2014, Confine di Gaza (lato israeliano).
Non ti riguarda mai direttamente. Né l’aggressione, né la rappresaglia. Né i tre ragazzi rapiti, senz’altro morti, né il bambino assassinato nella foresta, bruciato vivo.
Seduta su una sedia davanti alla tua casetta in affitto, aspetti immobile il clic del bollitore per l’acqua del tè. Sposti un piede, e una lucertola, vedendoti, assume il colore della sabbia.
Dall’altra parte del paese, i soldati avanzano tentoni fra le colline a sud di Hebron. Arrancano lenti, rivoltando le pietre a caccia di corpi. E laggiú, oltre la recinzione, gli abitanti della striscia di Gaza svuotano i mercati; aprono disciplinatamente i rubinetti, riempiendo secchi e bacinelle.
C’è ancora luce, è ancora chiaro. E tu sai che con il buio i missili usciranno sibilando dagli uliveti e dai nascondigli sui tetti, dai parcheggi degli ospedali e dai cassoni dei pick-up. Gli abitanti della costa si trasferiranno in città sicure sempre piú a nord, rispecchiando la portata dei missili.
E tu, tu rimarrai seduta a sorseggiare il tè, e a guardare l’arco descritto in cielo dalle code infuocate. Poi verranno le sirene, e lo scoppio e il lampo della controffensiva quando le batterie colpiranno il bersaglio. Il tuo alloggio è talmente vicino che il tuo unico timore è l’inettitudine, temi che i combattenti da una parte o dall’altra sparino troppo corto. Per ora questo rombo sordo e prolungato è solo il rumore delle due nazioni che si preparano all’inevitabile guerra.
Questa volta, come ogni altra volta, quando il conflitto comincerà sarà piú terribile di quello precedente. È sempre il peggiore, il piú violento, il meno contenuto, un’escalation costante. L’unica regola.
E dopo che l’invasione è partita? Impossibile sapere come, quando, o se il massacro avrà mai fine. Si sa solo che entrambe le parti si batteranno per la giustizia, uccidendosi a vicenda in nome di quelli appena uccisi, onorando i combattenti morti per vendicare coloro che, prima di loro, erano morti per vendicarne altri.
Per via di tutto questo, tu capisci che i tuoi pensieri sono riprovevoli. Le tue preoccupazioni irrilevanti, senza importanza.
È tuo, il figlio scomparso? Il bambino bruciato vivo? No. No, non lo è. E a meno che non sia tuo figlio il soldato addormentato lungo il confine accanto al suo carro armato, o il combattente col volto coperto, male armato e vulnerabile, che lancia i Qassam il cui fischio lacera la notte, ci aspettiamo che tu non stia a crogiolarti nel dolore. Prendi le tue insoddisfazioni quotidiane, le tue speranze deluse e le tue catastrofi private e sappi che dovresti vergognartene.
Tu naturalmente lo sai, e lo hai accettato. Almeno questo è ciò che ti dici, mentre un uccello di cui ignori il nome sfreccia basso accanto al tuo orecchio. Termina la planata e poi sbatte le ali.
Nel silenzio rotto dall’uccello, senti le penne frusciare l’una contro l’altra durante il volo: una meraviglia. Giri la testa per seguirne la traiettoria, riparandoti gli occhi dal sole.
Là seduta, davanti alla tua casetta, socchiudi gli occhi e rifletti sulla tua sbalorditiva stupidità , sulla tua implacabile ostinazione, sulla tua resistenza ad abbandonare il tuo unico e persistente desiderio.
Mentre l’acqua emette un percettibile gorgoglio e il bollitore fa clic, ti alzi in piedi, dicendo a te stessa: Tu non sei importante. Lascia andare, lascialo finalmente andare.
Ma l’ordine non attecchisce, e sembra proprio che persisterai nella tua impresa disperata. Finché non si presenterà l’occasione giusta, finché non riceverai il segnale segreto del tuo innamorato, tu, malgrado le infinite e minacciose incognite, non mollerai.
E in quell’inventario di silenziose capitolazioni che questa guerra – che ogni guerra – esige, hai deciso che c’è una perdita troppo grande per te. Un sacrificio che scopri di non essere disposta a compiere. È una privazione personale che non puoi tollerare, e che non permetterai piú. I soldati facciano pure i soldati, i civili portino pure i loro fardelli. Ma tu, tu semplicemente non ne vuoi sapere. Tu non accetterai il tuo cuore spezzato.
2014, Prigione segreta (deserto del Negev).
Anche se entrambi conoscono ogni millimetro della cella in cui si trovano, ogni graffio sul calcestruzzo, ogni puntino sulle piastrelle, il sorvegliante indica la telecamera fissata sopra la porta alle sue spalle, racchiusa nella cupola opaca a prova di manomissione, come quelle che si vedono nei casinò, con l’aspetto innocuo di una grande biglia di vetro.
C’è una telecamera identica sulla parete opposta, sopra la testata del lettino del prigioniero. Questa è puntata verso la porta di plexiglas che conduce al gabinetto e alla doccia, e inquadra anche la sottile mensola di metallo con i libri, le gomme americane e le riviste in inglese (troppo larghe per la mensola), un tesoro che rappresenta l’apice dei privilegi concessi dal sorvegliante al prigioniero nel corso degli anni.
Una terza telecamera è avvitata sopra la stretta finestra a feritoia, e osserva – da un punto di vista diverso – le altre due, che la osservano a loro volta. Di fronte alla finestra c’è la parete – l’unica senza uno strumento di vigilanza – a cui è addossato il letto. Il sorvegliante si è sempre chiesto se quella parete fosse rimasta sguarnita perché una quarta telecamera sarebbe stata un’esagerazione nell’esagerazione, visto che quella sulla parete della finestra, con la sua prospettiva a volo d’uccello inquadrata da un obiettivo a occhio di pesce, copre già da sola ogni angolo della cella. Con le altre due unità ogni movimento della vita del prigioniero è registrato in triplice copia, a eccezione di quello che succede in bagno – l’unico angolo cieco della telecamera sopra la porta –, che viene registrato solo due volte.
Registrato e contrassegnato con ora e data, con il numero della telecamera e il soprannome della cella, «Peach Pit», scelto dal sorvegliante per il semplice motivo che, quando lo avevano convocato per quel lavoro, era in casa a fumarsi una canna e stava leggendo i sottotitoli in ebraico di una replica di Beverly Hills 90210 con il volume al minimo.
Indicando quella telecamera, il sorvegliante spiega al prigioniero cosa vede quando la cella è completamente al buio, quando il prigioniero vorrebbe sentirsi solo con i suoi pensieri, quando vorrebbe essere circondato da una pura, autentica notte.
Per il prigioniero è uno shock, perché nei dodici anni della loro convivenza le telecamere, e lo sguardo del sorvegliante dietro di esse, sono sempre state l’unico argomento del tutto escluso dalle loro conversazioni indagatrici, inquisitorie, assolutamente interminabili.
Il prigioniero, in risposta, piega la testa e guarda il sorvegliante con aria incredula, perché sa che non si prenderebbe un simile disturbo per niente. E anche il sorvegliante sa alcune cose. Sa di non essere istruito come quello stronzetto affidato alla sua custodia, e sa di non essere particolarmente portato per le metafore, anche se in realtà sta cercando di usarne una allo scopo di addolcire la situazione, magari per fare un bilancio del tempo trascorso insieme che funzioni da ponte verso una notizia assai angosciante – angosciante anche per un americano senza nome, scomparso e confinato in una cella che ufficialmente non esiste.
Si tratta, cioè, di una brutta notizia con un certo mordente.
Nel comunicare la terribile notizia – una rivelazione della quale non ha nessuna colpa – il sorvegliante sarà anche costretto a riferire quelli che lui chiamerebbe fashlot1, e che il prigioniero chiamerebbe «circostanze attenuanti», che distorceranno la storia e faranno sfigurare lui, l’amico fidato – oltre che l’unico – del prigioniero. Questo potrebbe senz’altro mettere a rischio un rapporto al quale, in un modo decisamente affine alla sindrome di Stoccolma, entrambi tengono molto, un rapporto che il Prigioniero Z ama definire «alla Patty Hearst», un riferimento che il sorvegliante ha dovuto cercare.
A sua discolpa, per quanto riguarda la complicazione che non ha ancora confessato, si può dire che il sorvegliante ha sempre e solo cercato di proteggere il Prigioniero Z. Era la definizione letterale del suo lavoro: il nome della cosa era la cosa stessa. Ha sorvegliato il Prigioniero Z in piú modi di quanti il prigioniero possa capire.
Oh, ma come si era arrivati a questo! Il sorvegliante ricorda la prima volta che si è seduto davanti ai tre profondi monitor dall’involucro di plastica, accesi; il suo piccolo trittico personale installato davanti a lui, con il quale osservare il suo prigioniero segreto. Uno dei tre schermi era collocato al centro, mentre gli altri due, contigui, erano leggermente inclinati verso il sorvegliante, al quale ciascuno offriva un diverso e unico punto di vista monocromatico da cui osservare lo stesso identico nulla che succedeva nella cella. L’angolazione di quei monitor, e la sensazione della propria faccia illuminata dalla luce grigio-azzurra, gli facevano venire in mente il cartone argentato che sua madre si teneva sotto il mento quando prendeva il sole in riva al mare, sua madre che si lasciava cadere su una sdraio e si arrotolava le maniche, senza però togliersi la gonna castigata e i sandali ben allacciati intorno ai collant.
Era stata lei che, nel lontano 2002, gli aveva fatto il favore di intrappolarlo in quella situazione opprimente. Lui filtrava le chiamate di sua madre al cellulare, e rispondeva al telefono di casa – cioè, al telefono che le apparteneva, quello per cui lei pagava le bollette – solo dopo averla ascoltata urlare ripetutamente nella segreteria telefonica che lei si rifiutava di accantonare, anche se lui l’aveva implorata di passare alla casella vocale come tutti gli altri.
Non lo aveva chiamato durante una replica di 90210, ma nel bel mezzo di un programma che gli seccava dover interrompere. Stava giocando da casa alla versione britannica dell’Anello debole, un gioco nel quale eccelleva, anche se ogni tanto veniva preso in contropiede dalle domande piú facili e banali, quelle che riguardavano cose tipicamente britanniche, che gli davano l’amara sensazione di essere inevitabilmente – per l’ingiustizia della geografia e la sventura di essere nato nel culo del Levante – destinato a sbagliare.
L’immeritata fortuna altrui lo colpiva anche durante l’altro suo program...