Il morso della reclusa
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Il morso della reclusa

Fred Vargas, Margherita Botto

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  1. 440 pagine
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Il morso della reclusa

Fred Vargas, Margherita Botto

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Nebbioso, beccheggiante, indolente. Sempre perso nelle sue vaghezze. È il commissario Adamsberg, capo dell'Anticrimine al tredicesimo arrondissement parigino.

- Non ci posso credere, - disse Danglard, - non ci voglio credere. Torni fra noi, commissario. Ma in quali nebbie ha perso la vista, porca miseria?

- Nella nebbia ci vedo benissimo, - replicò Adamsberg in tono un po' secco, appoggiando i palmi sul tavolo. - Anzi, meglio che altrove. Quindi sarò chiaro, Danglard. Non credo a una moltiplicazione delle recluse. Non credo a una mutazione del loro veleno, cosí grave e cosí improvvisa. Credo che quei tre uomini siano stati assassinati.

Il commissario Jean-Baptiste Adamsberg è costretto a rientrare prima del tempo dalle vacanze in Islanda per seguire le indagini su un omicidio. Il caso è ben presto risolto, ma la sua attenzione viene subito attirata da quella che sembra una serie di sfortunati incidenti: tre anziani che, nel Sud della Francia, sono stati uccisi da una particolare specie di ragno velenoso, comunemente detto reclusa. Opinione pubblica, studiosi e polizia sono persuasi che si tratti di semplice fatalità, tanto che la regione è ormai in preda alla nevrosi. Adamsberg, però, non è d'accordo. E, contro tutto e tutti, seguendo il proprio istinto comincia a scandagliare il passato delle vittime.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2018
ISBN
9788858427699

1.

Seduto su uno scoglio del molo, al porto, Adamsberg guardava i marinai di Grimsey che rientravano dalla pesca quotidiana, attraccavano, sollevavano le reti. Lí, su quella isoletta islandese, lo chiamavano «Berg». Vento dal largo, undici gradi, sole opaco e puzza di scarti di pesce. Non ricordava piú che poco tempo prima era un commissario, a capo di ventisette agenti all’Anticrimine di Parigi, tredicesimo arrondissement. Gli era caduto il cellulare negli escrementi di una capra, che ce l’aveva sepolto dentro con un impeccabile colpo di zoccolo, senza aggressività. Un modo inedito di perdere il cellulare, e Adamsberg l’aveva apprezzato come meritava.
Stava arrivando al porto anche Gunnlaugur, il proprietario della piccola locanda, a scegliere i pesci migliori per la cena. Adamsberg, sorridente, gli fece un cenno di saluto. Ma Gunnlaugur non aveva la faccia dei giorni buoni. Con le bionde sopracciglia aggrottate si diresse verso di lui, senza degnare di uno sguardo le cassette dei pesci, e gli porse un messaggio.
Fyrir big [Per te], – disse indicandolo con un dito.
Ég? [Me?]
Adamsberg, incapace di memorizzare i piú puerili rudimenti di qualunque lingua straniera, lí aveva acquisito, inspiegabilmente, un bagaglio di circa settanta parole, il tutto in diciassette giorni. Gli parlavano nel modo piú semplice possibile, con tanti gesti.
Da Parigi, quel biglietto veniva da Parigi, per forza. Lo richiamavano laggiú, per forza. Sentí una rabbia triste e scosse la testa in segno di rifiuto, girandosi verso il mare. Gunnlaugur insistette, aprí il foglio e glielo infilò tra le dita.
Donna travolta da un’auto. Un marito, un amante. Non tanto semplice. Gradita presenza. Seguono informazioni.
Adamsberg chinò il capo, schiuse la mano e lo lasciò volare via. Parigi? Come, Parigi? Dov’era, Parigi?
Dauður maður? [Un morto?] – domandò Gunnlaugur.
[Sí].
Ertu að fara, Berg? Ertu að fara? [Parti, Berg? Parti?]
Adamsberg si tirò su a fatica, alzò lo sguardo verso il sole bianco.
Nei [No], – disse.
, Berg [Invece sí, Berg], – sospirò Gunnlaugur.
[Sí], – ammise Adamsberg.
Gunnlaugur lo scosse per una spalla, trascinandolo con sé.
Drekka, borða [Bere, mangiare], – disse.
[Sí].
L’impatto delle ruote dell’aereo sulla pista di Roissy-Charles de Gaulle gli scatenò un’improvvisa emicrania, come non ne aveva da anni, e nello stesso tempo gli sembrava che lo stessero ammazzando di botte. Era il ritorno, l’aggressione di Parigi, la grande città di pietra. A meno che non fossero i bicchieri bevuti la sera prima, laggiú, alla locanda, per celebrare la partenza. Eppure erano minuscoli, quei bicchieri. Ma numerosi. Ed era l’ultima sera. Ed era brennivín.
Un’occhiata furtiva dal finestrino. Non scendere, non andarci.
Ma era già lí. «Gradita presenza».

2.

Martedí 31 maggio sedici agenti dell’Anticrimine stazionavano già alle nove in sala riunioni, tutti pronti, con computer, fascicoli e caffè, per illustrare al commissario lo svolgimento dei fatti che avevano dovuto gestire in sua assenza, sotto la direzione dei comandanti Mordent e Danglard. La squadra esprimeva con il suo atteggiamento rilassato e l’improvviso chiacchiericcio la soddisfazione di rivederlo, di ritrovarne la faccia e i modi, senza chiedersi se il soggiorno nel nord dell’Islanda, su quell’isoletta di nebbie e flutti mutevoli, avesse o meno alterato la sua traiettoria. E in tal caso poco male, pensava il tenente Veyrenc, che come Adamsberg era cresciuto fra le rocce dei Pirenei e non aveva difficoltà a comprenderlo. Sapeva che, con il commissario a guidarla, la squadra, piú che a un potente fuoribordo capace di sollevare torrenti di schiuma, assomigliava a un grosso veliero, che talvolta filava con il vento in poppa oppure ristagnava, con le vele flosce.
Invece il comandante Danglard temeva sempre qualcosa. Scrutava l’orizzonte aspettandosi minacce di ogni genere, scorticandosi la vita sulle asperità delle proprie paure. Già alla partenza di Adamsberg per l’Islanda, dopo un’indagine spossante, lo aveva invaso l’apprensione. Che un individuo normale e semplicemente stanco morto andasse a rilassarsi in un Paese nebbioso gli sembrava una scelta sensata. Piú opportuna che correre verso il sole del Sud, dove la luce crudele ravviva ogni minima sporgenza, ogni spigolo di sassolino, cosa per nulla rilassante. Ma che un individuo nebbioso se ne andasse in un Paese nebbioso gli sembrava invece azzardato e gravido di conseguenze. Danglard temeva ripercussioni problematiche, forse irreversibili. Aveva seriamente ipotizzato che, a seguito di una fusione chimica tra le nebbie di una persona e quelle di un Paese, Adamsberg finisse inghiottito in Islanda e non tornasse mai piú. L’annuncio del suo rientro a Parigi lo aveva un po’ tranquillizzato. Ma quando Adamsberg fece il suo ingresso nella stanza con la solita andatura un po’ beccheggiante, sorridendo a tutti e stringendo mani, le preoccupazioni di Danglard si rinfocolarono di colpo. Piú ventoso e instabile che mai, sguardo fluido e sorriso vago, il commissario sembrava aver perso anche quei margini di precisione che comunque strutturavano le sue azioni, come tanti picchetti distanziati ma rassicuranti. Disossato, invertebrato, valutò Danglard. Divertente, ancora umido, pensò il tenente Veyrenc.
Il giovane brigadiere Estalère, specialista nel rituale del caffè, che assolveva senza un errore – il suo unico ambito di eccellenza, secondo la maggior parte dei colleghi –, ne offrí subito uno al commissario, con la giusta quantità di zucchero.
– Forza, – disse Adamsberg con voce bassa e distante, davvero troppo rilassata per uno che aveva di fronte la morte di una donna di trentasette anni, schiacciata per due volte sotto le ruote di un suv che le aveva maciullato il collo e le gambe.
Era successo tre giorni prima, il sabato sera precedente, in rue du Château-des-Rentiers. Quale castello? Quali rentier? si chiese Danglard. Non lo ricordava, e adesso quel nome suonava strano in quel settore del tredicesimo arrondissement sud. Si ripromise di cercarne l’origine, visto che alla sua mente enciclopedica nessuna conoscenza sembrava superflua.
– Ha letto il fascicolo che le abbiamo fatto avere allo scalo di Reykjavík? – domandò il comandante Mordent.
– Certo, – rispose Adamsberg alzando le spalle.
E lo aveva letto davvero durante il volo Reykjavík-Parigi. Ma in realtà non era riuscito a fare mente locale. Sapeva che la donna, Laure Carvin – bella, aveva notato –, era stata assassinata da quel suv fra le 22.10 e le 22.15. La precisione dell’ora del delitto dipendeva dallo stile di vita regolarissimo della vittima. Vendeva abbigliamento per bambini in una lussuosa boutique del quindicesimo arrondissement, dalle 14.00 alle 19.30. Poi si dedicava alla contabilità e chiudeva i battenti alle 21.40. Attraversava rue du Château-des-Rentiers ogni giorno alla stessa ora, allo stesso semaforo, a due passi da casa. Era sposata con un tizio ricco, un tizio che «aveva fatto strada», ma Adamsberg non ricordava né la sua professione né il suo conto in banca. Era stato il suv del marito, del tizio ricco – ma come si chiamava di nome? –, a investire la donna, senza il minimo dubbio. C’era ancora sangue negli intagli delle gomme e sui parafanghi. La sera stessa Mordent e Justin avevano risalito la pista delle ruote assassine insieme a un cane dell’unità cinofila. Che li aveva portati dritti dritti al piccolo parcheggio di una sala giochi, a trecento metri dalla scena del crimine. Di indole un po’ isterica, il cane aveva preteso un sacco di carezze come ricompensa per la sua prodezza.
Il gestore conosceva bene il proprietario del veicolo insanguinato: un cliente abituale che frequentava la sala tutti i sabato sera, dalle nove circa a mezzanotte. Se la fortuna non gli diceva bene poteva accanirsi alla sua postazione fino alla chiusura, alle due del mattino. Aveva indicato loro l’uomo, in giacca e cravatta allentata, ben visibile in mezzo a gente in felpa col cappuccio e una birra in mano. Il tizio combatteva all’ultimo sangue con uno schermo sul quale creature titaniche e cadaveriche gli si avventavano contro e che doveva abbattere a colpi di mitragliatrice per farsi strada verso la contorta Montagna del Re nero. Quando gli agenti dell’Anticrimine lo avevano interrotto posandogli una mano sulla spalla aveva scosso la testa freneticamente senza mollare i comandi, gridando che non si sarebbe fermato per nulla al mondo a quarantasettemilaseicentocinquantadue punti, a un passo dal livello della Strada di bronzo, mai e poi mai. Alzando la voce nel frastuono delle macchine e tra le grida dei clienti, alla fine il comandante Mordent gli aveva fatto capire che sua moglie era appena morta, investita, a trecento metri da lí. L’uomo si era mezzo afflosciato sulla console, mandando a monte la partita. Sullo schermo, con il sottofondo di una musichetta, era comparsa la scritta: «Peccato, hai perso».
– Quindi il marito sostiene, – disse Adamsberg, – di non essersi allontanato dalla sala giochi?
– Se ha letto il rapporto… – cominciò Mordent.
– Preferisco sentirlo a voce, – lo interruppe Adamsberg.
– Esatto. Non si sarebbe mosso dalla sala.
– E come spiega il sangue sulla sua auto?
– Con l’esistenza di un amante. L’amante sarebbe ...

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