– È morto un altro squasc.
Nel canale tutti si voltarono: quelli che stavano pescando smisero, la donna grassa che bagnava le piante posò l’innaffiatoio e l’omone vestito di blu con la testa circondata di lucciole smontò dalla bicicletta per correre a vedere. Il vecchio avanzava nel sottomondo, la gamba sinistra disegnava una specie di ricciolo come se camminasse su piedi non suoi. Sollevò le mani per mostrare quello che aveva raccolto. Era una bestiola pelosa simile a uno scoiattolo, ma con il muso umano e un sorriso triste sulle labbra. Una ferita gli sporcava il petto di sangue. Le teste si radunarono a corolla per osservarlo.
– Chi è stato? – chiese la donna con l’innaffiatoio.
– Un ratto, credo, – rispose il vecchio, guardando l’acqua scura che scorreva oltre il bordo della banchina.
– Questa settimana è il quarto, – disse il gigante in tuta blu.
Il vecchio annuÃ, poi chiuse le palpebre.
Quando le riaprà i suoi occhi si accesero.
– È la Malamorte, – disse. – Rallenta gli squasc e affama i topi.
– Se continua cosÃ, tra un anno gli squasc si saranno estinti, – disse un pescatore.
– Se continua cosÃ, – sussurrò il vecchio, – ci estingueremo noi e morirà la città .
Si sentirono altri passi. Da una porta laterale entrarono due tizi in camice bianco. Si tolsero le maschere antigas. Avevano gli occhi arrossati. Il primo era grasso con i capelli biondi, il secondo piú piccolo con il naso bitorzoluto.
– Sono arrivate le analisi della Malamorte, – disse quello mingherlino.
Il grasso intervenne: – Il fango è pieno di idrocarburi e diossine, cobalto e cromo.
Il magro riprese la parola: – E nell’aria abbiamo rilevato quantità abnormi di idrossido di potassio, anidride carbonica, aspartame, iprite. C’è una puzza da svenire, di marcio, è una cosa da piangere.
– Quindi sono gas lacrimogeni? – chiese la donna.
– Non solo, – abbassò la voce l’uomo piccolo. – Ci sono anche gas blu, gas delle paludi e gas remoti.
– E il gas cavernoso? – domandò l’omone in tuta.
Il chimico confermò: – Ci sono tutti, nessuno escluso.
Il vecchio si strinse al petto lo squasc e incominciò ad accarezzarlo come se le sue mani potessero ridargli la vita.
– Lo conoscevo, questo squasc, era un tipo spiritoso.
Puntò gli occhi grigi sul viso della bestiola, passando l’indice tra i peli arruffati e le orecchie rotonde. Amava gli squasc, erano suoi amici. Quei piccoli mammiferi ovaioli, un tempo diffusi vicino agli stagni, lungo il corso dei fiumi e nel folto dei boschi intorno a Milano si erano adattati a un’esistenza sotterranea per sopravvivere, proprio come aveva fatto lui e tutti quelli che erano scesi. La donna sfiorò la mano del vecchio e disse: – Senza squasc non ci saranno piú sorprese.
– Le sorprese non sono il problema, Agata Smeralda.
Il gigante vestito di blu dietro di lei sospirò. Ogni inverno gli squasc deponevano le uova, che si aprivano in primavera, il giorno di Pasqua. In quelle che rimanevano chiuse c’era sempre una sorpresa, qualcosa che lo squasc aveva inghiottito senza masticare perché fosse ritrovato. Poteva essere un lecca-lecca, un papavero, un anellino d’oro o un braccialetto di macramè. Una volta ci avevano trovato un uovo minuscolo, di passerotto.
Ma adesso le sorprese erano finite. Lo squasc giaceva esanime, come un peluche spelacchiato.
Il vecchio si passò le dita sulle palpebre. Gli altri lo osservavano senza parlare, aspettando che dicesse quello che sapevano già .
– È come quando ero bambino, – sussurrò. – La Malamorte si è risvegliata.
Alle sette e dieci di mattina Otto era seduto sul water a osservarsi i piedi. Stavano là sul pavimento ed era certissimo che gli fossero cresciuti durante la notte. Ormai avevano quasi raggiunto la lunghezza della piastrella, ancora due millimetri e non calpestare le fughe gli sarebbe stato impossibile. Era una delle sue scaramanzie. Doveva escogitarne in fretta un’altra, ma non aveva tempo, doveva andare a scuola. Sua madre lo chiamava dal piano di sopra.
– Sbrigati, Otto, se no fai tardi.
– Adesso arrivo, mamma.
Stava per alzarsi quando si accorse che non era il caso. Spinse e sentà plof. La questione della cacca lo appassionava fin da piccolo. Suscitava un sacco di domande:
- La cacca è una cosa inanimata come i sassi oppure è viva come il legno?
- Qualcuno è mai riuscito a fare la cacca senza fare la pip�
- Da che cosa dipende l’odore?
- Da cosa dipende la forma?
- Le persone piú grandi la fanno piú grande?
- I neonati la fanno piú nuova?
- Perché le cose da mangiare sono di tanti colori, mentre la cacca è soltanto marrone?
- Le persone con la pelle piú scura fanno la cacca piú scura? Le persone albine la fanno bianca?
- Quanti chili ne aveva fatta, lui, in vita sua?
Per calcolarlo si pesava prima e dopo, e cosà era giunto alla conclusione che ne faceva circa centocinquanta grammi al giorno, cioè quasi cinquantacinque chili all’anno che, moltiplicati per gli undici anni e mezzo della sua vita, facevano sei quintali e trecento, una bella montagna, e se avesse vissuto novant’anni sarebbero diventati 4,9 tonnellate, che era il peso di un mammut di medie dimensioni. Si complimentò con sé stesso per la precisione e attese cinque secondi per assicurarsi di avere finito, poi portò la mano destra sopra la spalla sinistra, schiacciò il pulsante dello scarico e sentà fresco al sedere: un milione di minuscole gocce rimbalzanti dalla ceramica gli bagnarono la pelle. Il rumore dello sciacquone gli fece visualizzare cascate di liquidi – cacca, pipÃ, acque schiumose di dentifrici e shampoo – che in quell’esatto momento, come ogni mattina, si stavano riversando attraverso i tubi di scarico nascosti dentro i muri e scivolavano giú, fino a infiltrarsi sotto le strade. Formulò la decima domanda:
10. Dove va a finire la cacca delle città ?
Per un istante nel suo cervello si formò l’immagine di un mammut interamente composto di cacca: il Caccut risaliva al galoppo corso di Porta Venezia lanciando schizzi sulle vetrine di Dolce&Gabbana, attraversava scalpitando piazza della Scala prima di scapicollarsi in corso Vittorio Emanuele a terrorizzare i clienti di Gap, Zara e H&M, e le mamme e i bambini rinchiusi al Disney Store, ma al Caccut non interessava niente, voleva soltanto raggiungere il Duomo per grattarsi, strusciandosi, contro il marmo rosa di Candoglia. La scena lo fece sorridere. Si era alzato. La mamma stava scendendo le scale. Corse a nascondersi dietro la porta della sua camera. Da piccolo si nascondeva sempre quando lei veniva a cercarlo. Gli piaceva molto farsi trovare. Trattenne il respiro. La osservò dirigersi verso il letto, scostare le tende per controllare e gli venne da ridere. La mamma lo udà e si girò. Aveva la faccia seccata, ma si vedeva che sotto sotto rideva anche lei.
– E basta, Otto! Non posso giocare a nascondino. Devo andare al lavoro.
Otto venne fuori e si mise a preparare lo zaino. Era il penultimo giorno di scuola, ma i libri bisognava portarli lo stesso. Mancavano solo il manuale di Storia e i due di Tedesco – la mamma ci teneva che studiasse tedesco –, li ficcò in borsa, poi richiuse la lampo dell’astuccio e infilò dentro anche quello. Era un altro dei suoi riti: l’astuccio andava messo per ultimo. La mamma lo osservava impaziente.
– Sono pronto, madre.
Lei sospirò.
– Sei proprio impossibile, Otto Vento.
Lo chiamava sempre per nome e cognome quando era nervosa ed era spesso nervosa. Altrimenti usava uno dei suoi mille soprannomi1.
– Il vento è inafferrabile, mamma.
Lei scosse la testa.
– Lo diceva anche quell’altro… identico…
Quell’altro identico era suo padre, che era volato via come il vento quando Otto era appena nato. Non sapeva quasi niente di lui, soltanto che aveva avuto un incidente, ma non gli avevano mai spiegato bene dove e in che modo, cosà aveva rinunciato a chiedere per non ottenere risposte evasive. Sapeva che si chiamava Matteo, ma che i suoi amici lo chiamavano Matto Vento. E che era pieno di allegrie e di paure: si entusiasmava per le altre persone oppure le temeva e si metteva in testa che lo seguissero. La nonna diceva che quando arrivava, entrava in casa soffiando come un vento leggero, di quelli che fanno ridere il mondo, e infatti tutti ridevano, ma a volte era cupo e furioso, come il vento che passa dentro i camini, e allora faceva paura. È difficile sentire la mancanza di qualcosa che è sempre mancato, eppure a volte Otto la sentiva lo stesso. Si stava mettendo le calze, lentamente, perdendo tempo, perché in realtà studiava ancora i suoi piedi. Li aveva sempre considerati due estranei, creature rosa e grassocce piene di dita squadrate, del gruppo degli artropodi o dei celenterati, come i polpi e le meduse.
La mamma era già tornata di sopra. Adesso Otto doveva sbrigarsi davvero. Le scarpe le avrebbe messe prima di uscire. Erano vicino alla porta d’entrata perché nella loro casa si camminava scalzi, la mamma non voleva che si portasse dentro lo sporco, che normalmente descriveva cosÃ: «resti di sputo secco», «pipà di cane vecchio» e soprattutto «uova di scarafaggio». Otto incominciava a vederla come un essere umano, a riconoscere i suoi difetti, errori e aspetti ridicoli, e questo lo faceva sentire indifeso.
Prese lo zaino e raggiunse le scale, attento a non calpestare le righe tra le piastrelle. A scuola, per via delle scaramanzie, i compagni lo chiamavano Skaraman. Dicevano che era un supereroe, però sfigato.
Quando aveva sette anni, l’amica psicologa evolutiva della mamma gli aveva spiegato che i suoi riti erano «classici disturbi d’ansia, tipici della tua età », e Otto aveva annuito – certo, sÃ, i classici disturbi d’ansia tipici della mia età – anche se non sapeva bene che cosa fosse l’ansia e che cosa volesse dire, e si era vergognato di chiederlo. Immaginò fosse una specie di ansa, come le curve dei fiumi, una rientranza dell’umore, una macchia che lo rendeva diverso e piú debole, e da quel momento incominciò a concepirsi concavo, un bambino che sembrava normale ma aveva un vuoto infilato da qualche parte, non capiva esattamente dove, forse dentro la testa o nella pancia oppure al posto del cuore.
In cucina la colazione era pronta. Otto afferrò il cucchiaio, accorgendosi con orrore che era stato apparecchiato al contrario, con il manico in alto. Che tipo di segnale era? Sarebbe successo qualcosa di brutto? Sua madre era sulla porta di casa, pronta per uscire, e controllava il telefonino. I cereali galleggiavano nel latte. Otto preferiva versarselo da solo, il latte, cosà i cereali non si rammollivano troppo, ma la mamma per fare piú in fretta glielo preparava appena sveglia, e adesso lui non poteva rimediare. I cereali erano di una marca islandese, Bio-Sag, e li vendevano al supermarket biologico, mentre quelli che piacevano a lui, al cioccolato, per la mamma erano «puro veleno». Spalancò la bocca e chiuse gli occhi – era una delle rare persone...