Lei era di altezza media, e lui, Gérard Van Bever, leggermente piú basso. La sera del nostro primo incontro, durante quell’inverno di trent’anni fa, li avevo accompagnati fino a un albergo di quai de la Tournelle e mi ero ritrovato nella loro camera. Due letti, uno vicino alla porta, l’altro sotto la finestra. Che non dava sul lungosenna e mi pare fosse un abbaino.
Avevo notato che la camera era in ordine. I letti erano fatti. Niente valigie. Niente vestiti. Soltanto una grossa sveglia su uno dei comodini. Ma, nonostante la sveglia, sembrava che vivessero lí da clandestini, evitando di lasciare tracce della loro presenza. Quella prima sera, comunque, eravamo rimasti nella camera solo un minuto, giusto il tempo di depositarvi alcuni volumi d’arte che non ero riuscito a vendere a un libraio di place Saint-Michel e che mi ero stancato di portarmi dietro.
Ed era stato proprio in place Saint-Michel che mi avevano avvicinato, nel tardo pomeriggio, in mezzo al fiume di persone che scendevano giú nel metrò e di quelle che, in senso inverso, risalivano il boulevard. Mi avevano chiesto dove trovare un ufficio postale nelle vicinanze. Temevo che le mie spiegazioni risultassero troppo vaghe, perché non sono mai riuscito a indicare il percorso piú breve fra due punti. E cosí avevo preferito accompagnarli io stesso fino alla posta dell’Odéon. Lungo il tragitto lei si era fermata in un bar tabacchi e aveva comprato tre francobolli. Li aveva incollati su una busta dove ero riuscito a leggere «Maiorca».
Aveva imbucato la lettera in una delle cassette, senza controllare che fosse proprio quella con indicato «Estero – Posta aerea». Eravamo tornati sui nostri passi verso place Saint-Michel e il lungosenna. Si era preoccupata nel vedermi trasportare i libri, perché «dovevano essere pesanti». Poi aveva detto a Gérard Van Bever, in tono secco:
– Potresti aiutarlo.
Lui mi aveva sorriso e aveva preso uno dei libri – il piú grosso – sottobraccio.
Nella loro camera in quai de la Tournelle avevo appoggiato i libri ai piedi del comodino, quello con la sveglia. Non si sentiva alcun ticchettio. Le lancette segnavano le tre. Una macchia sul cuscino. Chinandomi per appoggiare i libri, avevo avvertito un odore di etere aleggiare sul cuscino e sul letto. Lei mi aveva sfiorato con il braccio e aveva acceso la lampada del comodino.
Avevamo cenato accanto al loro albergo in un caffè del lungosenna. Avevamo ordinato soltanto il secondo. Van Bever aveva pagato il conto. Quella sera io non avevo soldi e Van Bever credeva che gli mancassero cinque franchi. Si era frugato nelle tasche del cappotto e della giacca e alla fine era riuscito a racimolare la cifra in monetine. Lei lo lasciava fare e lo fissava con sguardo distratto fumando una sigaretta. Ci aveva dato la sua porzione da dividere e si era accontentata di piluccare dal piatto di Van Bever. Si era girata verso di me e mi aveva detto con la sua voce un po’ roca:
– La prossima volta andremo in un vero ristorante…
Piú tardi noi due eravamo rimasti davanti all’ingresso dell’albergo mentre Van Bever saliva in camera a prendermi i libri. Avevo rotto il silenzio chiedendole se abitassero lí da tempo e se arrivassero dalla provincia o dall’estero. No, venivano dai dintorni di Parigi. Abitavano qui già da un paio di mesi. Ecco tutto ciò che mi aveva detto quella sera. E il suo nome: Jacqueline.
Van Bever ci aveva raggiunti e mi aveva restituito i libri. Voleva sapere se il giorno dopo avrei tentato ancora di venderli, e se quel genere di commercio fosse redditizio. Mi avevano detto che ci saremmo potuti rivedere. Non era facile fissarmi un appuntamento a un’ora precisa, ma erano spesso in un caffè all’angolo di rue Dante.
A volte ci ritorno in sogno. L’altra notte ero in rue Dante, abbagliato da un tramonto di febbraio. Dopo tanto tempo la via non era affatto cambiata.
Mi sono fermato davanti alla veranda del caffè e ho guardato il bancone, il flipper e i pochi tavolini disposti come attorno a una pista da ballo.
Quando sono arrivato in mezzo alla via il grande palazzo di fronte, in boulevard Saint-Germain, vi proiettava la sua ombra. Ma dietro di me il marciapiede era ancora al sole.
Al risveglio il periodo della mia vita in cui avevo conosciuto Jacqueline mi è apparso nello stesso contrasto di ombra e luce. Vie livide, invernali, e anche il sole che filtra attraverso le persiane.
Gérard Van Bever indossava un cappotto di tessuto spigato troppo grande per lui. Lo rivedo in piedi davanti al flipper, nel caffè di rue Dante. Ma è Jacqueline che sta giocando. Muove appena le braccia e il busto, mentre si susseguono i crepitii e i segnali luminosi del flipper. Il cappotto di Van Bever era largo e gli scendeva sotto il ginocchio. Se ne stava impettito, con il bavero abbassato e le mani in tasca. Jacqueline indossava un dolcevita grigio a trecce e una giacca marrone di pelle morbida.
La prima volta che li ho rivisti in rue Dante, Jacqueline si è voltata verso di me, mi ha sorriso e ha proseguito la partita a flipper. Mi sono seduto a un tavolino. Le braccia e il busto di lei mi sembravano gracili davanti all’apparecchio massiccio, e da un momento all’altro gli scossoni avrebbero potuto sbalzarla all’indietro. Si sforzava di rimanere in piedi, come uno che rischia di cadere fuori bordo. Mi ha raggiunto al tavolino e Van Bever ha preso posto davanti al flipper. All’inizio ero stupito che giocassero cosí a lungo. Spesso ero io a interrompere la partita, altrimenti sarebbe durata all’infinito.
Di pomeriggio in quel caffè non c’era quasi nessuno, ma dalle sei di sera i clienti si assiepavano attorno al bancone e ai pochi tavolini della sala. In mezzo al chiasso delle conversazioni, al crepitio del flipper e alle persone accalcate non riuscivo subito a scorgere Van Bever e Jacqueline. Prima individuavo il cappotto spigato di Van Bever, poi Jacqueline. Ero tornato a piú riprese senza trovarli, e ogni volta avevo aspettato a lungo seduto a un tavolino. Pensavo che non mi sarebbe mai piú capitato di incontrarli, e che si fossero persi nella folla e nella confusione. E un giorno, di primo pomeriggio, stavano lí, l’uno accanto all’altra, in fondo alla sala deserta, davanti al flipper.
Ricordo a malapena gli altri dettagli di quel periodo della mia vita. Ho quasi dimenticato il viso dei miei genitori. Avevo vissuto ancora per qualche tempo nel loro appartamento, poi avevo abbandonato gli studi e guadagnavo un po’ di soldi vendendo vecchi libri.
È stato poco dopo avere conosciuto Jacqueline e Van Bever che sono andato ad abitare in un albergo vicino al loro, l’Hôtel de Lima. Mi ero invecchiato di un anno modificando la data di nascita indicata sul passaporto in modo da risultare maggiorenne.
La settimana precedente il mio arrivo all’Hôtel de Lima, visto che non sapevo dove dormire, mi avevano consegnato la chiave della loro camera ed erano partiti per uno di quei casinò di provincia che erano soliti frequentare.
Prima del nostro incontro avevano iniziato dal casinò di Enghien e da altre due o tre case da gioco in piccole stazioni balneari della Normandia. E poi si erano concentrati su Dieppe, Forges-les-Eaux e Bagnoles-de-l’Orne. Partivano il sabato e tornavano il lunedí con una vincita che non superava mai i mille franchi. Van Bever aveva escogitato una martingala «attorno al cinque neutro» – come diceva lui, ma funzionava solo giocando cifre modeste alla petite roulette.
Non li ho mai accompagnati in quei posti. Li aspettavo fino al lunedí, senza allontanarmi dal quartiere. Poi, dopo qualche tempo, Van Bever andava a «Forges» – come usava dire – perché era meno lontano di Bagnoles-del’Orne, e Jacqueline restava a Parigi.
Durante le notti che avevo trascorso da solo nella loro camera aleggiava sempre quell’odore di etere. Il flacone blu era riposto sulla mensola del lavabo. Nell’armadio c’era qualche vestito: una giacca da uomo, un paio di pantaloni, un reggiseno e uno di quei dolcevita grigi che indossava Jacqueline.
Quelle notti avevo dormito male. Mi svegliavo e non sapevo piú dov’ero. Mi ci voleva un bel po’ prima di riconoscere la camera. Se mi avessero interrogato su Van Bever e Jacqueline avrei avuto serie difficoltà a rispondere e a giustificare la mia presenza lí. Chissà se sarebbero tornati. Finivo per dubitarne. L’uomo che stava dietro il bancone di legno scuro all’ingresso dell’albergo non si preoccupava del fatto che salissi in camera e tenessi la chiave. Mi salutava con un cenno del capo.
L’ultima notte mi ero svegliato verso le cinque e non riuscivo a riprendere sonno. Probabilmente occupavo il letto di Jacqueline, e il ticchettio della sveglia era cosí forte che avrei voluto chiuderla nell’armadio o nasconderla sotto un cuscino. Ma avevo paura del silenzio. Allora mi ero alzato ed ero uscito dall’albergo. Avevo passeggiato sul lungosenna fino alla cancellata del Jardin des Plantes, poi ero entrato nell’unico caffè già aperto davanti alla Gare d’Austerlitz.
La settimana prima erano andati a giocare al casinò di Dieppe ed erano rientrati di mattina molto presto. Oggi sarebbe stato lo stesso. Ancora un’ora, due ore ad aspettare… I pendolari uscivano dalla Gare d’Austerlitz sempre piú numerosi, prendevano un caffè al bancone e scendevano nel metrò. Faceva ancora buio. Di nuovo ho costeggiato la cancellata del Jardin des Plantes, poi quella dell’ex mercato del vino.
Da lontano ho riconosciuto le loro sagome. Il cappotto spigato di Van Bever risaltava nel buio come una macchia luminosa. Erano entrambi seduti su una panchina dall’altra parte del lungosenna, di fronte alle bancarelle chiuse di libri usati. Erano appena arrivati da Dieppe. Avevano bussato alla porta della camera, ma non rispondeva nessuno. E io ero uscito poco prima con la chiave in tasca.
All’Hôtel de Lima la mia finestra dava su boulevard Saint-Germain e sull’inizio di rue des Bernardins. Stando disteso sul letto vedevo stagliarsi nel riquadro della finestra il campanile di una chiesa di cui non ricordo il nome. E durante la notte, quando si spegneva il rumore del traffico, suonavano le ore. Spesso Jacqueline e Van Bever mi accompagnavano in albergo. Dopo avere cenato in un ristorante cinese. Dopo essere andati al cinema.
In quelle sere nulla ci...