Dipende cosa intendi per cattivo
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Dipende cosa intendi per cattivo

  1. 256 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Dipende cosa intendi per cattivo

Informazioni su questo libro

Costanza vuole diventare fisica teorica, ha una scimmia che le parla in testa e si sente piena di spifferi. Non ha ancora fatto nulla di illegale quando sua madre, ansiosa di buone azioni, la porta a vivere alle case popolari per un progetto di volontariato.
Nel suo nuovo palazzo, il mondo degli adulti produce un frastuono ininterrotto, tra chi vive di espedienti e chi dichiara guerra alle buone intenzioni altrui scagliando oggetti dal balcone. Non avrebbe mai immaginato di incontrare una madre peggiore della sua, e di affezionarsi al suo dolore. Né di condurre una squinternata indagine sulla morte di un vicino insieme a Maria Jennifer, un'adolescente come lei ma completamente diversa dagli esseri umani conosciuti prima. La ribattezza Hubble: come un telescopio spaziale, la sua nuova amica - cresciuta a suon di incantesimi e disamore - le mostra modi di pensare opposti a quelli che insegnano a scuola. Forse folli, ma in grado di distillare la salvezza dalla sofferenza, come un arcobaleno trovato in mezzo alla spazzatura. La scrittura impetuosa e freschissima di Gaia Rayneri schiude un microcosmo abitato da figure che oscillano tra un disperato bisogno d'amore e il terrore di lasciarsi amare, tra l'odio per la società cosí com'è e il desiderio di farne parte. Il ritratto di due anime fragili dentro le quali candore, magia e rabbia hanno lo stesso diritto d'asilo.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2018
Print ISBN
9788806208608
eBook ISBN
9788858428177

Dipende cosa intendi per cattivo

Per favore chiamatemi con i miei veri nomi, cosicché io possa udire tutti i miei pianti e tutte le mie risa insieme,
cosicché io possa vedere che la mia gioia e il mio dolore sono una cosa sola.
THICH NHAT HANH
Sono nato a cavallo tra Carnevale e Quaresima, un occhio al ridere e un occhio al piangere ed entrambi convergenti verso una specie di incantamento che ingenera ipnosi...
ALDO BUSI
Sicuramente sbaglierò qualche parola, devo parlare di cose invisibili e fondamentali ma non so da chi imparare come dirle. Se ci fosse Maria Jennifer saprebbe aiutarmi, quel che ho scoperto negli ultimi mesi viene quasi tutto da lei. Eppure sembra sparita – il suo solito modo di fare, penserei, se non avessi fatto quello che ho fatto. Invece credo sia proprio a causa mia che è scappata. Ecco, non lo volevo dire ma l’ho detto: e ora che l’ho detto diventerà vero. «Stai attento a quello che pensi, perché crea la realtà». Lo dicono gli indiani, a me l’ha detto Hubble. Ma come consiglio è difficile da seguire, perché nella mia testa non ci sono solo io che penso. Per esempio, c’è quella scimmiaccia dispettosa, che da quando sono piccola mi dà il tormento. Mi dice che sono cattiva. Si diverte a farmi pensare le cose sbagliate in modo che poi si avverino quelle. Forse sto straparlando, è che sono un po’ scossa.
Dico cosí per rimpicciolire i problemi nella speranza di creare una realtà meno preoccupante, ma la verità sarebbe «un mare di disperazione», o quello che mia madre chiamerebbe «disturbo d’ansia generalizzato».
È che ho ucciso una persona, la settimana scorsa. E quindi a quella scimmia, che è tutta la vita che provo a metterla a tacere, ora invece mi tocca darle ragione. Perché tecnicamente ce l’ha. Che io sia cattiva non c’è dubbio.
Poi c’è Hubble che è sparita e non so cosa fare, perché io, di quello che ho fatto, pensavo che lei non ne sapesse niente; e sono qui chiusa in camera da mio padre, e va bene che ha deciso di smettere di educarmi e quindi di fidarsi di me, però tra un po’ si renderà conto anche lui della mia faccia, che sembra gridare a gran voce: PORTATEMI IN GALERA. Credo che mia madre, nel dubbio, mi porterebbe in ospedale.
Non so ancora che idea se ne sia fatto Ismaele. Che ho dato alla scimmia un motivo per avere ragione, quando gli avevo chiaramente promesso che non sarebbe piú successo. Boh, lui comunque saprà già tutta la storia.
Ismaele è mio fratello, ha due settimane e tre giorni. Cioè, non serve immaginarsi mia madre alle prese con tutte quelle cose dolci tipo camiciona da notte per l’allattamento, vomitini teneri anche se sono vomitini, profumo di pelle pulita e yogurt.
Lui era il mio fratellino di due settimane e tre giorni. Poi è morto.
Ma era piú di tre anni fa, non serve farsi venire da piangere.
Il paraculo ha fatto quello che vorremmo fare tutti: è saltato subito al sodo. Da una parte tiene piú compagnia, cosí, da neonato era poco interattivo. Nel posto dov’è adesso i sensi sono interconnessi e percepiscono tutti i significati delle cose, quindi sicuramente capirà. È un gesto cosí piccolo, il mio, da quella prospettiva, come un granello di sabbia su Marte, non piú grave di quando un’aquila divora una marmotta. Lí non esistono colpe, esistono solo dati di fatto. O almeno è quello che Ismaele mi ha dato a intendere, è uno sveglio, certo stare da quella parte ti fa crescere molto piú in fretta che qui sulla Terra, diventi un tutt’uno con l’intelligenza che fa esistere le cose che esistono.
Se avessi a che fare sempre con persone cosí, sarebbe piú facile: lui sa già tutta la storia senza bisogno che io la racconti, ma soprattutto sa già da che prospettiva guardarla, cioè da tutte insieme contemporaneamente. Però adesso è davvero importante che io riesca a raccontarla, questa storia, perché bisogna che si capisca che anche se è da sempre che mi sento cattiva, io non sono nata per fare l’omicida. E che quello che è successo è stato solo perché ho pensato tutto in modo sbagliato per troppo tempo, e le cose intorno a me sono diventate tristi di conseguenza. Si deve sapere nel caso vengano a prendermi, e cercherò di raccontarla con parole mie, perché se non parlo io poi la scimmia parla al mio posto, e si mette a ricreare una realtà tutta sbagliata.
Mi chiamo Costanza, e questa è già la prima cosa illogica. Avrebbero dovuto chiamarmi Oscillanza. Oppure bastava lasciarmi senza nome, l’avrei preso in prestito da chi avevo di fianco. È che per le cose che sono successe sono piena di spifferi, e chiunque passi di qui mi si infila dentro. Spero di aver assorbito piú che altro Maria Jennifer, gli ultimi mesi li ho passati con lei. Sono una sanguisuga, e non sto mai come sto io: sto sempre come stanno gli altri.
Sto finendo di disimparare la vita che mi avevano insegnato prima, voglio diventare una fisica teorica, sempre ammesso che in prigione lascino studiare, e non ho ancora raggiunto quella che chiamano la maggiore età, che poi mi son sempre chiesta maggiore di cosa. Non credo di avere l’aspetto della ladra e assassina che sono diventata: quando mi inviteranno in quei salottini della tv criminale che guarda la gente che io non voglio vedere, forse avrò ancora la faccia di una che prende dei bei voti.
Tutto è partito sei mesi fa, quando io e mia madre siamo andate a stare nella casa nuova.
I genitori ti promettono di non chiederti a quale dei due vuoi piú bene, poi si separano e ti fanno scegliere con chi andare a vivere. E dicono che siamo padroni delle nostre scelte, ma a volte la proposta mi sembra come il menú dell’ospedale: «Preferisce il passato di carote o il merluzzo bollito?» E a me tocca anche prendermi la responsabilità di essere una che mangia male.
Mio padre, da bravo padre, è un manuale: la sua tristezza l’ho imparata dalla prima all’ultima pagina, per quello mi ero detta Proviamo a vedere com’è con mia madre e la sua falsa gioia, almeno alleno i muscoli della faccia a stare nella posizione giusta.
Lei scoppiava di entusiasmo come sempre da dopo il divorzio, ogni cosa che faceva la usava come pretesto per rifondare la sua nuova vita: se tagliava un cavolfiore non stava solo tagliando un cavolfiore, bensí «coltivando il suo legame con i vegetali», diceva che doveva fare cosí per non cadere in depressione, che noi abbiamo la genetica a sfavore. E in effetti è stata brava, devo ammettere. Si vedeva benissimo che non lo amava piú, e che era piú felice senza: è riuscita a comunicarglielo bene, anche se prima di lasciarsi non comunicavano. Lui la ama ancora adesso, credo, ogni volta che deve pronunciare il suo nome inciampa con la lingua su qualche nomignolo che usava prima. Dice sempre che non avrà piú un altro amore. Chissà se i miei spifferi funzionano anche in uscita, se io mi prendessi un Prozac, farebbe effetto anche a lui?
A dirla tutta anche farmi contagiare dall’allegria di mia madre non è il massimo: quel giorno del trasloco frenava per far attraversare ogni singolo pedone sulle strisce come per conquistarsi il paradiso a ogni incrocio; e alla radio c’era una canzone stupidissima, di quelle che ti fanno venir voglia di cavarti un orecchio, e lei non solo la cantava, ma dondolava anche la testa a ritmo, lanciandomi mezzi sorrisi come fosse rapita dalla musica.
I suoi scherzi non fanno mai ridere, ma quando è seria è talmente imbarazzata e imbarazzante che mi scoppia da dentro una risata incontenibile, come quando ti raccontano una barzelletta a un funerale. Tecnicamente, mi fa molta piú allegria quando è triste.
Però quel giorno era allegra, perché era finalmente partito il suo progetto: fare la volontaria in una casa popolare. Quindi stavamo andando ad abitare in una casa popolare.
È che lei non riesce a stare, se non fa del bene. Soprattutto da dopo il Grande Salto di Ismaele. Lei pensa che sia ancora di questo mondo, e lo vede tatuato sulle facce di tutti i poveri e i bisognosi.
Stavo anche cambiando città, che per me era «come un sogno che si avvera per magia», per usare un’espressione da principesse di nove anni.
Nel paesino in cui sono cresciuta, e non lo voglio neanche nominare perché magari finisce che poi ci ritorno, era una noia tremenda, stavano sempre tutti bene, o se avevano dei problemi non erano problemi interessanti. Una volta mi sono sdraiata sulla strada principale un sabato sera alle nove, ed è passata mezz’ora buona prima che arrivasse una macchina che avrebbe potuto investirmi.
Mia madre si faceva un mucchio di preoccupazioni su come l’avrei presa io, il fatto di andare a vivere là: che era pieno di persone disgraziate in quella casa, diceva, non solo nel senso che erano povere, ma che erano povere e con il cervello affaticato, e alcuni troppo vecchi, altri senza amici. La casa però era in mezzo al casino, pieno centro: forse l’avevano deciso apposta, avevano messo tutti i bisognosi lí per compensare il fatto che era una bella zona. Come si chiama, pareggio del bilancio?
Dovevamo starci solo sei mesi, poi mia madre aveva già programmato di andare nella vecchia casa del nonno in collina, e papà la stava aiutando a ristrutturarla; ma io non volevo neanche pensarci, perché in quel dopo sarei ritornata a essere una ragazza di buona famiglia, con una vita noiosa come la via del paese da cui vengo.
È stato quel posto a danneggiarmi il cervello, io non ci sono neanche nata, e se qualcuno si azzarda a dire che sono una di provincia lo querelo per diffamazione.
Dico cosí ma poi non passo mai alle maniere forti. Cioè, a parte la cosa dell’omicidio. Quando esagero, è solo perché ho l’ansia.
Ho imparato una cosa davvero carina sull’ansia, l’altro giorno con Hubble: stavamo leggendo «BBC Science», o una di quelle riviste col bollino della biblioteca che le passa Salvatore. Che uno, quando ha l’ansia, perde il «pensiero logico-razionale», diceva: cioè non è che proprio si perde, ma si annebbia. E che oggi può sembrare una cosa stupida, ma ai tempi dei tempi era una cosa molto intelligente: serviva per quando ti trovavi davanti a una tigre, perché non ti venisse voglia di metterti a filosofare. L’ansia non ti fa capire piú nulla e ti mette una gran voglia di correre, diceva l’articolo. Noi umani abbiamo cambiato tutto l’habitat in cui viviamo, abbiamo conquistato il mondo, se si escludono i tardigradi, però in fondo in fondo siamo rimasti gli stessi, come se avessimo sempre la tigre davanti, anche se non lo sappiamo. Questa è una cosa che faceva impazzire Hubble. Alla fine tutti facciamo fatica a cambiare, se pensi che anche l’uomo piú intelligente del pianeta rimane un uomo primitivo quando ha l’ansia, e poi dicono che noi del Toro non amiamo il cambiamento. Ma tanto io nell’astrologia non ho ancora deciso se crederci o non crederci. E comunque, dicevo, stavamo andando a vivere a Torino, in una casa popolare.
Certe cose dovrei scriverle in un diario privato, o vanno bene anche qui? Al riformatorio te li leggono i quaderni, o hai la libertà di tenerli chiusi visto che sono in carcere anche loro?
Dicevo, che la casa ce la davano gratis, o forse a un prezzo simbolico, e noi in cambio dovevamo fare una bancarella solidale, cioè prendere i prodotti in scadenza dai supermercati, sempre ammesso che ce li volessero dare, e distribuirli a chi non poteva permettersene di piú freschi.
Mia madre continuava a pronunciare parole di conforto e incoraggiamento («Alla tua età stai per vivere un’esperienza che pochi possono dire di aver fatto», consolando se stessa piú che me), e intanto scivolavamo via da quella che per anni era stata la strada di casa.
Torino vista dalla collina sembrava impastata dentro a un banco di nuvole basse, invece era smog, ma a poco a poco che ci entravi quello sporco sembrava il cielo normale perché smettevi di vederlo, rimaneva solo una sensazione strana, tipo «Oggi c’è il sole, ma non sembra ci sia veramente il sole», che è quello che tutti provano quando a Torino fa bello, anche se non lo dicono.
Me lo ricordo, era martedí, e la signora delle pulizie della casa vecchia diceva che non bisogna mai cominciare niente di martedí. Che alla fine aveva ragion...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Dipende cosa intendi per cattivo
  4. Il libro
  5. L’autrice
  6. Della stessa autrice
  7. Copyright