Sabato. Il cubicolo del bagno era inondato di luce ultravioletta. I bar del centro la usano perché cosà i tossici non riescono a vedersi le vene delle braccia. Il Rubik’s non faceva eccezione. A volte i clienti uscivano in strada a cercare la vena, segnavano il punto con una biro, poi si ficcavano in bagno e malgrado la luce ultravioletta infilavano l’ago nel posto giusto. Quando andavano in palla, con gli occhi come biglie di vetro, quelle crocette sulle braccia sembravano baci su un biglietto d’auguri.
Mi assicurai che la porta fosse chiusa a chiave e salii in piedi sul water. Con un cacciavite che mi ero portato, svitai il portalampada e lo staccai dal soffitto. Ormai sorvegliavo Smithson, il barman, da settimane. Anche se c’era del personale specifico per le pulizie, lui passava un bel po’ di tempo nei bagni. Infilai il braccio nel buco e cercai a tastoni.
Buste di plastica.
La prima che tirai fuori era coca. Poi trovai tre tipi diversi di pasticche e una busta richiudibile con dentro dosi singole di Otto pronte per l’uso. Rimisi a posto quasi tutto, riavvitai il portalampada e scesi dal water.
Stesi una pista di coca sul dorso della mano. Mi tremava tutto il braccio. Chiusi gli occhi e respirai a fondo, tentando di riprendere il controllo del mio corpo. Quando li riaprii, mi trovai a leggere una scritta sul muro sopra la vaschetta.
«Dimentica la notte che hai davanti», diceva.
Fissai il graffito per un minuto buono, poi delicatamente rimisi la coca nella busta di plastica trasparente.
Tirai lo sciacquone, aprii la porta e uscii.
Il bar si stava svegliando. Era finita l’ora tragica e cominciava quella piú allegra. La clientela diurna era rimpolpata da quella serale della gente che usciva dal lavoro e si trovava là con gli amici. Vidi Catherine al bar, con la sua solita vodka liscia, doppia o tripla. I capelli castani erano sciolti sulle spalle, e facevano salire le pulsazioni di tutti gli uomini presenti.
Con lei c’era Isabelle Rossiter.
Era la prima volta che le vedevo insieme. Mi chiesi se fosse Catherine l’amica che l’aveva portata nella Franchigia. Speravo di no. Mi resi conto all’improvviso che stavo lavorando per incastrare Catherine, per mandarla in galera. Notai il mio riflesso sul bicchiere di birra e lo spinsi via. Isabelle si toccava il collo e flirtava timidamente con il grosso barista. Pensai all’articolo su di lui che avevo letto.
«Smithson assolto».
Il barman disse qualcosa e Catherine alzò gli occhi. Si misero a discutere animatamente. A un tratto lei si piazzò davanti a Isabelle.
Le sentii dire: – Smettila.
Alla fine Isabelle riuscà a calmarla. Forse aveva trovato un accordo con il barman. Lui disse qualcosa alla ragazza con cui lavorava, sgusciò da dietro il bancone e uscà dal locale. Isabelle attese un minuto, poi lo seguÃ. Sembrò portarsi dietro gli occhi degli uomini ai tavoli che la fissavano. Aspettai, per vedere se Catherine l’avrebbe seguita, ma non lo fece.
La ragazza dietro il banco stava servendo tre persone, quando mi avvicinai. Era una bionda australiana dalla faccia allegra. Studentessa, pensai.
– Una vodka quadrupla.
– Riprova con qualcosa di legale.
– Lei ne ha una, – dissi, indicando Catherine nell’angolo. La barista seguà il mio sguardo e sorrise.
– Lei è speciale, tesoro. Tu no.
– Jameson e soda, allora –. Le diedi la mancia per la battuta che aveva fatto, bevvi un sorso e mi voltai. Passando dove Catherine poteva vedermi, andai a sedermi a un tavolo vicino, dandole la schiena. Mi stavo chiedendo cosa fare, quando udii il raschiare di una sedia e un rumore di tacchi sul pavimento di legno. La mano sinistra ricominciò a tremare e desiderai aver preso qualcosa.
– Aidan, – disse Catherine. Alzai gli occhi lentamente. Scarpe alte nere, scamosciate, gonna longuette di pelle, top scollato. Capelli castani sciolti sulle spalle. Guardai al di là di tutto questo. Guardai la ragazza che conoscevo da poche settimane. Quando i miei occhi incontrarono i suoi fu un miracolo.
– Cath.
Lei sorrise. – Vedo che stai ancora cercando un occhio nero.
– Ci vado sempre piú vicino, non trovi? Vuoi sederti?
Lei andò a prendere il suo drink.
– Allora, chi sono i candidati? – disse, accomodandosi di fronte a me.
– C’è stato un attimo in cui Carver a momenti mi dava un pugno, ma poi non l’ha fatto.
– Sono certa che ci sarà un’altra occasione –. Era ancora irritata da ciò che era successo tra Isabelle e il barman, e non sembrava dell’umore adatto per fare conversazione. – Che impressione ti ha fatto?
– Zain? Sa organizzare un party.
– È tutto?
– Non ho passato molto tempo con lui.
– Ha parlato con te. È piú di quanto ottiene la maggior parte della gente, credimi…
– Tu che impressione hai di lui?
Catherine non rispose. Non mi lasciò cambiare discorso. – Perché ti trovo sempre ovunque, Aid? – Eravamo stati a letto insieme due volte, e cominciava a rendersi conto di non sapere nulla di me.
– Sto cercando lavoro. Ecco di cosa ho parlato con Zain, venerdÃ.
– Vuoi diventare una delle sue ragazze?
– È questo che pensi di te?
– Non penso molto a me –. Fece una pausa. – Ma non appartengo a nessuno, se è questo che vuoi sapere.
– Nemmeno a chi ti paga?
– Nemmeno a chi mi scopa.
Alla mia destra, la barista fece cadere un vassoio di bicchieri, che si ruppero sul pavimento. Dai tavoli si levarono grida e applausi.
– Odio quando succedono certe cose, – dissi.
– Quando cadono i bicchieri?
– Quando la gente attira l’attenzione su un errore.
– Un errore?
– Non stavo parlando di…
– Lo so –. Mi interruppe stringendomi la mano. – Ti ho dato una possibilità di farlo e hai cambiato discorso. Ma non importa –. Prese le sue cose e si alzò. – Buona serata, Aidan –. Le donne di solito mi rivolgono sorrisi di circostanza, come se la roba buona la tenessero in serbo per qualcun altro. Catherine era diversa.
Il suo sorriso era sempre sincero. E io continuavo a mentirle.
Mi alzai, ma lei si stava già allontanando, con i tacchi che facevano rumore sul legno. A un tratto si voltò. – Tu rimani?
– Credo di sÃ, – dissi, sperando che tornasse a sedersi con me.
– Puoi dire alla mia amica che sono andata via?
– La biondina?
Lei annuÃ. – La biondina. Sai, dovresti cercare lavoro altrove. Forse ti andrebbe meglio –. Si girò e se ne andò. Era una delle poche volte che aveva cercato davvero di parlare con me. Avrei dovuto dire qualcosa di diverso, pensai. Qualcosa di meglio.
Isabelle Rossiter riapparve circa un’ora dopo, con la gonna un po’ sollevata sulle cosce. Si diresse subito in bagno. Il barman era già rientrato cinque minuti prima. La osservò con la coda dell’occhio, cosà come gli altri uomini in sala. Quando uscà dal bagno, lei si guardò intorno con aria impacciata, poi raggiunse la parte del bancone dove il suo nuovo amico non stava servendo.
Dopo ciò che avevano fatto là fuori, lui doveva averle detto di andarsene.
La barista finse di non vederla, per non doverle chiedere l’età , e si dedicò ad altri clienti. Isabelle sembrò ritirarsi in sé stessa. Qualche minuto dopo, si spostò lentamente lungo il bancone, con un’espressione piacevole e vuota. In sala faceva fresco, ma lei aveva una patina di sudore sul viso. Probabilmente era fatta.
Il barman rideva con un cliente, quando la vide avvicinarsi. Le voltò le spalle con intenzione e, gridando qualcosa a proposito di chissà quale problema alle tubature, andò nel retro per evitarla. Isabelle sembrava una bambina sperduta in un supermercato.
Il cliente che prima rideva con il barman si voltò verso di lei. Aveva una faccia gonfia da ubriaco, di un colore rosso infarto. Abbassò un braccio e le sfiorò una coscia. Isabelle alzò gli occhi e l’uomo le disse qualcosa all’orecchio. Lei aveva diciassette anni. Lui quasi sessanta. Isabelle aggrottò la fronte, fece un passo indietro e scosse la testa. – No, – vidi che diceva, con il suo sorriso di circostanza. – Grazie.
Sopravvivrà , pensai. Ero stato giovane anch’io. Pensavo che sesso e soldi fossero quasi tutto. Isabelle si avviò verso l’uscita, a passi lenti. L’uomo dal viso rosso le sollevò la gonna mentre si allontanava. Lei la tirò giú e continuò a camminare, ma dai tavoli si alzò un grido esultante.
Tornai a fissare il mio bicchiere, vedendoci dentro un riflesso caricaturale di me stesso. Quando mi alzai, lo feci con lentezza, pregando che lei fosse già sparita nel momento in cui fossi arrivato fuori. Invece la trovai immobile sul marciapiede, che guardava il fiato condensarsi nell’aria.
– Isabelle, – dissi. Si voltò con un sorriso luminoso da palcoscenico, che mantenne anche quando per un attimo non mi riconobbe. Le mani strinsero la borsetta. – Ci siamo visti da Zain…
– L’astrologo, – disse lei, avvicinandosi. – Cosa fai?
– Stavo solo bevendo qualcosa. Sono contento di averti trovata –. Il suo viso si fece piú serio. – Ho visto Cath, dentro, e mi ha chiesto di avvisarti che è andata via.
– Ah –. Pareva...