Quando si svegliò, Majnoun era in una casa che sapeva di burro di arachidi e fegato fritto. Era sdraiato dentro una cesta di vimini foderata da una spessa coperta arancione che aveva un odore dolce, saponoso e umano. Provò a muoversi ma si accorse di non riuscirci. Gli faceva tutto troppo male, e per giunta era impacciato nei movimenti. Aveva l’addome rasato, ed era fasciato con delle bende bianche che sapevano di petrolio, di pino e di qualcos’altro di indefinibile. La faccia gli prudeva ma aveva un cono di plastica attorno alla testa: l’estremità piú stretta era tagliata in modo che l’imboccatura gli abbracciava il collo, mentre quella piú larga sporgeva in fuori come un megafono. Anche se avesse voluto darsi una grattata alla faccia, non avrebbe potuto. Tutte e quattro le zampe erano rasate e bendate. Alzò la testa, per vedere meglio dove si trovava, ma era in uno spazio anonimo: una stanza biancastra le cui finestre davano su un radioso cielo blu.
Durante l’attacco – che gli tornò in mente all’improvviso con un’intensità dolorosa – Majnoun aveva immaginato che l’oscurità in cui stava precipitando non avrebbe avuto fine. Nel periodo in cui era vissuto libero aveva dedicato un po’ di tempo a riflettere sulla morte, cosí in quel momento aveva pensato che fosse venuta la sua ora. Ma adesso questa stanza biancastra sembrava dimostrare che Majnoun era ancora vivo e, inaspettatamente, ne fu deluso. Che senso aveva continuare a vivere dopo quello che gli era successo?
Per cercare di capire dove si trovava, Majnoun alzò un po’ di piú la testa. Provò a chiamare ma aveva la voce bassa e fioca, e abbaiare era una sofferenza. Ad ogni modo abbaiò, ma con la massima cautela possibile.
Sentí alle spalle un rumore sordo di passi.
– Si è svegliato, – disse una voce.
E la faccia di un umano eclissò la stanza.
– Come va? – chiese l’uomo.
La faccia di un’umana spinse quella dell’uomo fuori del campo visivo di Majnoun.
– Ma che fortuna! Ehi, hai avuto proprio una bella fortuna, no? Chi è questo bel bambino fortunato, eh? Chi è?
– Temo che non sarà in grado di alzarsi ancora per un bel pezzo, – disse l’uomo. – Chissà se ha fame.
Fame era una parola che Majnoun conosceva molto bene. Usando il proprio idioma, Majnoun schioccò la lingua, uggiolò e abbaiò sommessamente, pronunciando parole che volevano dire che sí, effettivamente aveva fame.
– Lo so che hai tanto male, piccolo. Cerca di stare tranquillo, – disse la donna.
Poi, rivolta all’uomo:
– Secondo me è troppo debole per mangiare.
– Mi sa che hai ragione, – disse l’uomo. – Ma, vediamo…
Lasciò la stanza e tornò con un piatto di riso bianco e fegatini di pollo. Lo posò davanti a Majnoun (l’odore era divino!), gli slacciò il cono di plastica e restò a guardare mentre lui si avvicinava piano piano al piatto e, senza mettersi seduto, con una spazzolata laterale della lingua si riempiva la bocca di cibo.
– A quanto pare mi sbagliavo, – disse la donna. – È affamatissimo.
– Perché non gli dai un nome?
– Pensi che dovremmo tenerlo?
– Perché no? Appena starà meglio, ti farà un sacco di compagnia durante il giorno.
– D’accordo. Allora che ne dici di chiamarlo Lord Jim?
– Vuoi dargli il nome del romanzo piú noioso del mondo?
– Se volessi questo, dovrei chiamarlo Coppa d’Oro.
Ascoltando il rumore che facevano parlando, Majnoun si ricordò dell’imprevedibile rilevanza che avevano i suoni emessi dagli umani. Gli tornò in mente che quando viveva con la sua famiglia, gli umani emettevano un sacco di suoni, nessuno dei quali aveva a che fare con lui. Poi di colpo, dalla nebbia di tutto quel rumore irrilevante, spuntava qualcosa di significativo: veniva pronunciato il suo nome, per esempio, e la ciotola con il cibo che lui aveva lasciato con il preciso intento di mangiarlo dopo veniva ritirata; oppure suonavano alla porta, qualcuno gridava, e lui, essendo chiaramente l’unico che si curasse di quelle sporadiche invasioni del loro territorio, doveva abbaiare all’intruso o saltargli addosso per accertarsi che fosse un tipo remissivo e non rappresentasse una minaccia per nessuno di loro.
Adesso, mangiando il riso con i fegatini, Majnoun teneva d’occhio gli umani, pronto ad accelerare il ritmo dei bocconi se accennavano a volergli togliere il piatto.
– Ma sei un mangione, sei! – disse la donna. – Bravo cane!
Poi, esausto, Majnoun tornò ad adagiarsi nella cesta di vimini. Lasciò che l’uomo lo frizionasse con della roba viscida e maleodorante prima di riallacciargli il cono di plastica attorno al collo. Il tempo che l’uomo e la donna uscissero dalla stanza, e Majnoun già dormiva.
Passarono sei mesi prima che riuscisse a stare in piedi per piú di qualche minuto. E anche a quel punto continuava a non poter usare la zampa posteriore, i cui tendini erano stati danneggiati in maniera piú seria. Per parecchio tempo, insomma, Majnoun ebbe solo tre zampe. Inoltre era mortificante per lui non poter defecare e urinare fuori casa. Gli umani gli resero ancora piú difficili le cose costringendolo a portare delle mutande. Lo cambiavano regolarmente, ma non sempre con la tempestività che avrebbe voluto.
Nei mesi che gli occorsero per ristabilirsi, ebbe poco o niente da fare, a parte starsene nella cuccia a pensare alla vita: la vita sua e la vita in generale. Questi pensieri lo rattristavano, perché lo riportavano inevitabilmente alla notte del tradimento. Il cane con la faccia grinzosa lo aveva tradito. Majnoun aveva parlato con lui liberamente, senza paura, sforzandosi di esprimere se stesso spinto da un senso di fraternità. In cambio il cane con la faccia grinzosa era stato fra quelli che avevano cercato di ucciderlo. Eppure certe volte gli sembrava che quelli avessero fatto bene ad attaccarlo. Majnoun si era allontanato dai suoi istinti al punto che nemmeno a lui era chiaro se meritasse o no di vivere da cane.
Per mesi l’unica cosa che lo distrasse da questi pensieri, a tratti angosciosi, furono gli umani. Lo affascinavano tanto quanto lo frustravano. Se mai fosse stato chiamato a dare un resoconto su di loro, cosa avrebbe detto? Da dove avrebbe cominciato? Per esempio, come definire i loro odori? Un intrico: cibi e sudore interrotti da effluvi indecifrabili. In genere puzzavano di cose insolite, ma l’odore umano che Majnoun preferiva era quello di quando si accoppiavano. Era aspro e sincero e confortante, cosí che certe notti, dopo che la cesta di vimini venne spostata nella loro camera da letto, lui dormiva piú sereno, perché il sentore di quelle copule funzionava come una specie di tranquillante.
Inoltre a poco a poco imparò meglio la loro lingua, andando oltre le prime nozioni rudimentali. Tanto per dirne una, Majnoun ora riusciva a cogliere le sottigliezze del tono. Per esempio, quando uno dei due parlava rivolgendosi all’altro con la voce che saliva si percepiva l’attesa, finché l’altro non parlava a sua volta. Il tono sembrava contare piú delle parole. Ed era sempre un po’ strano quando quei due umani usavano il tono crescente con lui, come se si attendessero una risposta, come se si aspettassero che lui li capisse.
«Hai fame, Jim?»
«Vuoi uscire, Jim?»
«Jimmy ha freddo? Lord Jim, hai freddo?»
Anzi, fu proprio il fascino che il tono di voce esercitava su di lui a provocare la prima vera controversia con la donna. Era con lei che trascorreva la maggior parte del suo tempo. Dei due umani, sembrava la piú interessata alla compagnia di Majnoun, e ne spostò la cuccia dalla camera da letto a una stanza dove c’era una grande scrivania. La donna stava ore e ore seduta a quel tavolo, alzandosi solo ogni tanto per stiracchiarsi o per dirgli qualcosa o per andarsi a prendere una tazza in cucina. Un giorno la donna si alzò dalla scrivania, si stirò, si avvicinò alla cesta di Majnoun, gli grattò la testa e disse:
– Hai fame, Jim? Ti andrebbe un biscotto?
Majnoun ci pensò e poi disse:
– Sí.
Benché per lui fosse alquanto difficile articolare il suono sí, da tempo si esercitava a pronunciarlo fra sé e sé, insieme al suono no e a un certo numero di altre parole importanti. Si era esercitato anche a muovere in su e in giú la testa in segno di assenso, e a scuoterla da sinistra a destra, per manifestare il dissenso. Quando la donna gli domandò se avesse voglia di un biscotto, Majnoun era incerto su quale fosse la risposta piú efficace: doveva annuire o doveva pronunciare la parola «sí»? L’incertezza continuò anche dopo che ebbe detto «sí», perché l’umana restò immobile a fissarlo. Confuso da tale reazione, Majnoun la guardò negli occhi, annuí e poi ripeté:
– Sí.
La donna si mise ad ansimare, poi cadde sul pavimento. Non si mosse per diversi minuti. Non sapendo cosa ci si aspettasse da lui – non si era mai imbattuto in questa repentina immobilità umana –, Majnoun abbassò la testa, si leccò il pelo di una zampa e aspettò per vedere cosa sarebbe successo. Dopo un po’, la donna si riscosse, mormorando qualcosa a mezza bocca. Poi si alzò in piedi. Forse, pensò Majnoun, non è sicura di avermi capito bene. Allora levò lo sguardo su di lei, annuí e disse:
– ’cotto.
Stavolta l’umana gridò e corse fuori della stanza terrorizzata. A Majnoun venne in mente che quello che lui aveva preso per un modo di parlare semplice, senza tanti giri di parole – il tono crescente, la risposta appropriata –, fosse in realtà uno scambio molto piú complicato. Di sicuro quando l’uomo diceva la parola sí o la parola biscotto la donna non scappava via in preda allo spavento. Gli venne il dubbio di aver trascurato di emettere qualche impercettibile suono di accompagnamento: uno schiocco della lingua, un guaito, un piccolo ringhio. Non ricordava di avere mai sentito l’uomo produrre nessuno di questi suoni. Al massimo, l’umano metteva un braccio sulle spalle dell’umana quando parlava con lei. Cosí, forse, Majnoun avrebbe dovuto toccarla prima di dire «sí»?
La prossima volta, pensò, se si piega su di me le toccherò la spalla.
Ma ciò che seguí fu cosí poco piacevole che per un bel pezzo non ci sarebbe stata nessuna prossima volta. Le conseguenze del fatto che Majnoun aveva parlato furono chiarissime: la donna adesso lo temeva. Non entrava piú in una stanza se vedeva che c’era lui. A quel punto l’uomo lo portò in un posto dove lo lasciò per tutta la notte. Il giorno successivo, Majnoun venne tastato e punzecchiato, gli misero degli aghi nelle vene, gli diedero da mangiare del cibo con un sapore strano e lo tennero in osservazione, chiuso in una gabbia, accanto ad altri cani che appena sentirono il suo odore diventarono aggressivi. Ecco l’umanità, ecco l’imprevedibilità, la spietatezza, la prepotenza degli umani. La cosa peggiore di tutte fu che, essendo debolissimo, Majnoun non riuscí ad aprire la porta della gabbia. Non ebbe altra scelta che star lí ad attendere il suo destino.
Da questa vicenda tuttavia ricavò una buona, ancorché inaspettata, lezione. Senza dubbio avrebbe tentato di comunicare con i gatti o gli scoiattoli, con i topi o gli uccelli, se mai fosse arrivato a intenderne l’idioma. Avrebbe tentato di comunicare con qualsiasi specie vivente. Ma da quel momento in poi avrebbe nascosto agli umani il fatto di conoscere la loro lingua. Era evidente che, per qualche loro motivo, non sopportavano di sentirsi rivolgere la parola dai cani.
Il terzo giorno la donna andò a trovarlo da sola.
Proprio quando Majnoun stava cominciando ad abituarsi a dormire lí, e gli altri cani si erano stufati di minacciarlo, la porta della stanza si aprí ed entrò la donna accompagnata da uno degli umani che avevano tenuto fermo Majnoun mentre l’uomo vestito di bianco gli cavava il sangue. L’umano aprí la porta della gabbia e, non senza trepidazione, Majnoun seguí la donna fuori.
Appena furono in strada, Majnoun pensò che sarebbe stato il momento giusto per scappare. La sera aveva un che d’invitante. Era primavera inoltrata. Il sole non era ancora tramontato. In lontananza sopra gli edifici si vedeva una fascia rossiccia. Ma ovviamente era ancora ostacolato dalle ferite, dal dolore che gli provocava la corsa. Non avrebbe mai potuto correre a lungo, e non solo avrebbe esaurito le poche forze a sua disposizione ma, peggio ancora, rischiava di perdersi in territori che non conosceva. Cosí salí sul sedile posteriore dell’auto.
Anziché mettersi al volante, la donna salí dietro con lui.
– Mi dispiace di averti mandato in quel posto, – disse, – ma mi hai fatto paura. Lo capisci?
Rassegnato a tutto, ma fermo nella decisione di non proferire parole umane, Majnoun annuí.
– Cosa sei? – domandò la donna. – Sei un cane?
Era incredibilmente difficile rispondere a questa domanda. Majnoun non si sentiva piú un cane al cento per cento. Gli sembrava di andare alla deriva fra una specie e l’altra. Ma capí cosa intendesse la donna con quella parola, per cui annuí di nuovo.
– Devi renderti conto – proseguí lei – che i cani non parlano mai con le persone. Una cosa del genere non si è mai verificata, che io sappia. Ho pensato che fossi posseduto. Per questo mi sono spaventata. Come ti chiami?
Questo Majnoun non lo voleva dire, non solo perché «Majnoun», il nome che gli aveva dato il suo padrone, gli era difficile da pronunciare, e neanche solo perché aveva deciso di non parlare piú, ma perché gli sembrava di non avere piú un nome vero e proprio. Fissò la donna, poi scosse la testa.
– Io sono Nira, – disse lei. – Ti dispiace se ti chiamo Jim?
Una domanda impossibile. Majnoun non era sicuro di capire cosa volesse Nira. Voleva sapere se lui accettava il nome «Jim»? Certo, perché no? Voleva sapere se gli dava fastidio che lei lo chiamasse «Jim»? No, perché mai? La guardò fisso e poi, sperando di cogliere nel segno, annuí.
– Hai deciso di non parlarmi piú,...