Emone
eBook - ePub

Emone

La traggedia de Antigone seconno lo cunto de lo innamorato

  1. 72 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Emone

La traggedia de Antigone seconno lo cunto de lo innamorato

Informazioni su questo libro

Antonio Piccolo ci ripropone il mito di Antigone da un punto di vista che non era mai stato considerato: quello di Emone, figlio di Creonte e promesso sposo dell'eroina sofoclea. Con alcune varianti che riguardano, tra l'altro, i rapporti tra Ismene, la sorella di Antigone, e lo stesso Emone. Questa originale rappresentazione del mito è un testo che attraversa tutti i generi teatrali, dalla commedia alla farsa, alla tragedia, sul ritmo di un fantasioso e affascinante dialetto napoletano che mescola alto e basso, registri letterari e popolari, lirismo e comicità. Il mito rivive cosí nella sua sostanza piú autentica, specchio antico e rinnovato per parlare allo spettatore di oggi d'amore, di politica, di rapporti tra padri e figli. Un testo che sfida i parametri consueti del teatro contemporaneo riuscendo a sorprendere, divertire e commuovere.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2018
Print ISBN
9788806237196
eBook ISBN
9788858427903
Argomento
Letteratura
Categoria
Teatro

PROLOGO – SCENA 1

Emone.
Nel buio, si sentono rumori di casa abbandonata, ma abitata da ombre: porte che sbattono, mobili che scricchiolano, passi di bambini che corrono per giocare.
Con la luce che sale, salgono anche – nella semioscurità – voci di altri tempi che si invocano le une con le altre e si accavallano: madri che chiamano i figli per andare a fare il bagno; zii che chiamano i nipoti a tavola; piccoli che chiedono l’aiuto dei grandi. Sono gli urli sereni e concreti di una quotidiana vita di casa:
– Antigone!
– Emone, viene!
– Ismene? Curre!
– Edipo? Donde staie?
– Giocasta?
– Polinice? Eteocle? Fernítela!
– Creonte?
– Sta venenno Tiresia!
Da questo concerto di voci lontane, esce lievemente Emone, che traccia con la sabbia il perimetro entro il quale rievocherà il racconto che sta per cominciare. Mentre esegue l’azione, canta sommesso note cariche di nostalgia.
Altrove.
EMONE (parlato)
«Lo miedeco de li signure e de li puverielle». Chesto io responneva ogne vota che uno chiú gruosso me faceva la sòleta demanna: «Che vulissi fàcere quando te farrai gruosso anco tu?» E io: «Lo miedeco de li signure e de li puverielle», come stevo a dícere. Ah ah ah, tutto no gran ridere, tutti a tenérese la panza. (Impersonando i grandi) «Vedítelo, vedítelo! Emone! È no segnore e vole travagliare! Ah ah ah! Eh, vedarrai, vedarrai... quando te sarai fatto gruosso puro tu, te levarrai chisti penzieri da lo capo e farrai come a li autri de la famiglia tua. La quale è la famiglia reale, na famiglia sí importante, sí illustre, la chiú illustre de Tebe: nientemeno che la stirpe de Laio, li Làbdaci, da cui nascette lo fammuso Edipo – chillo savio omo che addivinaie lo misteriuso enigma de la Sfinge; chillo annegrecato che senza saperlo accidette lo patre e facette all’ammore con la matre; chillo povero cristo che per la desperazione se facette orbo da tutti e due li uocchie! Sí, una famiglia de putere, con la corona sobre a lo capo, con la facortà de comannare, de dare feste a lo palazzo, de mettere e togliere gabelle, de fàcere bandi, de fàcere gare de’ cavalieri... bella famiglia la tua, che doppo lo orbo Edipo, facette nascere anco li doi frati, Eteocle e Polinice, li frate-cucine tuoi che facettero la guerra civile, facettero accidere no sacco de cristiani de la nostra cetate, e a lo finale se scannarono l’uno con l’autro...»
(Ironico) «Mmmhh... bella famiglia chesta mea! Non me pare mica tanto bona!», penzava io peccerillo. «Sarraggio pure de la stirpe reale, ma se chesta è la sorte che ci attocca a tutti chilli con lo sanghe de Edipo, meglio che me metto a travagliare, no?» E ci avevo raggione. Mai s’era visto tanto lustro accompagnarse a tanta scalogna: incesti, muorti accisi, orbi, guerre famigliari, guerre civili... per non parlare de la peste! Eh, sí! Li dèi c’avevano messo el carrico da unnici con chisto marditto malanno, cosí che oltre a li muorti de le battaje, ora ce stéveno anco li cataveri fetusi de lo morbo divino. Lo quale morbo era la causa de la mea, diciamo cosí, vocaziona. La vocaziona de fàcere lo miedeco, voglio dícere. Accossí bella era la cetate mea, la patria mea: se vedeva lo mare da sopra a lo monte, co’ no clima mite che pareva che ce fosse sempre la bella stagione, co’ no sole che tutti li poeti lo cantavano, donde se parlava na lengua sfiziosa che pareva múseca... accossí bella ’nzomma, che io non poteva sopportare tutte li delure e le desgrazie che ce capitavano, e voleva essere l’artefice de la sua guarigione, de lo suo rinascimento!
No juorno che ce steva na calura che non prometteva niente de bono, venette da me Creonte, lo patre meo, a me dícere: «Figlio meo, ascolta chesta novella che cangierà l’avvenire nuostro, la vita tua e la vita de tutta Tebe. Oje me ‘anno eleggiuto: songo lo novo rre de Tebe. E chesto vene a dícere che tu si’ lo novo prèncepe e che no juorno sarrai tu lo rre. Appriesso a chesto, annàsola anco chesta desposizione mea: te spusarrai con tua cucina carnale Antigone. E chesto è tutto».
Che granna notizia! Che granna occasione! L’uocchie me sperluccicàieno súbbeto. Allora era accossí che doveva annare: era accossí che Emone gruosso averría fatto cuntento a Emone peccerillo. Eh sí, voi diciarrete: «Si tiene che fàcere lo prèncepe, non puote fàcere lo miedeco». Ma per me s’era schiarata la luce: chella peste che li dèi ce avevano mannato non era sulo lo morbo de lo cuorpo; chella peste era lo morbo de lo spíreto, de tutti li tebane, che se dovevano levare l’ausanza de se sciarrare e de fàcere guerra l’uni con l’autri.
Io e mea sora-cucina Antigone no juorno sarríamo stati rre e reggina. E lo nostro regno sarría stato lo regno de lo rinascimento. «Allora sarraggio Emone, lo Rre Miedeco de li signure e de li puverielle». Miedeco de lo spíreto, se capisce.
Entrando nel perimetro che ha tracciato, Emone dà inizio alla rievocazione.

SCENA 2

Ismene, poi Emone.
Tebe, soglia della porta di casa di Ismene.
Notte.
ISMENE (con voce trattenuta, rivolta ad Antigone, che non vediamo)
Antigone! Antigone! Aspietta ancora no momento, non te ne ire accossí! Donde te curri, sora mea? No momento sulo! Raggionammo ancora ’nzieme: te posso dare na mano io, si tiene no poco de pacienza. No, no, non súbbeto, attiende dimane ancora e verraggio con te! No? Tiene prescia? «Non è cosa che se possa ancora remannare»? Aspietta, aspietta... (Antigone si allontana e se ne va) Ma come, me lassi ’ngoppo a la porta de casa, sola come a na bestia... e fai come vuo’ tu, marditta capatosta, tiene propio lo sanghe de li Làbdaci, sempre a la cerca de le venture e de le desgrazie! Vuiautri non potite fàcere le cose regulari, tenite sempre golío de scetare lo cane che reposa... e curre curre, tanto tengo l’abbetudene de remmanere sola... chiú ce penzo e chiú me persuado che sarraggio stata adottata, come facette lo pate nuostro Edipo, che però non lo sapiva e perciò se ne sagliette verso Tebe... e quanto averría fatto meglio a non venire! (Ci pensa su e gradualmente realizza) Certo, non sarría nata Antigone... e non sarríano nati Eteocle e Polinice... e nemmanco io, mò che ce penzo... quan...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Avvertenza dell’autore
  4. Ringraziamenti
  5. Emone
  6. Prologo – Scena 1
  7. Scena 2
  8. Scena 3
  9. Intermezzo – Scena 4
  10. Scena 5
  11. Scena 6
  12. Scena 7
  13. Epilogo – Scena 8
  14. Il libro
  15. L’autore
  16. Copyright