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Storia del mio corpo

  1. 280 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Storia del mio corpo

Informazioni su questo libro

«Il suo corpo è una scena del crimine? Roxane Gay racconta il suo lungo, commovente viaggio per lasciarsi alle spalle la vergogna».
The New York Times Book Review In principio è il candore dei dodici anni. Quando pensi che nessuno a cui vuoi bene possa farti del male. Poi succede l'impensabile. Un atto di violenza feroce. E Roxane, annientata dalla vergogna, incapace di parlare o chiedere aiuto, comincia a mangiare, mangiare, mangiare. A barricarsi in un corpo che diventa ogni giorno piú inespugnabile dagli sguardi maschili, una fortezza dove nessuno sarà piú capace di raggiungerla. Quella di Roxane Gay è la storia di un desiderio insaziabile, di battaglie sempre perse contro un corpo ammutinato, di una lotta contro una cultura che spinge le donne a odiarsi se non corrispondono alle aspettative. Ma la fame di Roxane Gay è anche il motore della sua fenomenale spinta creativa e della sua sulfurea personalità. Oggi è un'intellettuale, attivista e scrittrice, una delle voci piú rispettate della sua generazione. Soprattutto una donna che ha trovato le parole per raccontare la propria storia. «Luminoso, dotato di uno straordinario rigore intellettuale e davvero commovente».
The New York Times «Un libro indimenticabile che ogni donna dovrebbe leggere».
San Francisco Chronicle «Nello spazio di una pagina, Gay sa passare dalla leggerezza alla satira sociale, intessendo la propria vicenda di un'ironia straziante».
The Guardian

Domande frequenti

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Parte seconda

10.

C’è una mia foto. Sono in braccio a un cugino il weekend del mio battesimo. Sono ancora una neonata, addosso ho un vestitino lungo di satin bianco. Siamo seduti su un divano rivestito di plastica a New York. Il cugino nella foto è piú grande di me, sui cinque o sei anni. Io mi contorco con insensata rabbia infantile, gli arti piegati ad angoli bizzarri.
Sono grata che ci siano tantissime foto di me bambina perché ci sono tantissime cose che ho dimenticato, in un modo o nell’altro.
Di anni e anni della mia esistenza non rammento assolutamente nulla. Se un parente dice: «Te la ricordi quella volta che [inserire un momento familiare significativo]?», io gli rivolgo uno sguardo vacuo, senza alcuna reminiscenza di quella fantomatica volta. Condividiamo una storia e al contempo non la condividiamo: forse è questa la maniera migliore di descrivere il rapporto che ho con la mia famiglia, e quasi con chiunque. C’è la grande vita che condividiamo e parti piú difficili della mia vita che non condividiamo, di cui loro sanno poco. Ciò che ricordo o non ricordo non segue una logica. Ed è difficile spiegare questi vuoti, queste amnesie, perché poi esistono momenti della mia infanzia che è come se li avessi vissuti ieri.
Ho una buona memoria. Riesco a ricordare conversazioni con gli amici quasi parola per parola, addirittura a distanza di anni. Ricordo il biondo platino dei capelli della mia maestra in quarta elementare o i guai che passai in terza perché mi annoiavo e mi ero messa a leggere in classe. Ricordo il matrimonio dei miei zii a Port-au-Prince e la puntura di zanzara che mi fece diventare un ginocchio grande come un’arancia. Ricordo cose belle. Ricordo cose brutte. Se serve, però, sono in grado di fare tabula rasa, e di tanto in tanto l’ho fatto: quando era necessario dimenticare.
A casa dei miei ho preso svariati album fotografici, rigonfi di immagini ingiallite dei miei due fratelli e me quando eravamo piccoli. Era prima dell’èra digitale, e tuttavia è come se ogni momento della mia vita fosse stato immortalato, e poi ciascuna foto sviluppata e meticolosamente archiviata. Ogni album ha un grosso numero sopra, inscritto in un cerchio. In molti ci sono brevi annotazioni con nomi, età, luoghi. È come se mia madre sapesse che ci sarebbe stato motivo di preservare questi ricordi. Ha cresciuto i miei fratelli e me con una volontà di ferro e una grazia tutta speciale. La ferocia del suo amore e della sua devozione per noi è travolgente, e va rafforzandosi a mano a mano che cresciamo e invecchiamo. Quando ero bambina, lei teneva questi album allineati in una sequenza precisa, e non appena ne completava uno andava a comprarne un altro e riempiva anche quello.
È lei che ha tentato di colmare certe lacune della mia infanzia senza neanche accorgersene. Sembra ricordarsi tutto, ed è stato cosí fino ai miei tredici anni, quando sono andata alle superiori, e a quel punto non c’era nessuno che conservasse i ricordi per me.
Mia madre continua a fotografare il fotografabile e ha postato piú di ventimila immagini sul suo account Flickr, immagini della sua e nostra vita e delle persone e luoghi della nostra vita. Alla discussione della mia tesi di dottorato lei c’era e mi guardava tutta fiera, imbracciando ogni pochi minuti la macchina fotografica per fare un nuovo scatto e immortalare ogni istante. A un reading del mio romanzo a New York, eccola di nuovo con la macchina fotografica, a documentare un altro momento memorabile.
Le persone notano spesso che fotografo ogni minima cosa. Dico che lo faccio per non dimenticare, perché non posso dimenticare, tutte le incredibili cose che vedo e sperimento. Non sto a spiegare che i ricordi per me sono piú importanti ora che la mia vita sembra diversa. Ma c’è anche altro. Le strade che mi portano a essere la figlia di mia madre sono infinite.
La copertina dell’album dedicato a me neonata è bianca, tempestata di glitter. «È una femminuccia!» è inciso sulla copertina. In prima pagina ci sono i nomi dei miei e le informazioni essenziali su di me: data di nascita, altezza, peso, colore di occhi e capelli. Ci sono due impronte dei miei piedini con le parole BIMBA BEATA scritte sopra. Sono nata alle sette e quarantotto, ed è questo il motivo, ne ho la certezza matematica, per cui non sono mattiniera. Le righe su cui annotare i «ricordi eccitanti della bambina» sono tutte piene dei miei minuscoli successi. A quanto pare, a due anni e mezzo conoscevo l’alfabeto e a tre sapevo dire l’ora. Mia madre scriveva orgogliosa: «A cinque anni legge praticamente qualunque cosa». Queste sono le sue esatte parole, scritte nella sua nitida calligrafia, anche se la leggenda familiare vuole che leggessi il giornale con mio padre già a tre anni e mezzo.
Per tutto il mio primo lustro di vita, la mamma registrò altezza e peso. Avevo un capoccione triangolare, cosa che può capitare con il primogenito, e lei dice che passava ore a lisciare quella testolina di neonata per arrotondarla. Sull’«Omaha World-Herald» del 28 ottobre 1974 c’è l’annuncio della mia nascita, con tredici giorni di ritardo, e l’articolo ritagliato è conservato nell’album insieme al certificato di nascita originale e il cartoncino che mi avevano messo nella culla in ospedale. Mia madre aveva venticinque anni e mio padre ventisette: giovanissimi, sí, ma vista l’epoca non giovani come molti altri che mettevano su famiglia. Il mio nome è scritto correttamente sul certificato di nascita, con una n, e il certificato di nascita è rosa. Una cultura di genere piú attenta e sfumata non esisteva, allora: le femminucce erano rosa e i maschietti azzurri, punto e basta.
Nella primissima foto in cui io e mia madre siamo insieme, lei mi tiene in braccio e i capelli nerissimi le ricadono oltre le spalle in una spessa coda di cavallo. Sembra impossibilmente giovane e bella. Io ho tre giorni. In realtà quella non è la nostra prima foto insieme. C’è un ritratto di mia madre, molto incinta di me, con addosso un miniabito turchese e scarpe coi tacchi larghi. Ha capelli ribelli che le scendono sciolti giú per la schiena. È appoggiata a un’automobile e fissa il fotografo, mio padre, uno sguardo intimo che mi fa venire voglia di girarmi dall’altra parte per consentire loro un minimo di privacy. Mia madre ha messo questa immagine meravigliosa nell’album anche se è una delle persone piú riservate che io conosca. Voleva che la vedessi, che sapessi che lei e mio padre si sono sempre amati.
Le foto piú vecchie sono rimaste in quell’album per cosí tanto tempo che si sono appiccicate alle pagine. Cercare di staccarle le rovinerebbe.
Ogni immagine di me neonata insieme a mamma e papà li rivela a sorridermi come se fossi il centro del mondo. Questa è una parte della mia verità che conosco con chiarezza cristallina: tutto quello che di buono e forte c’è in me inizia da loro due, assolutamente tutto. In ogni immagine di me neonata ho sulle labbra un sorriso cosí contagioso che quando guardo quelle foto non posso fare a meno di sorridere ancora. Ci sono bambini felici e bambini felici. Io ero una bambina felice. Questo è indiscutibile.
I bambini sono carini e teneri, ma sono abbastanza inutili, dice la mia migliore amica. Non possono fare granché da soli. Bisogna amarli passando per quella inutilità. Nelle foto in cui sono sola, a sostenermi c’è il bracciolo di una poltrona, o qualche cuscino. In una, sono su un orribile divano di pesante broccato rosso, visibilmente intenta a urlare come una pazza. C’è piú di una foto in cui urlo come una pazza. Le immagini di bambini che urlano sono divertenti quando sai che ritraggono bimbi felici durante un semplice attacco di rabbia infantile. Guardo questi ritratti di me stessa da piccola e penso: Assomiglio a mia nipote, ma in realtà è la mia nipotina che assomiglia a me. La famiglia è potente, sempre e comunque. Siamo sempre legati, occhi labbra sangue e quei maledetti dei cuori. Avevo tre anni quando nacque mio fratello Joel. Ci sono foto che lo ritraggono, capellone e rotondetto, seduto o in piedi accanto a me.
Da adulta, ho riguardato questi album molte volte. Ho tentato di ricordare. All’inizio, cercavo foto da far vedere a un futuro figlio mio, «Ecco da dove vieni», per fargli sapere che la mia famiglia è capace d’amore, per quanto imperfetto, che sua madre è sempre stata amata e che anche lui/lei, a sua volta, sarebbe sempre stato/a amato/a. È importante mostrare a un bambino l’amore in molte forme, ed è questa l’unica cosa buona che ho da offrire, indipendentemente da come questo bambino entrerà nella mia vita. Inoltre studio a lungo le fotografie, le persone ritratte, ricapitolo i nomi e i luoghi, i momenti importanti, ma moltissimi mi sfuggono. Cerco di rimettere insieme i ricordi che ho cancellato con tanta cura. Cerco di dare un senso al percorso che ha condotto la bambina immortalata in quei momenti perfetti alla donna che sono oggi.
Lo so di preciso, eppure non lo so. Lo so, ma penso che il mio vero bisogno sia capire il motivo della distanza fra allora e ora. È un motivo complicato e sfuggente. Voglio riuscire a tenere quel motivo in mano, dissezionarlo o strapparlo o bruciarlo e interpretarne le ceneri, anche se ho paura di quello che potrò fare di quanto vedrò. Non so se tale comprensione sia possibile, ma quando sono sola mi siedo e sfoglio quegli album lentamente, ossessivamente. Voglio vedere che cosa c’è e che cosa manca e che cosa è successo, anche se il motivo ancora mi sfugge.
C’è una mia foto. Ho cinque anni. Ho gli occhi grandi e il collo magro magro. Sto fissando una macchina da scrivere di plastica mentre sono sdraiata su un divano a pancia in giú, con le caviglie incrociate; probabile che stia sognando a occhi aperti. Ho sempre sognato a occhi aperti. Già all’epoca ero una scrittrice. Fin da piccola, disegnavo paesini sui tovaglioli e scrivevo storie su chi abitava in quei paesini. Amavo la fuga che mi offriva scrivere storie, immaginare vite diverse dalla mia. Avevo un’immaginazione feroce. Sognavo a occhi aperti e pativo quando mi «svegliavano» perché mi occupassi della vita concreta. Nelle mie storie, potevo inventarmi gli amici che non avevo. Potevo rendere possibili tante cose che non osavo immaginare per me stessa. Potevo essere coraggiosa. Potevo essere divertente. Potevo essere tutto quello che volevo. Quando scrivevo, era semplicissimo essere felice.
C’è una mia foto. Ho sette anni; sono felice e indosso una salopette. Indossavo salopette molto spesso, da bambina. Mi piacevano per un sacco di ragioni, ma soprattutto perché avevano un mucchio di tasche dove potevo nascondere delle cose e perché erano complicate e avevano tanti bottoni e roba da allacciare. Mi facevano sentire sicura, a mio agio. Piú o meno in una foto su tre o quattro di quel periodo indosso una salopette. È strano, ma io ero strana. In questa immagine in particolare, sono con mio fratello Joel, che mi sta sferrando un calcio di karate mentre io cerco di evitare il suo piedino. Joel era ed è pieno di energia. Abbiamo tre anni di differenza. Ci divertiamo. Siamo ancora molto uniti. Eravamo due bambini tenerissimi. Mi dà un dolore immenso vedere una gioia cosí scoperta in me. Darei praticamente qualsiasi cosa per essere di nuovo tanto libera.
Avevo otto anni quando nacque mio fratello Michael jr, e da quel momento in poi siamo in tre nelle fotografie, spesso abbracciati o per mano mentre guardiamo l’obiettivo.
Scrivevo molto, ma ancor piú mi perdevo nei libri. Leggevo tutto quello su cui riuscivo a mettere le mani. La mia preferita era la serie de La piccola casa nella prateria. Mi piaceva moltissimo l’idea che Laura Ingalls, una ragazza qualsiasi delle pianure, potesse aver vissuto un’ordinaria vita straordinaria in un’epoca diversissima dalla mia. Amavo ogni dettaglio di quelle storie: Pa che portava a casa arance succulente, i dolci di neve con lo sciroppo d’acero, lo stretto legame delle sorelle Ingalls, il soprannome «Mezza pinta» di Laura. Man mano che le sorelle Ingalls crescevano, amavo la rivalità di Laura con Nellie Oleson e la corte che le faceva Almanzo Wilder, che alla fine sarebbe diventato suo marito. Stavo con il fiato sospeso mentre leggevo dei loro primi anni di matrimonio, quando erano coloni e affrontavano le prove della vita – coltivare la terra, crescere la figlia Rose. Volevo anch’io un amore cosí, solido, vero, e volevo un rapporto in cui potessi essere indipendente ma allo stesso tempo amata e curata.
Quando mi staccai da La piccola casa nella prateria, lessi l’opera omnia di Judy Blume.
Appresi quasi tutto sul sesso grazie al suo romanzo Per sempre, e per molti anni fui convinta non ci fosse uomo che non chiamasse «Ralph» il proprio pisello. Lessi libri con protagoniste ragazze avventurose che cercavano l’oro in California e sopravvivevano alle prove e tribolazioni delle carovane. La rivalità sentimentale fra Jessica ed Elisabeth Wakefield nell’idilliaca città californiana di Sweet Valley divenne un’autentica ossessione. Lessi Clan of the Cave Bear e scoprii che il sesso poteva essere molto ma molto piú interessante rispetto alle goffaggini giovanili di Katherine e Michael in Per sempre. Leggevo e leggevo e leggevo. La mia immaginazione si espandeva all’infinito.
Ci sono innumerevoli fotografie di me con una gonna o un vestito, fotografie dove sono decisamente femminile: capelli lunghi e acconciati, gioielli, tutta compresa nella parte della principessina. Ho pensato a lungo di essere un maschiaccio perché ero l’unica bimba della famiglia. A volte proviamo a convincerci di cose che non sono vere, ristrutturiamo il passato per spiegare meglio il presente. Quando guardo queste foto, è evidente che, se mi piaceva scalmanarmi e giocare nella terra coi miei fratelli e cose simili, non ero un maschiaccio fatto e finito, non proprio.
Giocavo con le action figures di G. I. Joe e costruivo fortini nello spiazzo vuoto vicino a casa nostra e facevo baldoria nel bosco ai confini del quartiere perché i miei fratelli erano anche i miei compagni di giochi. Il piú delle volte erano pure i miei migliori amici, a parte quelli che trovavo nei libri. Andavamo d’accordo tutti e tre, tranne quando bisticciavamo, e bisticciavamo eccome, specie io e Joel. Bisticciavamo sempre e comunque, poi facevamo la pace e combinavamo qualche guaio. Il minore, Michael jr, era molto piú piccolo ed era, di solito, un complice accondiscendente delle nostre bravate. Quando non gli andava di fare il complice, diventava il bersaglio di piccole crudeltà, come quando lo mandammo giú per la scala della cantina nel cesto della biancheria sporca, o le tante volte in cui lo tormentavamo con un ragno di plastica o, peggio del peggio, ignoravamo il suo lamentoso desiderio di giocare con noi. In qualche modo, malgrado tutto, Michael jr ci adorava, e io e Joel ci crogiolavamo nel bagliore della sua adorazione.
Le foto negli album della mia infanzia sono oggetti di un’epoca in cui ero felice e integra. Provano che una volta ero carina, addirittura dolce. Sotto quello che vedete ora, c’è ancora una ragazza carina che ama cose da ragazza carina.
Nelle foto, cresco. Sorrido meno. Sono ancora carina. A dodici anni, smetto di indossare gonne e gioielli e di acconciarmi i capelli, e comincio invece a raccoglierli in uno stretto chignon o in una coda di cavallo. Sono ancora carina. Pochi anni dopo, mi sarei quasi rasata a zero e avrei iniziato a portare abbigliamento oversize da uomo. Sono meno carina. Nelle foto guardo fisso l’obiettivo. Sembro vuota. Sono vuota.

11.

Non so come parlare di stupro e violenza sessuale quando si tratta della mia storia. È piú facile dire: «È successa una cosa terribile».
È successa una cosa terribile. Quella cosa terribile mi ha spezzata. Vorrei potermi limitare a dire questo, ma sto scrivendo una storia del mio corpo e quindi è necessario che io vi racconti cosa gli è capitato. Ero giovane e davo il mio corpo per scontato, poi ho scoperto che al corpo di una ragazza possono succedere cose terribili e tutto è cambiato.
È successa una cosa terribile, e vorrei potermi limitare a dire questo perché come scrittrice, cioè come donna che scrive, non voglio che a definirmi sia la cosa peggiore che mi sia mai capitata. Non voglio che la mia personalità si esaurisca in questo. Non voglio che il mio lavoro si esaurisca o definisca in base a questa cosa terribile.
Allo stesso tempo, non voglio stare zitta. Non posso stare zitta. Non voglio fingere che non mi sia mai successo niente di terribile. Non voglio portare sulle spalle tutti i segreti che ho portato, da sola, per troppi anni. Non ce la faccio piú.
Se devo raccontare la mia storia, voglio stabilirne io i termini, senza l’attenzione che inevitabilmente ne consegue. Non voglio pietà, apprezzamenti o consigli. Non sono né coraggiosa né eroica. Non sono forte. Non sono speciale. Sono una donna che ha vissuto sulla sua pelle una cosa che innumerevoli donne hanno vissuto sulla loro pelle. Sono una vittima che è sopravvissuta. Sarebbe potuta andare peggio, molto peggio. È questo che conta, ed è quasi una pessima farsa che si tratti di una cosa molto comune. Spero che, condividendo la mia esperienza, unendomi al coro di uomini e donne che condividono la loro esperienza, piú gente provi il giusto orrore per l’enorme sofferenza che nasce dalla violenza sessuale, per le ripercussioni anche a lunghissimo termine che ci possono essere.
Spesso con la scrittura giro intorno a quello che mi è capitato perché è piú facile che riandare a quel giorno, a tutto ciò che ha portato a quel giorno, a ciò che è capitato dopo. È piú facile che affrontare me stessa e il senso di colpa che, nonostante tutto, provo per quello che è capitato. Anche adesso mi sento in colpa, non solo per quello che è capitato, ma per come ho gestito il dopo, per il mio silenzio, per quanto mangio e per cosa è diventato il mio corpo. Con la scrittura giro intorno a quello che mi è capitato perché non voglio dovermi difendere. Non voglio dover affrontare l’orrore di un’esposizione del genere. Immagino che questo faccia di me una persona vigliacca, paurosa, debole, umana.
Con la scrittura giro intorno a quello che mi è capitato perché non voglio che la mia famiglia ne immagini le ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Fame
  4. Parte prima
  5. Parte seconda
  6. Parte terza
  7. Parte quarta
  8. Parte quinta
  9. Parte sesta
  10. Ringraziamenti
  11. Il libro
  12. L’autrice
  13. Copyright