Era una torta fuori ordinanza, dissidente, un prototipo illegale che nessun ricettario avrebbe ospitato tra le sue pagine. Un esemplare unico, anomalo, una mascalzonata a tre gusti, mangiarla era come far sparire delle prove. Si trattava del dolce per il compleanno di un’amica e Caterina non voleva che lo festeggiasse affettando una dozzinale Saint Honoré di ruolo. Quel legame insolito tra pistacchio, castagne e torroncino, che sarebbe stato considerato un’associazione a delinquere da qualunque altro pasticciere, aveva il preciso scopo di comunicare alla persona cui era destinato: «Per me non sei un individuo come gli altri. Ti voglio bene». Nel laboratorio posto sul retro del negozio non c’erano testimoni quel giorno, se si escludeva un piccolo Montblanc da sei porzioni con scritto sulla fronte «Auguri Carmine». Lui non avrebbe parlato.
I dolci che Caterina preparava esprimevano il suo stato d’animo.
Per capire se attraversava un periodo difficile, bastava dare un’occhiata alle torte che ammiccavano dagli espositori frigo, come prostitute dalle vetrine di Amsterdam. I Profiterole, infatti, apparivano malinconici, privi dell’ambizione architettonica che dovrebbe contraddistinguerli: invece del tumulo sulla sepoltura di un re barbaro ricordavano piccole meduse spiaggiate. Le Charlotte alla panna erano di un bianco sconsolato, le Millefoglie sembravano aver bisogno d’essere innaffiate. Il loro sapore era sempre squisito, ma in quei particolari periodi i clienti della pasticceria erano meno soddisfatti del solito, abituati come tutti a dare valore a ciò che si vede fuori piú che a quello che c’è dentro.
Sarà che l’insoddisfazione è il marchio di fabbrica della specie umana.
Siamo tutti dei falliti, altrimenti non ci sarebbe il mondo che c’è. Tutti, anche il Presidente della Grande Nazione, che controlla la valigetta con i codici nucleari ma avrebbe voluto essere una star del cinema. Se scavi un poco, scopri che il Nobel per la matematica desiderava essere un campione di scacchi e che il famoso imprenditore darebbe buona parte del suo patrimonio per diventare il piú popolare dei cantanti confidenziali. Siamo talmente abituati all’insoddisfazione che la stimiamo una condizione del tutto normale e accettabile, anzi, uno stimolo a migliorarci, una buona sorte dolorosa i cui benefici comprenderemo col trascorrere del tempo. In quest’ottica, anche il mal di denti può esser visto come una forma di dieta molto efficace. Se sei ricco, vorresti essere piú alto, se sei alto, sogni di possedere un cavallo baio, e quando lo avrai capirai di aver sempre desiderato un morello.
Mentre il grande fiume degli insoddisfatti riceveva milioni di affluenti come tutti i giorni, Caterina continuava a guarnire il suo esperimento.
La sera precedente non era riuscita per l’ennesima volta a litigare col marito e ora si sentiva nervosa e sfiduciata.
Non si trattava di un marito autentico, ma di una riproduzione abbastanza credibile, un tarocco che anche una moglie di lungo corso, dopo un’attenta analisi, avrebbe faticato a smascherare. Come per tutti i modelli non originali, il problema principale consisteva nei pezzi di ricambio. Passione, pazienza, disponibilità, una volta consumate, non si sa come sostituirle. Il magazzino della loro relazione appariva malinconicamente vuoto. E in un amore, purtroppo, non è possibile sostituire la scheda come in una caldaia.
Caterina aveva cercato di fabbricare un piccolo diverbio, di varare l’imbarcazione di una litigata nel mare placido del loro rapporto. Non un transatlantico, magari, ma neanche un pattíno. Qualcosa che increspasse le acque almeno un poco, perché si capisse che il rimanere a galla non è mai una certezza, ma l’alternativa al colare a picco.
Gianfranco aveva ascoltato, aveva compreso, aveva ridimensionato, le aveva fatto un buffetto e s’era messo a preparare i medaglioni alla russa con i funghi.
Durante la notte, Caterina era rimasta piú di un’ora a guardarlo dormire. Stavano insieme da tre anni ma ognuno abitava in casa propria, una neutralità interrotta da brevi periodi di convivenza.
Osservare l’amante mentre è in stato d’incoscienza ci dice molto su cosa proviamo davvero nei suoi confronti. I primi tempi, hai il desiderio di svegliarlo per fare l’amore e giurare il falso sottovoce. Dopo qualche anno, noti soltanto che ha un brufolo su una guancia.
Caterina parlava di Gianfranco con gli altri chiamandolo «il mio compagno»: la parola «fidanzato» appare ridicola, a una certa età. Era un funzionario di polizia, la sua qualifica vice commissario, prefisso che sembrava ribadire la difficoltà di Gianfranco nell’essere titolare di un ruolo, nella vita privata come nel lavoro.
La pasticciera l’aveva fissato mentre giaceva supino, ficcato nel suo pigiama azzurro, fermo e inamovibile, saldato al letto. Si svegliava sempre nella stessa posizione in cui s’era coricato la sera precedente, un automa in ricarica. Non esistevano incubi, zanzare, lombalgie, preoccupazioni che potessero farlo rigirare tra le lenzuola. Il sonno confermava l’immutabilità della sua persona, che fosse accesa o spenta, la solidità di una creatura con delle fondamenta robuste, un oleandro difficilissimo da estirpare.
Quella notte, Caterina aveva pensato che gli voleva bene, che desiderava prenderlo tra le braccia come un bambino, sollevarlo, attraversare con quel fardello il soggiorno, scendere sei rampe di scale e depositarlo in strada. Non in mezzo alla carreggiata, per carità: sul marciapiede, al sicuro. Lasciarlo lí, adagiato con cura, con affetto. Che stessero lontani i topi, i barboni che frugano nei cassonetti, gli ubriachi, lontani da quell’uomo equilibrato e sereno.
La mattina seguente, però, il trasloco non era ancora avvenuto, Gianfranco s’era alzato come fosse caricato a molla per andare a bere il suo caffellatte, sbarbarsi, vestirsi e raggiungere il commissariato.
Ora Caterina stava ultimando la sua torta priva di documenti. Faceva un mestiere che le piaceva, era in buona salute, aveva un uomo che si prendeva cura di lei. Peggio di cosí non poteva andare.
Caterina aveva due commesse, nella sua pasticceria.
La piú anziana si chiamava Carla e stava dietro il bancone pieno di dolci come un soldato in trincea. Le sue mani guantate di plastica erano collegate al corpo tramite polsi enormi, da fabbro: le braccia non volevano correre il rischio che se la svignassero. Anche le caviglie erano massicce, ma quelle i clienti non potevano vederle. Carla tentava sempre d’indirizzare la scelta degli avventori verso i pasticcini, una madre protettiva che cerca di aiutare il figliolo meno dotato. I suoi sforzi erano spesso frustrati, la gente preferiva le torte.
La seconda vestale dei semifreddi era Shu, una ragazza cinese che era stata risucchiata dalla pasticceria una mattina di primavera.
Caterina aveva notato che per settimane la giovane donna era rimasta ipnotizzata davanti alle sue vetrine. Un giorno all’improvviso aveva deciso di entrare, un piccione che s’infila nell’androne di un palazzo. Non sembrava aver nulla da dire, occupava lo spazio sorridendo. Carla le era andata subito incontro, pronta a fronteggiare una nuova, spietata ordinazione che non prevedeva i pasticcini.
Shu però non diceva nulla e anche Carla taceva: la scena ricordava il dipinto di un’Annunciazione, non fosse stato per i cannoli siciliani che facevano da sfondo. Trascorsero alcuni minuti in quello stallo imbarazzante: Shu non conosceva l’italiano, Carla lo frequentava pochissimo, introversa com’era.
Quando Caterina fece capolino dal laboratorio, si trovò di fronte due statuine, una in porcellana cinese, l’altra in ceramica molisana. Senza il suo intervento decisivo le due donne forse sarebbero ancora lí a guardarsi in silenzio.
Per alcuni minuti, la pasticceria divenne una nuova Babele, popolata da esseri umani che parlavano tra loro in tante lingue diverse senza capirsi. Poi, con l’aiuto del buonsenso e soprattutto di una disperata gestualità, Caterina riuscí a comprendere il motivo di quell’irruzione.
Shu voleva lavorare lí. Non lo chiese, si limitò a informarla della sua intenzione, senza nessuna arroganza. Quell’assunzione rappresentava il coronamento di un sogno e i sogni non possono che avere un epilogo felice, a meno che non accettino un esecrabile declassamento.
Le alzate e le guantiere sfavillanti, i profumi, quella certa aria da casa delle bambole che le pasticcerie hanno, quando sono belle e curate, affascinavano la piccola orientale dagli occhi e dai capelli nerissimi.
In quel luogo lei sarebbe stata beata, in ballo non c’era un posto di lavoro ma la felicità.
Caterina la prese a bordo, trascurando alcune piccole controindicazioni: non aveva bisogno di nuovo personale, la giovane non parlava la sua lingua ed era del tutto priva di esperienza in quel campo.
Per fortuna, l’integrazione nelle pasticcerie sembra essere piú semplice che nel resto del mondo: Shu dimostrò sin dall’inizio di essere a proprio agio dietro il bancone, annuiva allegramente di fronte alle richieste dei clienti ed era velocissima a confezionare i vassoi di cartone argentato con i dolci.
Carla, dal canto suo, non mostrava nessuna gelosia verso la nuova arrivata, anzi appariva soddisfatta di avere finalmente un sottufficiale ai suoi ordini.
A volte, dopo l’orario di chiusura, quando Carla se n’era già andata, Shu rimaneva nel negozio a guardar lavorare la sua datrice di lavoro.
Una sera la raggiunse nel laboratorio e iniziò a parlarle in cinese. Sapeva bene che Caterina non avrebbe capito una sola parola, ma non le importava. Spesso non ci capiamo neanche parlando la stessa lingua. Shu voleva dirle che le era grata, che la ringraziava con tutta l’anima, che per la prima volta in quegli ultimi anni tormentati aveva ritrovato un po’ di serenità.
I suoni che le uscivano di bocca erano oscuri ma il loro senso molto chiaro.
Quando ebbe finito, cominciò a parlare Caterina.
Disse che era contenta di averla incontrata e del modo in cui lavorava, dell’impegno che ci metteva e della passione. Poi, piano piano, senza quasi rendersene conto, la regina delle crostate si mise a raccontare di sé e della sua vita.
Disse tutto, descrisse tutto, come si sentiva, a che punto era arrivata la sua storia con Gianfranco, l’affettuosa estraneità che li legava, la sensazione di attesa che percorreva la sua esistenza da quando si svegliava la mattina a quando s’infilava sotto le coperte. La certezza di non essere compresa anestetizzava la sua naturale riservatezza. Shu l’ascoltava con attenzione e pazienza, ogni tanto scuoteva la testa, una confidente sulla cui discrezione non si potevano nutrire dubbi, visto che non aveva la piú pallida idea di cosa le veniva confessato.
Da quella volta, quasi ogni sera le due donne si trattenevano dopo l’orario di lavoro per chiacchierare e confidarsi, con tenera e premurosa incomunicabilità.
Shu fece anche vedere a Caterina alcune foto, raffiguranti dei signori cinesi molto dignitosi, oppure dei bambini pettinati con estrema cura, quasi se ne fosse occupato un geometra, e ancora delle operaie davanti a una fabbrica. Ogni tanto, durante la narrazione, Shu s’infervorava o tratteneva a stento le lacrime.
Allora, Caterina sospirava e le prendeva le mani tra le sue. Poi, da...