COME ERA PRIMA, E COSA ACCADDE DOPO
La prima volta che vidi Mord era il crepuscolo, sei anni prima di trovare Borne. Quel giorno non avevo racimolato che un fetido brandello di carne autoportante che palpitava in un fosso accanto a una paratoia dischiusa. Avevo fiutato immediatamente la trappola. Avevo segnato la zona con un tratto di gesso per ricordarmela e mi ero spinta piú a ovest, verso i resti di una superstrada in disuso ricoperta di licheni e ruggine e schegge di ossa. Formavano un motivo bianco, rosso e verde che sembrava quasi disegnato di proposito. Non era il tipo giusto di licheni, altrimenti ne avrei raccolti un po’ per la sera.
La concentrazione di agenti chimici nell’aria della città ha sempre reso i tramonti particolarmente struggenti, anche per i piú cinici, distratti, o per chi non ha piú spazio per la poesia. Il giallo e l’arancio sfumavano in una stratificazione di viola e azzurro. Scrutai a nord e a sud, non vidi nessuno. Trovai chissà dove una sdraio stinta dal sole e mi ci sedetti, mangiando dei cracker mollicci della settimana prima. Guardai il sole calare con lo stomaco stretto in una palletta dolente.
Ero lercia, dopo una giornata spesa a inerpicarmi nei cunicoli della zona industriale mezzo abbandonata. Puzzavo. Ero stremata. Nonostante le precauzioni, chiunque avrebbe potuto vedermi. Chiunque avrebbe potuto attaccarmi. Non mi importava. Ogni tanto bisognava abbassare la guardia, o si rischiava di scordarsi com’era; per quella settimana avevo toccato il limite. Quella carne lasciata là a marcire per fare da esca della trappola tesa da un folle, un cannibale, un pervertito – mi aveva scossa.
Mord emerse da un grappolo di edifici proprio di fronte a me. Sulle prime non era che un grosso globo irregolare di marrone scuro contro i margini arancio del sole. Per un istante di terrore pensai che fosse un’eclissi, o una nube chimica, o la mia morte. Ma poi l’«eclissi» prese ad avanzare verso di me, senza sforzo, oscurando il sole, distruggendo il cielo, e potei distinguere ogni dettaglio di quel gigantesco grugno peloso.
Non ero in grado di scappare. Sarei dovuta scappare, ma non lo feci. Sarei dovuta balzare fuori dalla sdraio per cercare riparo in una canalina fognaria. Ma non lo feci. Invece me ne restai là spaparanzata con mezzo cracker che mi penzolava dalla bocca, e osservai l’ombra di quella creatura enorme strisciare su di me.
All’epoca Mord non era cosà grande, e viveva ancora nella sede della Compagnia. Si stagliava sopra di me come una corazzata vivente, col pelo bruno-dorato, immacolato, profumato, come se un esercito di dipendenti della Compagnia avesse passato ore a spazzolarlo.
Aveva occhi enormi, vivaci e curiosi e stranamente umani, non gonfi e iniettati di sangue come sarebbero divenuti anni dopo. Il bianco liscio delle sue zanne non rappresentava tanto un pericolo mortale quanto la promessa di una fine rapida e pulita. Si crogiolava nel vento che gli solleticava la pelliccia.
Non sono in grado di spiegare appieno l’effetto che mi fece Mord in quel momento. Quel muso serico e smagliante che planava verso di me, quello sguardo che si posava su di me e passava oltre, quasi con una segreta allegria, quel manto che solcava il cielo a pochi metri dalla mia testa esalando un aroma di gelsomino… osservando la vastità di quel corpo sopra di me dovetti resistere alla tentazione di sollevare una mano a toccarlo.
Una parte di me non era in grado di decidere se stessi assistendo al passaggio di un dio o, forse, a un’allucinazione dovuta alla fame. Ma in quel momento volevo solo abbracciarlo, perdermi nella sua pelliccia. Volevo aggrapparmi a Mord come se fosse stato l’ultimo briciolo di ordine al mondo, anche se fosse stata la mia fine.
Dopo il passaggio di Mord non osai girarmi a guardarlo. Avevo paura. Avevo paura che si sarebbe voltato anche lui per fissarmi con occhi famelici. Avevo paura che fossi stata io a evocarlo, dall’angolo piú oscuro del bisogno, e che non esistesse realmente. Com’era possibile che volasse? Per quale miracolo, per quale maledizione? Non lo sapevo, e Wick non avrebbe mai azzardato una teoria a riguardo. All’epoca, l’idea che Mord un tempo fosse stato umano sembrava una verità distante, remota, sepolta sulla cima di una montagna in capo al mondo. Ma era per via di quella sua capacità che alcuni, in città , si erano convinti che fossimo tutti morti e che ci trovassimo in una specie di oltretomba. Un purgatorio, o un inferno. E una parte di quelli che ci credevano si offrivano in sacrificio a Mord – e non fissandolo da una sdraio sbocconcellando cracker. In fondo, se eri già morto, cosa importava?
Me ne rimasi là con l’ultimo cracker mentre il tramonto si assestava intorno a me e le stelle si affacciavano in cielo. Solo dopo un po’ cominciai a tremare e a prendere coscienza degli strani rumori che si avvicinavano, decidendomi a cercare riparo per la notte.
Ero in città da poco. Ben presto avrei incontrato Wick, e, superata la circospezione, mi sarei trasferita alla Scogliera Terrazzata con lui.
Pur sapendo che era stato Borne a uccidere i miei assalitori – pur sapendo comunque troppo poco sul suo conto – non riuscivo a cedere al giudizio di Wick. Non c’era forse cosà tanto di buono in Borne che avrei potuto tirare fuori, al di là di ciò che potevo scoprire del suo scopo? Era questa la domanda essenziale che continuava a tormentarmi nella notte, benché Wick vi avesse già risposto.
Nelle settimane seguenti mi impegnai cosà tanto per accettare Borne che smisi persino di notare quanto era strano. Anche se si faceva sempre piú grande, fino a superare in altezza pure Wick, anche se continuava a sperimentare nuove forme – passando da cono a cubo a globo, poi di nuovo a quella specie di calamaro rovesciato.
Ora Wick era quasi sempre in casa, e continuava a prendersi cura di me. Avrei dovuto mostrarmi piú riconoscente, ma la sua presenza mi pesava sempre di piú. Quando c’era lui in giro, Borne doveva stare immobile, muto, senza occhi – seduto in un angolino mentre parlavo con Wick. Sembrava un punto di domanda gigante, e il fatto che Wick non lo guardasse mai mi rendeva chiaro quanto fosse consapevole della presenza del mio nuovo amico.
Ma anche dopo che Wick era uscito, per un po’ le mie conversazioni con Borne restavano stentate e singhiozzanti. Sulle prime avevo evitato le domande piú importanti, ma dopo un po’ ci ritornai, perché non avevo scelta. Mi vedevo come una protezione da Wick, sentivo che le sue domande sarebbero state piú invadenti, le sue conclusioni piú drastiche.
Mi stavo riavvicinando all’idea che Borne fosse una macchina. Trovai un vecchio libro fra le macerie, e gli mostrai le foto di un robot e poi di una mucca bio-tec. Che gioia ci darebbe, oggi, imbatterci in una mucca a spasso per la città !
– Vedi? Cos�
Si impennò all’indietro, trasudando peduncoli come se gli sbucassero da ogni poro. – Non sono una macchina. Sono una persona. Come te, Rachel. Come te.
Era la prima volta che qualcosa che avevo fatto lo offendeva. Mi era capitato di confonderlo, ma non di offenderlo.
– Mi dispiace, Borne, – dissi, e mi dispiaceva davvero. Cambiai parzialmente argomento. – Allora sai come sei arrivato in città ?
– Non ricordo. C’era acqua, un sacco di acqua, e poi stavo camminando. Camminavo.
– No, – dissi con pazienza. – Questi sono i miei ricordi. È una cosa che ti ho raccontato io –. Questi qui pro quo capitavano piú spesso del dovuto.
Borne ci rifletté per un istante, poi disse: – So cose sulle cose che non sono mie. È tutto mischiato. Lo mischio. Devo mischiarlo. Nella luce bianca.
Pensai subito alla luce bianca di cui si parla spesso nei racconti sulla morte, sul morire. Ero in un tunnel. C’era una luce bianca.
– Cosa ricordi di questa luce?
Ma non voleva rispondere, e schivò la domanda con una frase che secondo lui mi avrebbe fatto piacere.
– Mi sono trovato quando mi hai trovato tu! Sei stata tu a trovarmi. Mi hai raccolto. Mi hai colto.
All’epoca la parola «cogliere» era nuova, ma anche in seguito avrebbe continuato a divertirlo un sacco; non riusciva a stufarsi di dire «cogliere» o «colto». Nel dirlo faceva un verso da gallina, glielo avevo insegnato io, «co-coccoccoccocco-colto», e scorrazzava per i corridoi come un bambino demente.
Ma stavolta, nel dirlo, la voce di Borne si era fatta via via piú profonda, e lui si era schiacciato sul pavimento accanto al mio letto, come faceva ogni volta che parlava di qualcosa che lo spaventava.
– Sai qual è il tuo scopo? – dissi.
Le antenne che continuavano a spuntare, estendersi e ritrarsi nel suo corpo si fissarono sbalordite su di me.
– La ragione, – dissi. – Come dire, il senso della vita. Sei stato creato per uno scopo?
– Pensi che ogni cosa debba avere uno scopo, Rachel?
Le sue parole mi toccarono nel profondo – lÃ, seduta in soggiorno, gli occhi incollati al soffitto chiazzato di muffa.
Qual era il mio, di scopo? Cacciare rifiuti per me e per Wick, e ora pure per Borne? Sopravvivere… e aspettare? Aspettare cosa.
Ma stavo cercando di essere una brava madre, una buona amica, con Borne, cosà dissi: – SÃ, ogni cosa ha uno scopo. E ogni persona ha uno scopo, o lo trova –. O se non altro trova una ragione.
– E io sono una persona? – disse Borne, con le antenne tese a dimostrare un’attenzione particolare.
Non esitai. – SÃ, Borne. Certo che sei una persona.
Per me era una persona, ma stava già sconfinando in altri concetti.
– Sono una persona sana di mente?
– Non so cosa vuoi dire, – risposi, una scappatoia consueta quando volevo prendere tempo per riflettere. A mente sana.
– Se c’è una mente sana, deve esserci anche una mente malata.
– Suppongo di sÃ. SÃ.
– Come si fa ad avere una mente malata? Alla nascita?
– È una domanda difficile, – dissi. Di norma avrei risposto qualcosa come: «Perché dovresti volere una mente malata?» o gli avrei detto che poteva andare in entrambi i modi: alla nascita, o dopo un trauma. Ma ero troppo stanca, dopo una giornata intera spesa a riparare trappole.
– È difficile perché la mia mente è già malata?
– No. Non ti va di stare in silenzio, ogni tanto? – Borne sarà anche stato una persona, ma era una persona pesante, perché analizzava tutto.
– Il silenzio è il segno di una mente malata?
– Il silenzio è d’oro.
– Dici perché è fatto di luce?
– Ma come fai a parlare se non hai una bocca? – chiesi, ma non senza affetto.
– Perché ho una mente malata, forse?
– Mente sana. Bocca malata.
– Una bocca che non c’è è malata?
– Una bocca che non c’è è… – ma a questo punto non riuscii piú a trattenere le risate.
Per me queste conversazioni con Borne erano giocose. Ma in realtà dipendevano dal fatto che la sua mente giovane, in formazione, non riusciva ancora ad articolare in forma linguistica dei concetti complessi. Questo era dovuto in parte ai sensi di Borne, che funzionavano diversamente dai miei. Per imparare il significato di una parola doveva anche orientarsi nel mondo umano attraverso di me. Questa confusione, la confusione di dover trovare un’unità in tutto questo, di dover diventare sostanzialmente trilingue vivendo nel mondo degli esseri umani, era un gran peso per lui. Da quando ci conoscevamo Borne non faceva che azzardare approssimazioni, senza mai riuscire a centrare ciò che voleva dire e finendo spesso per dire qualcos’altro.
Me ne sarei resa conto solo mesi dopo, ripercorrendo mentalmente ogni conversazione per cercare di tradurla in un significato diverso. Ma sarebbe stato troppo tardi, allora. I ricordi sono ci...