Le tre del mattino
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Le tre del mattino

Gianrico Carofiglio

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  1. 176 pagine
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Le tre del mattino

Gianrico Carofiglio

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Informazioni sul libro

Antonio è un liceale solitario e risentito, suo padre un matematico dal passato brillante; i rapporti fra i due non sono mai stati facili. Un pomeriggio di giugno dei primi anni Ottanta atterrano a Marsiglia, dove una serie di circostanze inattese li costringerà a trascorrere insieme due giorni e due notti senza sonno. È cosí che il ragazzo e l'uomo si conoscono davvero, per la prima volta; si specchiano l'uno nell'altro e si misurano con la figura della madre ed ex moglie, donna bellissima ed elusiva. La loro sarà una corsa turbinosa, a tratti allucinata a tratti allegra, fra quartieri malfamati, spettacolari paesaggi di mare, luoghi nascosti e popolati da creature notturne. Un viaggio avventuroso e struggente sull'orizzonte della vita. Con una lingua netta, di precisione geometrica eppure capace di cogliere le sfumature piú delicate, Gianrico Carofiglio costruisce un indimenticabile racconto sulle illusioni e sul rimpianto, sul passare del tempo, dell'amore, del talento. «E papà suonò da solo. Io non lo avrei confessato nemmeno a me stesso, ma ero orgoglioso e fiero di lui, e avrei voluto dire a chi mi stava vicino che il signore alto, magro, dall'aspetto elegante che era seduto al piano e sembrava molto piú giovane dei suoi cinquantun anni, era mio padre. Quando finí, inseguendo il senso di ciò che aveva suonato in due scale conclusive e malinconiche, scoppiò un applauso pieno di simpatia. E anch'io applaudii e continuai a farlo finché non fui sicuro che mi avesse visto, perché cominciavo a capire che esistono gli equivoci e non volevo che ce ne fossero in quel momento».

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2017
ISBN
9788858427224

1.

Non so dire quando cominciò. Forse avevo sette anni, forse qualcosa di piú, non ricordo con precisione. Da bambino non ti è chiaro cosa è normale e cosa non lo è.
In realtà non ti è chiaro nemmeno quando sei adulto, a pensarci bene. Ma questa è una digressione e, nei limiti del possibile, vorrei evitare le digressioni.
Insomma, piú o meno una volta al mese, mi capitava una cosa strana e anche piuttosto angosciante. Senza preavviso e senza che fosse accaduto nulla, avvertivo un’impressione di assenza, di distacco da ciò che mi circondava e al tempo stesso un’amplificazione dei sensi.
Di solito noi selezioniamo gli stimoli che vengono dal mondo esterno. Siamo circondati da suoni, odori, e da ogni tipo di entità visibili. Ma non siamo oggettivi, non udiamo tutto ciò che rimbalza sui nostri timpani, non sentiamo tutto ciò che arriva al nostro naso, non vediamo tutto ciò che colpisce le nostre retine. Il cervello decide quali percezioni portare alla consapevolezza e quali informazioni registrare.
Il resto rimane fuori, escluso eppure molto presente. In agguato, verrebbe da dire.
Smettete di leggere e concentratevi sui rumori che sono intorno a voi e di cui non eravate consapevoli fino a qualche secondo fa. Anche se siete in una stanza silenziosa, vi accorgerete di un macchinario lontano; di un fruscio, di un ronzio; di voci piú o meno vicine, le cui parole non riuscite a distinguere, ma che ci sono. E diventerete consapevoli dei movimenti, delle vibrazioni che produce il vostro corpo: il respiro, il battito cardiaco, i gorgoglii dell’apparato digerente.
Può non essere una sensazione piacevole e di certo non lo era per me. In effetti il mio cervello smetteva di operare una selezione e lasciava passare tutto. A questo fenomeno corrispondeva una temporanea abolizione della capacità di entrare in contatto con gli altri: con tanti, troppi stimoli, era impossibile. Per alcuni minuti non riuscivo a parlare e me ne stavo lí, seduto da qualche parte, come ubriaco.
Per anni non ne parlai con nessuno. Mi sembrava fosse una caratteristica normale del mio modo di essere, inoltre non avrei saputo bene cosa dire. Non avevo le parole per raccontare quell’esperienza.
Poi un giorno mi successe a casa di un compagno di scuola. Ernesto, figlio di un ufficiale dei carabinieri che abitava in uno sterminato alloggio di servizio. Eravamo nella sala da pranzo e giocavamo a subbuteo dopo aver mangiato – chissà perché ricordo questo dettaglio – delle caramelle mou.
Sua madre era seduta in poltrona e mi pare stesse lavorando a maglia.
Ero in attacco e stavo per tirare in porta da una posizione molto vantaggiosa, ma non lo feci. All’improvviso, e con una violenza che non avevo mai sperimentato, fui travolto da una gigantesca cacofonia che arrivò come un torrente in piena gonfio di detriti. L’urto fu cosí potente che per qualche istante persi i sensi.
Mi risvegliai in poltrona, la stessa su cui prima c’era la mamma di Ernesto. Lei era china su di me, mi accarezzava il viso e mi parlava in tono preoccupato.
– Antonio, Antonio, come ti senti?
– Bene, – risposi, poco convinto.
– Che ti è successo?
– Che mi è successo?
– Non parlavi e sembrava che non sentissi. Poi sei svenuto.
I rumori erano passati ma io ero ancora confuso e non riuscii a dire nulla. Allora la mamma di Ernesto chiamò mia madre e le riferí l’accaduto. Rientrato a casa fui sottoposto a un nuovo interrogatorio.
– Che ti è successo, Antonio?
– Non lo so. Cioè, niente di strano.
– La mamma di Ernesto dice che ti parlavano e tu non rispondevi, come se fossi stordito o addormentato.
– A volte mi capita…
– Cosa, ti capita?
Mi sforzai di descrivere quello che mi accadeva di tanto in tanto, e che quel pomeriggio si era verificato in forma piú violenta.
La sensazione che qualcuno mi stesse suonando un tamburo nel petto. Il respiro, cosí presente da convincermi che se mi fossi distratto, se avessi smesso di pensare a respirare, sarei morto per asfissia.
I suoni piú ordinari che si trasformavano in un frastuono intricato.
E poi c’era un’altra cosa che mi capitava con una certa frequenza: l’impressione di avere già vissuto il momento che stavo vivendo. Mi avrebbero presto spiegato che si chiamava déjà-vu e che era un fenomeno relativamente normale. Allora però non lo sapevo e talvolta mi sembrava di abitare in un mondo di fantasmi.
Mia madre chiamò mio padre e una mezz’ora dopo lui ci raggiunse. Questo mi fece pensare che il problema fosse abbastanza serio e che forse avevo sottovalutato i miei sintomi. I miei genitori si erano separati che io avevo nove anni e da allora papà era entrato a casa di mamma – che prima era anche casa sua – pochissime volte, e mai di sera. Quando andavo da lui passava a prendermi, io scendevo le scale, salivo in macchina e partivamo.
Mi ripeté le stesse domande e io gli diedi, credo, le stesse risposte. Dopodiché chiamarono il dottor Placidi, nostro medico di famiglia. Era un anziano, simpatico signore con dei grandi baffi bianchi, i capillari del naso rotti e un odore dolciastro nell’alito che solo parecchi anni dopo sarei stato capace di identificare. Chissà se i miei genitori erano consapevoli del fatto che il nostro fidato dottore non era propriamente astemio.
Venne da noi, mi visitò e soprattutto mi fece tante domande. Avevo convulsioni? Mi spiegò cos’erano e io dissi che no, non ne avevo mai avute. Avevo allucinazioni colorate o momenti di buio totale? No, nemmeno.
C’erano solo questi sovraccarichi sensoriali durante i quali però rimanevo presente ed ero capace di orientarmi, sebbene con difficoltà.
Quel pomeriggio da Ernesto tutto era stato piú intenso, ma in fondo non mi pareva troppo diverso da quando a scuola mi distraevo, non ascoltavo piú cosa dicevano i professori e mi mettevo a fantasticare.
– Ti capita di distrarti, a scuola? – chiese il medico.
– Qualche volta.
– Come se non sentissi quello che dicono i professori?
Guardai un attimo mia madre e mio padre. Non ero sicuro di dover condividere con loro quel tipo d’informazione, poi decisi che bisognava collaborare con il medico e annuii. Lui sorrise in segno di approvazione, come se avessi dato la risposta esatta. L’odore del suo alito era un po’ piú forte del solito.
Mi fece fare alcuni bizzarri esercizi. Dovevo stare in equilibrio su una gamba; chiudere gli occhi e toccarmi la punta del naso, prima con l’indice destro, poi con l’indice sinistro; stringere con forza un suo pollice nel pugno.
– Nulla di cui preoccuparsi, – disse infine rivolgendosi a mio padre. – È un normale disturbo neurovegetativo, capita ai ragazzini, soprattutto i piú sensibili. Con l’adolescenza i fenomeni scompariranno.
Poi si rivolse a me e aggiunse: – Il tuo cervello ha una super attività elettrica, è un segno di intelligenza.
Diciamocelo: la diagnosi era piuttosto vaga. Disturbo neurovegetativo vuol dire tutto, e dunque niente. Come se uno si rivolgesse al medico per un mal di testa e, dopo la visita, si sentisse dire che ha il mal di testa.
Il dottor Placidi aveva però un aspetto rassicurante, un modo di parlare rassicurante – alito a parte – e infatti i miei genitori si rassicurarono. La vita riprese regolare e l’evento di quel pomeriggio fu dimenticato in fretta.

2.

Passarono gli anni, in modo piuttosto normale.
Nonostante la diagnosi un po’ approssimativa, la previsione del medico si stava rivelando esatta.
Ormai non mi capitava piú di una volta al mese e le sensazioni erano via via piú tenui, sfumate. L’unica cosa che mi inquietava ancora era il déjà-vu, con il suo alone di fenomeno vagamente soprannaturale.
Ma insomma, era roba di attimi, perciò stavo per archiviare il tutto, come accade quando svuoti gli armadi e gli scaffali della tua stanza da bambino e metti via per sempre i quaderni a quadretti grandi, i sussidiari, i grembiuli col fiocco della scuola elementare, le scatole dei soldatini, degli animaletti e delle macchinine.
Facevo la quarta ginnasio ed ero appena tornato a casa da scuola. Anche mia madre era appena rientrata dall’università; stava preparando qualcosa per pranzo o parlava al telefono. Non lo so.
Io ero nella mia camera, sulla sedia a dondolo, che leggevo un albo di «Tex».
A un certo punto gli infissi vibrarono – per via del vento, credo – e il rumore fu cosí forte da farmi pensare a un terremoto. Mi alzai con circospezione e fui investito dalla tracimazione dei suoni. La televisione nell’altra stanza, un ciclomotore in strada, il cuore imbizzarrito lí dentro, il respiro incombente come in certi documentari sul mondo sottomarino o in certi film di suspense; persino i miei pochi passi incerti sul pavimento.
Avevo un copriletto azzurro chiaro, quasi celeste. D’un tratto quel colore tenue e rilassante divenne minaccioso, prese vita, balzò verso di me come un’entità psichedelica e mi attraversò con irreale violenza. Subito dopo, ancora dal copriletto si diffuse un fascio di luce, una specie di arcobaleno, prima azzurro, poi blu, giallo e di altri colori, fino a diventare di un bianco accecante che si trasformava in una serie di scie luminose. Queste s’incrociavano fra loro, si univano, si spezzettavano e si moltiplicavano, riempiendo a poco a poco il mio campo visivo.
Il frastuono diventò assordante. Mi coprii le orecchie con le mani e cercai di chiedere aiuto. Non so se ci riuscii: è l’ultima cosa che ricordo.
Parecchi anni dopo mamma mi avrebbe raccontato di avermi trovato a terra, scosso dalle convulsioni, con gli occhi rovesciati e privo di conoscenza.
Nel mio film personale la scena successiva alla dissolvenza è una soggettiva da un letto di ospedale: una stanza con mobili colore del latte condensato.
C’era gente intorno a me, ma in quel preciso istante nessuno mi guardava. C’erano mia madre, mio padre e degli uomini in camice bianco. Parlavano fra loro a bassa voce. Poi qualcuno si accorse che mi ero svegliato.
I miei genitori vennero verso di me.
– Antonio, come ti senti? – disse mia madre prendendomi la mano e accarezzandomi la fronte. Un gesto non usuale che, non so dire bene per quale motivo, mi fece venire da piangere.
– Cosa è successo? – domandai dopo parecchi secondi.
– Hai… hai avuto un malore, un giramento di testa molto forte… – Il tono era strano. Mamma parlava sempre in maniera netta, sicura. Pronunciava frasi compiute come se leggesse da un copione ben scritto. Quella volta no.
– Hai avuto un malore, – ribadí mio padre, – ma non devi preoccuparti, adesso siamo in ospedale. I dottori fanno i loro controlli e ti riportiamo subito a casa.
Pure nello stato di torpore in cui mi sentivo – dipendeva dal valium – mi fu chiarissima la dissonanza fra le parole rassicuranti di mio padre e la sua espressione. Sembrava un ragazzino che d’un tratto fosse stato informato sulla vera natura del mondo e sui suoi pericoli mortali.
Accanto a lui si collocò uno degli uomini in camice. Aveva la carnagione scura,...

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