Una ragazza semplice
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Una ragazza semplice

  1. 112 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Una ragazza semplice

Informazioni su questo libro

I tre racconti di questa raccolta immortalano personaggi lanciati alla frenetica rincorsa di una felicità che non li aspetta, costretti a subire le contraddizioni di una società che si reinventa costantemente lasciando indietro chiunque non riesca a tenere il passo. Arthur Miller, con la sensibilità del grande drammaturgo, rivela i conflitti psicologici e morali che si agitano nelle profondità di animi all'apparenza trasparenti, e conduce un'amara riflessione sulla futilità del sogno americano. Janice, nel racconto che dà il titolo alla raccolta, odia il proprio aspetto da quando era bambina e la madre le mostrava con rammarico le modelle nelle pubblicità. La sua vita cambia il giorno in cui un amore imprevisto le fa capire che la vera bellezza è nascosta sotto la pelle. Un incontro casuale con un vecchio compagno del college conferma a Meyer Berkowitz, protagonista di Fama, la verità che in fondo ha sempre saputo: non è sufficiente essere il Re di Broadway e vedere il proprio volto sulle copertine patinate per raggiungere l'autentica felicità. La manciata di ore in cui si svolge La notte del carpentiere racchiude il senso dell'intera esistenza di Tony, immigrato calabrese di seconda generazione, amareggiato e sconfitto dalla vita. Sul gelido ponte di un cacciatorpediniere sferzato dal vento di New York, Tony sperimenta il calore della redenzione per un breve istante luminoso.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2018
Print ISBN
9788806212476
eBook ISBN
9788858428146

La notte del carpentiere

D’inverno alle quattro del pomeriggio faceva già quasi buio, e quel gennaio era uno dei piú freddi mai registrati, per cui gli uomini del turno di notte s’infilarono nei tornelli del cantiere della Marina con aria cupa, stringendosi nei giacconi con la lampo, tirandosi giú i paraorecchie e ballonzolando da un piede all’altro mentre le guardie controllavano i portapranzo di alluminio, uno alla volta, e confrontavano le fotografie dei documenti d’identità con le facce dagli occhi socchiusi e dai nasi bluastri che si presentavano all’ingresso. Ex garzoni di drogheria, commessi viaggiatori, disoccupati, studenti e giovani misteriosamente non idonei all’Esercito e alla Marina; vecchi macchinisti esperti tornati in servizio dopo la pensione, ex camionisti, addetti agli ascensori, muratori, avvocati radiati dall’albo e qualche aspirante poeta si riversavano fuori dagli autobus nella luce azzurra del tardo pomeriggio e aspettavano il proprio turno in fondo alle file che conducevano alle garitte dai marinai sbarbati di fresco. I marinai si rifiutavano di ricambiare le loro battute e, ligi al dovere, cercavano la bomba o la matita esplosiva nascoste sotto i sandwich di pomodoro e lattuga che inumidivano la carta oleata in cui erano avvolti, e poi, senza nessun motivo, svitavano il tappo dei thermos per sbirciare il caffè. Con quasi diecimila uomini in arrivo per ciascuno dei tre turni, era naturale che entrassero in gioco le leggi della probabilità, e ogni pochi minuti qualcuno rimetteva il thermos nel portavivande dicendo inevitabilmente: «Ma cos’ha Roosevelt contro il caffè?», al che i militari ammiccavano e con un gesto invitavano lo spiritoso a entrare nel cantiere.
Gli ingegneri, i tecnici, il caposcalo e i suoi collaboratori non trovavano difficile descrivere il Cantiere navale della Marina di New York; in effetti era cambiato ben poco dalla sua apertura all’inizio dell’Ottocento. Dietro gli ampi bacini di carenaggio affacciati sulla baia si estendeva un labirinto di strade tortuose e serpeggianti, lungo le quali si allineavano edifici in mattoni a un solo piano adibiti a officine e magazzini. Nei bui uffici vittoriani si smistavano ancora i documenti infilzandoli su aguzze punte d’acciaio e gli schedari erano rimasti quelli di quercia scura. Nessuna nave da guerra era esattamente uguale all’altra, checché se ne dicesse, e il fabbro si piazzava tuttora su una porta a martellare pezzi unici di ferro, con le scintille che gli piovevano sul grembiule di protezione lungo fino a terra; le piastre di prua in acciaio continuavano a essere misurate a occhio, senza badare alle curve tracciate con cura sui disegni, e in caso d’infortunio era una carriola a due ruote a sballottare il ferito sull’acciottolato, come un quarto di bue, lungo il tragitto verso l’infermeria.
Di sicuro esisteva qualcuno che sapeva dove si trovava ogni cosa, e questa fede veniva abbracciata da tutti i novellini. L’aiuto carpentiere, l’addetto al taglio con il cannello, il fresatore, il saldatore; verniciatori, maestri d’ascia, attrezzatori, trapanatori, elettricisti a centinaia potevano passare la prima ora di ogni turno chiedendo a uno sconosciuto dopo l’altro dove dovevano presentarsi o in quale bacino di carenaggio fossero finiti il cacciatorpediniere o la portaerei sui quali avevano lavorato la notte precedente; e non pochi trascorrevano tutte le dodici ore di servizio a cercare la propria squadra, eppure la loro fede non vacillava mai. Qualcuno doveva pur avere il controllo di ciò che stava succedendo, se non altro perché in effetti le navi danneggiate arrancavano fin lí a traino dai diversi oceani, e poi, dopo giorni, settimane e talora mesi, riuscivano davvero a dirigersi un’altra volta in mare passando sotto il ponte di Brooklyn, di nuovo pronte ad affrontare il nemico. Naturalmente c’era un piccolo numero di persone riflessive che nell’assistere a tali partenze baldanzose scuotevano il capo meravigliate di fronte al mistero della riparazione di quelle navi, ma la grande maggioranza accettava la cosa senza porsi domande e arrivava addirittura ad attribuirsene in qualche modo il merito. Era come una partita di baseball con cinquecento uomini che giocavano contemporaneamente sul campo esterno e si precipitavano in massa verso la traiettoria arcuata della palla alta nell’aria, poi afferrata chissà dove da qualcuno in mezzo alla folla, senza che nessuno sapesse chi, con l’unica certezza che l’incontro procedeva adagio e in maniera alquanto incredibile verso la vittoria.
Tony Calabrese, carpentiere navale di prima classe, rientrava in quella manciata di uomini che sapevano dove presentarsi una volta superati i tornelli alle quattro del pomeriggio. Nella «vita reale», come si diceva, faceva l’installatore di impianti di riscaldamento a Brooklyn e non si lasciava confondere dalla calca, dai marinai che gli controllavano i panini o dalle attese interminabili, un fatto normale in un cantiere. Oltrepassato l’ingresso, il portapranzo di nuovo sotto il braccio e il berretto sulle ventitre, affrontava il vento a testa bassa col suo naso rotto, avvertendo chi gli veniva incontro di togliersi di mezzo, ben caldo nel giaccone di fustagno chiuso dalla lampo e nella camicia di lana, appoggiando i piedi di lato come un orso, le gambe storte, il cavallo basso; esperto costruttore di grattacieli e manutentore di macchinari per la produzione di birra, aveva lavorato per otto mesi alle dipendenze dell’acquedotto municipale, finché non si era scoperto che mandava un altro a sostituirlo martedí, mercoledí e venerdí mentre lui era alle corse a rimediare un po’ di quattrini.
Fino a un anno e mezzo prima, Tony non aveva mai visto da vicino una nave, e la nautica non gli interessava piú di quanto lo attirassero i rifornimenti idrici, la fabbricazione della birra o i grattacieli. Il lavoro era una iattura, una sfortuna che un uomo sposato doveva sopportare, come la mancanza dell’incisivo, spaccato durante uno screzio con un allibratore. Cosa fosse la bella vita non era certo un mistero, e Tony non aveva passato un giorno senza pensarci, perdendo sempre piú le speranze adesso che aveva superato i quaranta; significava essere come Sinatra o come Luciano, o anche come uno dei politici del quartiere, sempre ben vestiti, mai costretti a piegare la schiena, padroni di due appartamenti, uno per la famiglia e uno per l’amichetta del momento. Lui aveva dedicato la giovinezza a sforzarsi di arrivare a quel genere di vita, senza riuscirci. Guidare i camion del contrabbando di liquori oltre il confine canadese, fare addirittura lo sgherro di Johnny Peaches per un periodo e trascorrere due mesi a raccogliere il pizzo dagli scaricatori di porto per conto di un boss locale lo avevano portato a un soffio dalla meta, dalla conquista di una posizione di potere che gli avrebbe permesso di rifugiarsi in un ufficio o in un alloggio e di lavorare col telefono o seduto ai tavoli dei ristoranti. Ma all’ultimo momento qualcosa nei suoi piani era sempre andato storto, mandandolo a ruzzolare di nuovo sulla strada e condannandolo a un impiego e a un salario, con il futuro ridotto al solito trantran che non gli avrebbe mai procurato la ricchezza. Non era abbastanza in gamba, tutto qui, e lo sapeva. Se lo fosse stato, non sarebbe finito a lavorare lí, al cantiere della Marina.
Aveva la faccia tonda come una padella bucata, una faccia ridicola con quel naso ormai appiattito, il dente perduto e il collo inesistente. La prima classe ottenuta nel giro di un anno e mezzo dipendeva in parte dal fatto che il suo supervisore, il vecchio Charley Mudd, apprezzava che Tony gli fornisse ogni tanto il numero di telefono giusto, e in parte dalla sua rapidità e bravura nel leggere un progetto, nel saldare, fresare, tagliare con il cannello e assemblare i pezzi necessari per concludere un lavoro quando, come capitava occasionalmente, Charley Mudd doveva rimandare una nave in battaglia. In quanto carpentiere esperto, gli affidavano spesso incarichi complessi e difficili e aveva la facoltà di convocare qualsiasi specialista gli occorresse per saldare o tagliare col cannello ai suoi comandi. Ma la posizione raggiunta non lo impressionava granché, visto che a Sinatra bastava aprire la bocca per intascare mille dollari. La cosa piú importante era che l’intesa con Charley Mudd gli permetteva di lavorare sottocoperta con il freddo, e sui ponti con il cielo sereno. Se non stava bene, poteva fare un cenno a Charley e sparire per il resto della notte in un angolino buio dove farsi una bella dormita. Ma il piú delle volte il suo lavoro gli piaceva, soprattutto quando «carpentieri navali» incapaci di misurare un angolo retto o di eseguire rilevamenti con una precisione superiore al centimetro gli chiedevano di portare a termine qualche operazione. Il suo modo consueto di impartire istruzioni era sempre lo stesso e chiunque gli chiedesse aiuto doveva aspettarselo. Tony srotolava il progetto, indicava una linea o una cifra e con la voce arrochita dai fondi delle bottiglie di vino e dai sigari italiani che aspirava, esordiva: «Stai bene attento, testa di cazzo». Nessuno si appellava a lui se non era disposto a tollerare un tale affronto, e chi gli si rivolgeva sapeva in anticipo di essere condannato a perdere qualsiasi pretesa cui ritenesse di avere diritto.
Ma in Tony c’era un altro aspetto, che emergeva durante le attese. Prima di Pearl Harbor, al cantiere lavoravano circa seimila uomini, mentre adesso ce n’erano quasi sessantamila. Com’è naturale, a volte capitava che si concentrasse in un singolo settore un numero inimmaginabile di persone, e le riparazioni, che andavano eseguite con un ordine ben preciso, impedivano alla maggior parte di loro di svolgere il proprio compito, e a tutti quanti di allontanarsi. E cosí cominciava l’attesa; magari il saldatore non poteva saldare finché il fresatore non aveva finito di eliminare la vecchia saldatura, e perciò aspettava insieme all’aiutante o al collega. L’addetto al cannello non poteva tagliare l’acciaio finché non si faceva portare il tubo di scarico dall’assistente, il quale non poteva procurarsene uno finché un altro addetto al cannello non aveva terminato di usarlo, e dunque si ritrovava anche lui costretto ad attendere; il trapanatore non poteva forare finché la punta del trapano non veniva piantata nell’acciaio dal carpentiere, che non aveva il permesso di sistemarcela se gli elettricisti non avevano rimosso i cavi dal lato opposto della paratia da bucare, per cui si mettevano entrambi ad aspettare; tanto che a volte l’unica via d’uscita era una partita a dadi oppure Tony che «intratteneva» tutti con le sue imitazioni, o con gli insulti di cui tempestava il malcapitato di turno, o con quel sorriso sdentato che faceva sganasciare dalle risate l’intera combriccola. Dopo tali spassosi siparietti, Tony si lasciava sempre prendere dalla depressione, ripensando per l’ennesima volta al proprio fallimento nella vita reale, alla severa dignità che gli mancava, all’attitudine al comando e alla forza che non aveva. Luciano non si sarebbe certo abbassato a fare il pagliaccio su un incrociatore, mostrando a tutti quanto potesse sembrare idiota con un dente di meno in bocca.
In quel pomeriggio di gennaio, già cosí buio e con il vento che gli pungeva gli occhi, mentre percorreva le vecchie strade del cantiere, Tony Calabrese decise che avrebbe passato la notte a lavorare sottocoperta, poco ma sicuro. Persino lí, nelle vie riparate, il vento era insopportabile: chissà come sarebbe stato su uno dei ponti principali aperti verso la baia. Per di piú non voleva stancarsi durante quel turno in particolare, visto che aveva un appuntamento alle quattro e mezzo del mattino. Ripercorse mentalmente il programma dell’indomani: Dora l’avrebbe raggiunto da Baldy per colazione; entro le sei sarebbe andato a casa a cambiarsi e fare una doccia; caffè insieme ai figli alle sette, prima che andassero a scuola, quindi magari un sonnellino fino alle nove o alle nove e mezzo, dopo di che sarebbe passato a prendere Dora in tempo per lo spettacolo delle dieci al Fox; a mezzogiorno in camera di Dora, bang-bang, e una bella dormita fino alle due e mezzo, tre, al momento di tornare a casa per mettersi gli abiti da lavoro e forse vedere i ragazzi se erano rientrati presto, per poi prendere la metropolitana e ripresentarsi al cantiere. Aveva di fronte una giornata buona, priva di complicazioni.
Sbucando dal fondo della strada, vide le stelle fredde sospese sul porto, il cielo immenso che sovrastava la baia e si allargava verso il mare. Grappoli di fari percorrevano il ponte di Brooklyn, il traffico sempre piú intenso di chi rincasava dal lavoro senza sapere che lí sotto c’erano il cantiere e le navi danneggiate dalla guerra. Tony aggirò con cautela le pile di lastre d’acciaio e i materiali coperti di cerata ammucchiati ovunque, e per un attimo si ritrovò nel violento bagliore bianco della lampada ad arco puntata verso il basso dalla cima di una gru; lentamente, palmo dopo palmo, il macchinario scivolava lungo le rotaie, alto come un palazzo di quattro piani su due gambe divaricate, protendendo contro le stelle l’unico braccio da cui penzolava il fioco bagliore di una lastra d’acciaio grossa quanto un autobus. A guidare la gru c’era un carpentiere poco piú alto delle ruote, che camminava all’indietro tra i binari e puntava verso destra nel candore incandescente di quell’unico occhio. Quasi fosse dotata di intelligenza, la gru fece ruotare docilmente il grande braccio, calando la lastra oscillante verso il punto indicato dal carpentiere, la cui faccia appariva indistinguibile a Tony nell’ombra del cappello che la riparava dal diluvio di luce dell’alto occhio bianco. Tenendosi alla larga, Tony girò intorno alla lastra che scendeva, non fidandosi di cavi e gruisti, e s’infilò di nuovo nelle tenebre per raggiungere l’incrociatore messo in secco piú avanti, issato nel bacino di carenaggio, la prua incurvata sopra la strada che lui stava percorrendo con le labbra strette per proteggersi i denti dal vento. Dopo aver svoltato, avanzò seguendo la lunghezza della nave, a testa bassa contro l’impetuoso fiume d’aria fredda, dando il benvenuto ai gruppetti di uomini che arrivavano battendo i piedi e salivano a bordo lungo la passerella: i lavoratori del nuovo turno, i cui saluti occasionali suonavano ancora vivaci in quelle prime ore della sera. Tony barcollò sulla passerella instabile fino al ponte principale, rivolgendo solo un cenno, mentre lo superava, al giovane tenente con il bavero alzato che batteva le mani guantate l’una contro l’altra nella minuscola garitta provvisoria in fondo alla plancia d’imbarco. Aleggiavano nell’aria gli odori allegri dell’acciaio arroventato e del caffè, la rude asprezza della Marina e la sensazione di entrare in un alveare, mentre Tony scendeva una scala ripida, ingombra per l’intera lunghezza di neri cavi da saldatore e di tubi di scarico da dieci centimetri, l’intestino temporaneo che seguiva sempre le squadre di riparazione nel ventre comprensivo delle navi.
Il suo aiutante, Looey Baldu (Tony non riusciva a capire dove un italiano avesse recuperato quel cognome, che, se non era un diminutivo, puzzava di iugoslavo lontano un miglio), lo stava già aspettando nel corridoio: ventitre anni, contegnoso e con una certa aria di superiorità per aver frequentato il liceo, i piedi infilati nelle scarpe regolamentari dalle punte d’acciaio che Tony si rifiutava categoricamente di mettersi, gli rivolse il suo saluto deciso, ma sulla difensiva.
– Charley Mudd dov’è?
– Non l’ho ancora visto.
– Sei cieco? Eccolo là.
Tony aggirò lo stupefatto Baldu e si diresse verso il settore in cui Charley Mudd, sessantenne e mezzo addormentato, sedeva su tre rotoli di cavo elettrico, gli occhi chiusi e il portablocco che cominciava a scivolargli via dalle mani semiaperte. Tony toccò la schiena del vecchio e si chinò a parlargli sottovoce per organizzare la faccenda. Charley annuí, alzando gli occhi al cielo. Tony gli batté la mano sulla spalla con gratitudine e uscí nel corridoio pieno di uomini che tentavano di superarsi andando in direzioni opposte e si trascinavano dietro tubi, cavi e scale interminabili insieme a voluminose cassette per gli attrezzi, tutti in cerca di qualcun altro, per cui Tony fu costretto ad alzare la voce per chiamare Baldu. Parlava sempre con riguardo a quel diplomato di scuola superiore che, anche se non capiva mai alla prima, era un bravo ragazzo, nonostante, come diceva lui stesso, sua moglie fosse ebrea. Baldu era contro i pregiudizi razziali, qualunque cosa significasse quella maledetta espressione, e si accigliava come un giudice quando qualcuno gli rivolgeva la parola, quasi avesse appeso davanti alla faccia una specie d...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Una ragazza semplice
  4. Una ragazza semplice: una vita
  5. Fama
  6. La notte del carpentiere
  7. Il libro
  8. L’autore
  9. Dello stesso autore
  10. Copyright