Appena ho visto il portafoglio nel cestino ho capito.
Ho cercato subito di individuare la sagoma tarchiata della donna in mezzo alla confusione. Là per là ho pensato che sarebbe stato facile, anche se non era alta, perché spiccava come un gladiatore. Avevo notato le spalle massicce, le mani sprofondate nelle tasche. Per di piú portava una giacca verde fluo lunga fino alle ginocchia.
Ma ho sottovalutato lo struscio caotico del centro alla vigilia di Natale. Erano quasi le nove, e in piazza Cavour c’era già il delirio. Mi è sembrato di riconoscerla all’angolo con il Liston, a quella distanza però non potevo esserne certa.
Ho afferrato il portafoglio al volo e mi sono messa all’inseguimento. Intorno un casino indescrivibile.
Ho urlato: – Signora! Signora! – e si sono girate in cento. Lei invece non mi ha sentito, troppo lontana. Appena arrivata in fondo alla piazza mi sono fermata e ho cominciato a guardarmi intorno. Tra le bancarelle e la marea umana era impossibile individuarla. Ho fatto ancora un paio di tentativi sollevandomi sulle punte per distinguere qualcosa fra tutte quelle teste, ma sono talmente bassa che non è servito a niente, e alla fine ho rinunciato.
Mi sono rigirata il portafoglio tra le mani. Modesto, un po’ consumato, di quelli che costano poco, con la chiusura a velcro. Era ancora aperto ma i soldi erano spariti. C’era solo una quantità incredibile di tessere del supermercato, e quattro o cinque bollette pagate, con il timbro postale e la data di oggi. In una tasca interna ho trovato un documento, la carta d’identità di una certa Larisa Jarmolenko, un nome diverso da quello che compariva sulle bollette, e che era maschile. L’indirizzo invece corrispondeva, ed era di Padova, anche se non mi suonava familiare. Alla voce nazionalità era scritto: ucraina.
Slava, quindi. Ma era ovvio, bastava guardarla.
L’avevo osservata a lungo sull’autobus, cosÃ, senza particolare intenzione. Solo perché mi ispirava curiosità , e perché mi sarei attaccata a qualsiasi cosa pur di non pensare alla scadenza del debito. Ho i soldi contati al centesimo per sopravvivere, ma il mese scorso è andata in corto la caldaia insieme con una parte dell’impianto di riscaldamento, e il proprietario di casa ha detto che era colpa nostra, e che si aspettava che partecipassimo alle spese. È falso, ovviamente, la caldaia era già un vecchio cassone quando sono andata a vivere lÃ. Abbiamo provato a negoziare, le mie coinquiline e io, ma non c’è stato verso. Malgrado tutto sono stata fortunata. Le ragazze a un certo punto erano cosà furiose che hanno pensato di cercare un altro appartamento. Non siamo amiche, ho difficoltà a legare con gli altri, però sono sempre state carine. Tornando a casa una sera le ho sorprese che parlavano in salotto, ho capito che discutevano di me perché si sono zittite appena ho superato la soglia. Sanno che non potrei seguirle – non troverò da nessuna parte un’altra stanza che costi poco quanto quella in cui vivo – e che se vanno via il proprietario potrebbe chiedere a me di pagare il danno per intero. Allora hanno accettato. Ci siamo divise la spesa in tre e fanno centocinquanta euro a testa, un quarto del mio stipendio, che devo saldare entro la fine di gennaio, e non so dove andare a pescare. Sono state generose con me, non posso pretendere che paghino quello che mi spetta. E se non trovo i soldi potrebbero cambiare idea e andarsene. Ci penso da giorni e non so che cosa fare.
Per avere un attimo di requie mi sono concentrata a osservare la donna, in cerca di una distrazione.
Mi capita sempre di chiedermi cosa c’è dietro l’aspetto anonimo delle persone. Aveva tra i cinquanta e i sessant’anni, una statura media, le sopracciglia ridotte a una linea sottile e ritoccate con la matita marrone. Non era vestita né male né bene. Sotto il giaccone fosforescente portava una gonna di tweed, mocassini neri e bassi, e calze color carne, quelle terribili da casa di riposo. I capelli erano decolorati, corti e stopposi. Il genere di taglio che ti arrangi da sola, spuntando con le forbici da cucina e usando tinture cinesi. Nell’insieme sembrava l’icona della Beata Vergine delle Badanti.
Mi ricordo bene anche della donna piccola e bruna con gli occhiali da sole e un berretto di lana calato fino agli occhi che si è piazzata dietro, vicinissima, e quando la bionda ha suonato si è avvicinata alle porte, infilandosi tra lei e me, che dovevo scendere alla stessa fermata. In un angolo remoto del cervello mi sono detta: «Chissà perché le si appiccica in quel modo, vedrai se non inciampano l’una sull’altra adesso che l’autista frena».
Invece, nel momento in cui si sono spalancate le porte, la bruna ha fatto un gesto preciso e veloce che il mio cervello ha registrato senza averne coscienza, è saltata giú dal bus prima ancora che l’altra mettesse un piede a terra, e si è allontanata veloce come un gatto. La slava è scesa decisa subito dopo di lei senza accorgersi di niente, e ha preso a camminare nella direzione opposta. Neppure io avevo capito. Mi sono avviata nella stessa direzione della piccoletta, e solo vedendo il portafoglio nel cestino ho ricostruito. Poi mi è bastato controllare la foto sulla carta d’identità per avere la conferma.
Cosa faccio ora, vado alla polizia? Guardo l’orologio: le nove e dieci. Mi hanno chiamata un’ora fa, come al solito all’ultimo momento, per una sostituzione. Sono già in ritardo, non ce la faccio. Magari glielo porto domani a casa, in fondo l’indirizzo ce l’ho.
Ci rifletto meglio: domani? Il giorno di Natale? Oddio, per il genere di celebrazione che ho in mente, attraversare la città per andare a riconsegnare un portafoglio rubato potrebbe essere un’attività quasi ludica. Almeno farei qualcosa di diverso dai festeggiamenti in programma, che si riducono a una sveglia comoda, una giornata sui libri, e una scatoletta di tonno sott’olio prima di andare a dormire. Che poi per me anche questa è gioia pura perché, ora che non vivo piú da mia madre, qualsiasi cosa è meglio che tornare a casa per le feste da lei. Se non avessi l’ossessione del debito sarei quasi felice.
Va bene, ci penserò dopo, altrimenti faccio tardi sul serio. La giornata sarà lunga perché è la vigilia di Natale. E la vigilia di Natale è quasi sempre una baraonda.
Le cose sono andate meglio di come mi aspettavo. Durante la mattinata c’è stata parecchia gente, ma non un’invasione. Il registratore di cassa non si è mai inceppato, ed era successo già due volte quest’ultimo mese. L’atmosfera di Natale ha fatto il resto.
Erano tutti sorridenti, alla fine mi è quasi passata la malinconia. All’ora di pranzo, quando il supermercato si è svuotato per un paio d’ore, sono riuscita a trovare il tempo di aprire il libro di Fisiologia e cominciare un capitolo, facendo uno sforzo per contenere l’angoscia che mi prende quando penso a tutte le volte in cui ho tentato l’esame senza passarlo. Che poi passarlo non è sufficiente, se non prendo almeno ventiquattro non vado da nessuna parte, né con le cliniche né con il tirocinio. Il primo appello è il 5 febbraio.
Ho aperto al capitolo XXI.
«Il cuore è un muscolo cavo costituito da un insieme di fibrocellule striate ramificate, ben separate anatomicamente le une dalle altre, ma anastomizzantisi in modo da formare un sincizio».
Ho sottolineato «anastomizzantisi» per ricordarmi di fare l’ennesima verifica – però un’idea ce l’ho: è una procedura legata alla congiunzione di arterie, nervi e vene – e «sincizio», che, se non ricordo male, è la massa protoplasmatica derivante dall’unione delle cellule. La definizione dei termini tecnici, prima di memorizzarla, devi rileggerla cento volte, altrimenti ti rimane il dubbio. Avevo il manuale squadernato sulle ginocchia, un gioco delicato di equilibrio perché pesa almeno due chili, e a un certo punto ho avvertito una presenza. Ho alzato la testa.
In mezzo agli scaffali ho visto la signora Scanferlato che mi fissava. Aveva un barattolo in mano. Appena si è accorta di me l’ha rimesso a posto. Poi l’ha ripreso, e di nuovo l’ha riposto nello scaffale. L’ha fatto tre o quattro volte. Sempre lo stesso barattolo, sempre nello stesso punto.
La cosa strana era che non borbottava, un segnale piuttosto inconsueto da parte sua, che parla in continuazione anche da sola.
Forse il marito è scomparso ancora. È un vecchietto carino e sorridente, un bidello in pensione, e a modo loro si vogliono bene. Vengono spesso insieme: bisticciano, si fanno i dispetti, lui infila la roba nel carrello e lei la toglie protestando perché è tutto troppo caro, certe volte per mettersi d’accordo a fare la spesa ci perdono due ore. Ma poi se pensano che nessuno li veda si nascondono dietro gli scaffali e si dà nno un bacetto sporgendo le labbra come Topolino e Minnie. Certo che lei non sta mai zitta, è pesante anche per noi che la vediamo di rado, e allora il marito da qualche anno ha trovato questa soluzione: ogni tanto sparisce.
Me l’ha detto Dina che conosce la vicina di pianerottolo. Si prende una pausa di decompressione. Esce dicendo che va a farsi un’ombra al bar, e resta fuori un paio di giorni. E quando torna le porta un mazzo di gerbere rosa.
Lei ignora dove vada, altrimenti andrebbe a riprenderselo. Non l’ha mai capito, e cosà quando rimane sola viene qui a sfogare la sua nevrosi. Poi oggi è la vigilia, immagino che l’assenza le pesi di piú.
Guardo il mio libro fingendo massima concentrazione, spero tanto che se la cavi da sola, ma nel momento in cui rialzo la testa è sempre là a fissarmi.
Sospiro, chiudo il manuale e mi avvicino.
– Il prezzo, – mi chiede, e ricomincia ad afferrare il barattolo e rimetterlo a posto. La voce è un pigolio.
– Mi faccia vedere –. Do un’occhiata al cartellino di plastica appeso sul bancale. – Ma no, è lo stesso dall’inizio dell’anno, davvero. Quanti gliene servono?
Lei è stralunata, scuote la testa a destra e a sinistra. Si vede che senza il marito, che prende quello che lei toglie, il suo ritmo interno in qualche modo si è rotto. Un disco di coppia incantato.
– Gliene metto uno nel carrello. È di quelli grandi, sono quasi tre etti, va bene? Poi se gliene serve ancora siamo qui.
La donna fa cenno di sÃ. Il viso si distende. È felice di trovare qualcuno che le faccia da sponda.
Comincia a parlare velocissima, come se fino a quel momento avesse trattenuto il fiato. Prima sottovoce, poi in modo sempre piú fluido, una cantilena che si alza e si abbassa di tono senza pause.
Le do una mano a finire la spesa, la ascolto raccontare dei figli, delle nuore, dei nipoti, dei fratelli, del cane, dei gatti, dei vicini, della mamma, del papà . Alla fine le faccio il conto in cassa e la aiuto a imbustare.
Sulla porta esita. Fuori da quel confine sarà di nuovo sola.
– Buon Natale, – le dico.
La Scanferlato bisbiglia un saluto e un augurio, poi esce allacciandosi un fazzoletto sulla testa, stretto come se dovesse affrontare una tormenta. Si avvia a passo lento verso il suo portone.
Torno alla cassa e trovo Dina che mi aspetta.
– Ci caschi sempre, – dice scuotendo la testa. – Quante volte ti ho detto che non devi darle spago? Hai mangiato qualcosa, almeno? Tieni, – e mi passa un panino con il prosciutto cotto e una fetta di asiago. Conosce i miei gusti. In teoria non saremmo autorizzati a pranzare sul lavoro, né tantomeno a mangiare i prodotti in vendita. Contiamo sul fatto che il responsabile chiuda un occhio visto che è Natale. Per fortuna è fuori da un paio d’ore, e almeno oggi non ci vede.
– Grazie, – dico, dando un morso. Sono due giorni che non faccio la spesa, oppressa dall’idea di risparmiare perfino i centesimi, e oggi in frigo non mi era rimasto neppure un mandarino da portarmi dietro. D’altronde ho lo stomaco talmente chiuso dall’ansia che digiunare mi viene quasi facile.
– Cos’hai? – chiede Dina, appoggiandosi al rullo in piedi, a braccia conserte. – È tutta la mattina che non dici una parola.
– Niente. Sono un po’ tesa.
– È perché devi tornare a casa per le feste? Quando parti?
– Ma sei matta? Non ci penso nemmeno. No, le solite cose. Soldi. Non ti preoccupare, in qualche modo mi arrangio.
So che se potesse i soldi me li presterebbe lei. Ma è Natale, ha una famiglia, dei figli, e uno stipendio da fame. Non può, e io non glielo chiederei mai. È una di quelle persone che trovano sempre il modo di regalarti qualcosa di utile. Si china verso di me.
– Va’ a casa, – dice. – Almeno là studi tranquilla.
– Scherzi? Non puoi mica restare sola. E poi tra poco torna Zanchetta.
– Va’ a casa, t’ho detto. Riposati. Con Zanchetta ci parlo io. E mangia di piú, santoddio, ché sei pallida come una morta. Noi ci arrangiamo, siamo in due, chi altro vuoi che venga oggi pomeriggio? Chiudiamo alle cinque, non sono nemmeno tre ore. È la vigilia anche per noi, no?
Resto interdetta. Dina e io non ci conosciamo tanto bene. Siamo colleghe da un anno e condividiamo la frustrazione di un impiego malpagato e senza prospettive. Non ho mai capito dove trovi le risorse o la voglia per prendersi cura di me, però non è la prima volta che lo fa.
Oltretutto la sua è una pietosa bugia. La vigilia di Natale potrebbero entrare altre venti persone prima della chiusura, perfino in un posto desolato come questo. E Zanchetta detesta sostituirmi in cassa, quindi gliela farà pesare.
Però il suo sacrificio è un regalo cosà limpido e disinteressato che mi sembra immorale respingerlo. Quindi accetto con gratitudine, mi tolgo la divisa, la infilo nell’armadietto sul retro, e cinque minuti dopo sono in strada a respirare l’aria freddissima di dicembre.