Il giorno ebraico comincia nella calma della sera, quando non sconvolge l’organismo con il suo arrivo. Fu allora, al calare del giorno, tre stelle visibili nel cielo di Manhattan, che Charles Morton Luger capà di essere in possesso di un’anima ebraica.
Ping! Arrivò cosÃ. Come il suono di un coltello su un bicchiere.
E a Charles Luger fu chiaro piú che mai: dentro di lui agiva una yiddishe neshama.
Non era tipo da mettersi a far conversazione con i tassisti, ma una cosa del genere gli sembrava doveroso condividerla. Era una leggenda metropolitana newyorkese di prim’ordine, come la storia della donna che partorisce in ascensore o quella del venditore di hot dog che pratica un’operazione a cuore aperto servendosi di un coltellino tascabile e di una penna Bic. Non era forse una rinascita vera e propria, la sua? Qualcosa era accaduto, di questo ne era certo. Perciò si chinò in avanti e bussò con il pugno sul divisorio di plexiglas.
Il tassista guardò nello specchietto.
– Sono ebreo, – disse Charles. – C’è un ebreo qui dietro.
Il tassista allungò la mano per far scorrere il divisorio che sbatté rumorosamente.
– È strano, ma pare che io sia ebreo. Ha un ebreo nel taxi.
– Non c’è problema. Il tassametro corre uguale per tutte le religioni, – rispose, indicando il display digitale.
Charles ci pensò su. Una reazione positiva, o perlomeno non malvagia. Già . Si aspettava forse il contrario?
Guardò Park Avenue dal finestrino. Il mondo visto con gli occhi di un ebreo. I colori non erano piú chiari né piú scuri anche se, ammise, stava già cercando qualcuno con lo zucchetto in testa, un vicino ebreo che guardasse dalla sua parte e gli strizzasse l’occhio a conferma di quanto già sapeva.
Il taxi rallentò fino a fermarsi davanti al suo palazzo, mentre il portiere, Petey, già si avviava verso il marciapiede. Charles tirò fuori il portabanconote con i soldi e sfilò un foglio da cinquanta. Si allungò sul sedile, tenendo stretto il denaro.
– Sono ebreo, – disse Charles, ficcando i cinquanta dollari in mano al tassista. – Ebreo, proprio qui sul suo taxi.
Charles appese il cappotto e sistemò la ventiquattr’ore vicino al portaombrelli pieno di bastoni da passeggio lavorati e ombrelli. Sue, che li aveva scovati dopo una ricerca minuziosa in tutta la città , non gli permetteva di toccarli. Sua moglie aveva rifatto la tappezzeria di ingresso, salotto e sala da pranzo in tessuto di chintz con un quantitativo soffocante di motivi floreali e animali, creando una vasta distesa ingannevole. Charles l’attraversò svelto fino alla cucina, dove Sue stava tirando fuori la cena dal frigorifero.
Leggeva il biglietto lasciato dalla cameriera, accendeva i fuochi e girava manopole secondo le istruzioni. Charles le arrivò alle spalle. Aspirò l’aroma del suo profumo e il leggero odore di sigarette che nascondeva. Sue si girò; si baciarono, piú con passione che per cortesia, evento che non era quotidiano ma neppure cosà raro. Lei portava ancora le lenti a contatto: aveva gli occhi di un azzurro radioso.
– Non ci crederai, – disse Charles, sorpreso di sentirsi contento. Era un uomo con la testa sulle spalle, di rado soggetto a sbalzi d’umore.
– A cosa non dovrei credere? – disse lei. Si staccò dal marito e infilò una teglia nel forno.
Sue lavorava come art director in una rivista patinata e conduceva una vita professionale decisamente mondana. Le attività quotidiane di un analista finanziario, si disse Charles, non meritavano neppure una cortese attenzione. Non le aveva mai raccontato nulla di incredibile.
– Be’, che c’è Charles? – Appoggiò il bicchiere nel tritaghiaccio incassato nel frigorifero. – Al diavolo, – disse. Charles, a colazione, aveva lasciato il dispositivo su TRITATO.
– Non sai che viaggio in taxi ho fatto, – disse lui, rendendosi conto d’un tratto con che spirito una persona che si infastidiva per del ghiaccio tritato avrebbe preso un cambiamento del genere.
– Che faccia che hai, – disse lei.
– Non è niente, sto ricordando. Che viaggio allucinante. Il tassista era un pazzo. Passava col rosso, saliva sui marciapiedi. E ha imboccato Third Avenue prima che il traffico del ponte cominciasse a scorrere.
La cameriera aveva preparato il pollo alla panna. Quando si sedettero a tavola Charles rimase a fissare il piatto. Era ebreo solo da mezz’ora e già si sentiva in obbligo. Sapeva che c’erano regole alimentari che proibivano di mischiare latte e carne, ma non sapeva se il pollo era considerato carne. Non osava chiederlo a Sue e rischiare una lite, almeno finché non avesse ideato un piano. La mattina seguente avrebbe chiamato il suo psicologo, il dottor Birnbaum. Anzi, magari avrebbe cercato un rabbino. Chi altri poteva fargli da guida per questioni del genere?
E cosÃ, marrano dell’era moderna, Charles mangiò il pollo alla maniera dei gentili, pur essendo ebreo in fondo al cuore.
La mattina dopo, al lavoro, Charles si mise all’opera.
Prese le pagine gialle e saltò da una voce all’altra, seguendo le indicazioni «vedi» per tutto l’elenco telefonico. Piú di un numero alla voce «Sion» lo mise in contatto con una casa di riposo. «Redenzione» lo portò ancor piú fuori strada. Ripreso in mano l’elenco, trovò un’organizzazione che faceva paura da tanto sembrava adatta allo scopo. Il numero indicato, innanzitutto, era di Royal Hills, un quartiere pieno zeppo di ebrei.
Si trattava del Royal Hills Mystical Jewish Reclamation Center, ovvero, come diceva la voce registrata, del R-HMJRC, letto con una pausa dopo la R. Era una specie di centro direzionale del soprannaturale ebraico: premere 1 per orologio messianico; 2 per interpretazione dei sogni e consulenza; 3 per numerologia e 4 per calendario dei ritiri spirituali. Quel «e 4» lo fece disperare. Brutto segno. Nelle registrazioni a «e 4» non faceva mai seguito «e 5». Il messaggio, però, proseguiva. Un piccolo miracolo. – Per tutti i gilgulim, casi di possibile reincarnazione o recupero della memoria, si prega di contattare il Rabbino Zalman Meintz al numero seguente.
Charles riattaccò tutto contento. Ecco il motivo per cui si era trasferito a New York dall’Idaho tanti anni prima. Proprio per questo. Si poteva trovare qualsiasi cosa sulle pagine gialle di Manhattan. C’era tutto in quel libro spesso come un blocco di cemento.
Lo R-HMJRC aveva sede nel cuore di Royal Hills, in una bella brownstone1 ristrutturata dall’aspetto gotico. I gradini d’ingresso erano stati estesi per tutta l’ampiezza della costruzione, e ai primi due piani la facciata originale era stata sostituita da un arco di pietra, che sormontava una porta di vetro. L’atrio di marmo lasciò Charles a bocca aperta. C’è da fare dei bei soldi con il business di Dio, annotò mentalmente.
Andò cosÃ: in piedi in mezzo al pavimento di marmo, in un ambiente cosà freddo, l’unica cosa che gli era familiare era quel nuovo se stesso di cui sapeva cosà poco. E poi accadde ancora. Ping! Di nuovo, la consapevolezza.
Solo ieri conosceva bene tutta la sua vita. La teneva completamente sotto controllo, ci viveva comodo come fosse un vecchio maglione di lana. Oggi invece: Brooklyn, arco di pietra, marmo bianco.
– Da questa parte, di qua. Segua la mia voce. Venga verso la luce.
Charles salà le scale fino in cima ed entrò in quella che sembrava una soffitta, con il tetto spiovente, la polvere e tutte le cianfrusaglie che vanno a finire nei solai: qualche sedia, un cavallo a dondolo, mazze da croquet, scatole e scatoloni dappertutto. Dava l’impressione che gli avanzi della vita precedente del palazzo fossero stati tutti relegati là sopra.
– Alla sua destra c’è un passaggio. Si faccia strada, non è impossibile. Io sono arrivato fin qua –. Il discorso era sottolineato da una specie di risatina. Un gorgheggio gioioso, quasi quell’uomo balbettasse dalla felicità .
Il passaggio conduceva a uno spazio sgombro sul lato anteriore del palazzo, chiuso da un paravento orientale. Il rabbino sedeva in una poltrona di pelle davanti a un divano malandato, oggetti entrambi recuperati dal ciarpame che ingombrava la stanza.
– Zalman, – disse l’uomo, mentre balzava in piedi per stringere la mano a Charles. – Rabbino Zalman Meintz.
– Charles Luger, – si presentò lui, togliendosi il cappotto.
Il divano aveva conosciuto giorni migliori, ma era pulito. Non ne uscà lo sbuffo di polvere che Charles si aspettava sedendosi, ma non appena toccò la stoffa si sentà depresso. Ancora chintz. Fiori sbiaditi s’intrecciavano su tutto il tessuto.
– Ho appena traslocato, – disse Zalman. – Questo è uno spazio nuovo, molto piú grande. Come vede, però, non ho avuto il tempo di mettere ordine –. Indicò diversi oggetti, uno specchio, un mobiletto a vetri. – La prego di scusare... di perdonare la confusione, insomma. Ma avevo cose piú importanti da sistemare. Sono stato occupatissimo, negli ultimi tempi, davvero –. Quasi a dimostrazione di quanto diceva cominciò a suonare il telefono, in bilico sopra una casa di bambola. – Vede, – disse Zalman. Allungò la mano a spegnere la suoneria. – È cosà tutto il giorno, e anche di notte. Anzi, di notte è piú frequente.
L’ambiente non ispirava fiducia, ma Zalman sÃ. Avrà avuto poco piú di trent’anni, ma agli occhi di Charles sembrava proprio il tipico ebreo: lunga barba nera, abito nero, cappello nero al suo fianco, e un bel naso grosso e caricaturale come quello di Fagin2, ma piú simpatico.
– Allora, signor Luger. Cosa la conduce nella mia tana?
Charles non era ancora pronto a parlare. Rivolse la propria attenzione al dipinto di un paesaggio marino appeso alla parete. – È la Galilea?
– Oh, no –. Il Rabbino Meintz si mise a ridere, tornò a sedersi e accavallò le gambe. Per la prima volta Charles si accorse che indossava un paio di calzerotti di lana spessa e sandali di pelle scamosciata. – Quella è Bolinas. Prima bazzicavo da quelle parti.
– Bolinas? – disse Charles. – In California?
– Capisco la situazione. È chiarissima –. Chinandosi in avanti, Zalman mise una mano sul ginocchio di Charles. – Non sia timido, – disse. – È arrivato fin qui. Mi è venuto a cercare in un angolo luminoso di una soffitta di Brooklyn. Se un incontro come questo è stato deciso dall’alto, e cosà dev’essere viste le circostanze, allora sfruttiamolo meglio che possiamo.
– Sono ebreo, – disse Charles. Lo disse con tutta la forza, l’emozione e il sollievo delle grandi confessioni della vita. Silenzio. Zalman sorrideva, ascoltava attentamente e sembrava in attesa.
– SÃ, – disse, mantenendo quasi inalterato il sorriso. – E quindi?
– Da ieri, – disse Charles. – In taxi.
– Ah, – rispose Zalman. Poi aggiunse: – Ah! Ora capisco.
– Mi è appena capitato.
– Pazzesco, – disse Zalman. Batté le mani, alzando gli occhi al soffitto, e si mise a ridere. – È un miracolo.
– Incredibile, – aggiunse Charles.
– No! – disse Zalman, senza piú sorridere, con un dito levato davanti al viso di Charles. – No, non è incredibile. Quest...