un libro paga sempre alla consegna. A parte questo non so nient’altro di lui, neppure il nome di battesimo. Tant’è che mi domando spesso perché compri i libri da me, invece di farlo in tutta comodità su Amazon. Forse non ha un computer. Forse non vuole averlo. O forse è un esemplare di quella razza in estinzione che ci tiene a garantire la sopravvivenza delle librerie e ha capito che l’unica è farle lavorare.
A mezzogiorno una tizia in pantaloni multitasche e berretto militare si è presentata alla cassa con sei libri, tra cui due cataloghi d’arte molto costosi e pressoché nuovi. In tutto facevano trentotto sterline; ha chiesto uno sconto, e quando le ho detto che trentacinque andavano bene ha replicato: «Non si può fare trenta?» La mia fede nell’umana rettitudine ne esce sempre molto scossa quando, a fronte di un ulteriore ribasso su articoli che costano già una frazione del prezzo originale, i clienti si sentono in diritto di chiederti uno sconto extra che sfiora il trenta per cento. Posta di fronte al mio netto rifiuto, la signora ha infine scucito le trentacinque sterline. Una volta una famosa giornalista televisiva ha detto che chiunque indossi dei pantaloni multitasche dovrebbe essere portato via a forza e paracadutato in una zona smilitarizzata: oggi come oggi, non potrei essere piú d’accordo.
Totale in cassa: £ 274,09b
Clienti: 27
Giovedí 6 febbraio.
Ordini online: 6
Libri trovati: 5
Il nostro catalogo online conta circa diecimila titoli sui centomila che abbiamo in magazzino. Per metterli in vendita ci serviamo di Monsoon, un database che a sua volta carica i dati su Amazon e su AbeBooks. Oggi un cliente di Amazon mi ha scritto un’e-mail riguardo a un libro intitolato Perché l’esistere e non piuttosto il nulla? lamentandosi di non aver ancora ricevuto il volume. «Pregasi risolvere il problema; per adesso non vi ho ancora dato il feedback». Una velata minaccia che di questi tempi ricorre sempre piú spesso, grazie alle cosiddette «recensioni dei clienti» di Amazon; pare addirittura che certi soggetti privi di scrupoli le abbiano sfruttate a proprio vant...