Folate d’aria profumata salivano dal parco e penetravano, pigre, dalle finestre spalancate della sala agenti. Era il quindici di aprile, la temperatura oscillava sui venti gradi e chiazze di sole riempivano la stanza. Seduto alla sua scrivania, il cranio calvo sfiorato da un raggio d’oro, Meyer Meyer leggeva un rapporto, un sorriso beato sulle labbra nonostante si trattasse di un crimine. La faccia sostenuta dalle mani, a gomiti piegati, gli occhi azzurri intenti a scorrere il foglio battuto a macchina, sedeva nel sole simile a un angelo ebraico appollaiato sul tetto di una basilica. Quando il telefono suonò, a Meyer parve il canto di mille allodole. Tale era il suo umore in quella lucente giornata di primavera.
– Agente Meyer, – disse. – Ottantasettesimo distretto.
– Sono tornato, – disse la voce.
– Mi fa piacere, – rispose Meyer. – Ma lei chi è?
– Andiamo, agente Meyer, – disse la voce. – Non mi avrà già dimenticato, vero?
La voce aveva un tono vagamente familiare. Meyer aggrottò la fronte. – Ho troppo da fare per mettermi a risolvere indovinelli, – disse. – Chi parla?
– Parli piú forte, per favore, – disse la voce. – Sono un po’ duro d’orecchi.
Non cambiò niente. Gli apparecchi telefonici e le macchine da scrivere, i classificatori, la camera di sicurezza, la colonnina dell’acqua, i manifesti con le fotografie dei ricercati, l’attrezzatura per il rilievo delle impronte digitali, le scrivanie, le sedie, tutto era ancora avvolto nella luce smagliante del sole. Ma nonostante le particelle di pulviscolo dorato, la stanza parve improvvisamente grigia, come se quella voce al telefono le avesse di colpo strappato il suo prezioso rivestimento mettendone a nudo lo squallore. Dal telefono adesso venivano soltanto gracidii di disturbo. La faccia di Meyer s’incupà in una smorfia: era solo nella sala agenti e non poteva richiedere un immediato controllo sulla linea. E comunque, esperienze passate gli avevano insegnato che quell’uomo, se era davvero chi Meyer pensava fosse, non sarebbe rimasto all’apparecchio abbastanza a lungo per permettere le difficili acrobazie della compagnia telefonica. Cominciava a pentirsi di aver risposto, strana reazione per un poliziotto in servizio. Il silenzio si prolungò. Meyer non sapeva che cosa dire. Si sentiva stupido e goffo. Riusciva soltanto a pensare: oh, Dio, ci risiamo.
– Mi ascolti, – disse, – chi parla?
– Lo sa.
– No che non lo so.
– Allora è piú stupido di quanto pensassi.
Ancora un lungo silenzio.
– Okay, – disse Meyer.
– Ah-ah, – disse la voce.
– Che cosa vuole?
– Pazienza, agente Meyer. Pazienza, – disse la voce.
– Maledizione! Che cosa vuole?
– Se ha intenzione di mettersi a bestemmiare, – disse la voce, – non le dirò proprio niente.
Uno scatto breve sulla linea. Meyer guardò il ricevitore ormai muto, sospirò e riappese.
Un poliziotto proprio non sente il bisogno di certe persone.
Il Sordo era una di quelle. Avrebbero potuto fare a meno di lui la prima volta che il Sordo aveva fatto la sua comparsa scatenando l’inferno in mezza città nel tentativo abortito di svaligiare una banca. Avrebbero potuto fare a meno di lui anche la volta successiva, quando il Sordo aveva ucciso il commissario ai parchi, il vicesindaco e una manciata di altra gente in un elaborato piano di estorsione che era miracolosamente fallito. E potevano fare a meno di lui adesso. Qualsiasi cosa avesse in progetto, sicuramente ne potevano fare a meno.
– Ci mancava lui, – disse il tenente Peter Byrnes della squadra investigativa. – In questo momento non ne ho affatto bisogno. Sei sicuro che fosse lui?
– Ne aveva tutta l’aria.
– Non ci voleva, adesso che ho per le mani quella storia dello scassinatore col gatto, – disse Byrnes. Si alzò e andò alla finestra. Nel parco oltre la strada gli innamorati passeggiavano pigramente, giovani madri spingevano le carrozzine dei bambini, le bambine saltavano alla corda e un agente di pattuglia stava chiacchierando con un uomo che teneva al guinzaglio un cane. – Non ci voleva, – ripeté Byrnes, e sospirò. Si voltò di scatto. Era massiccio, con capelli ormai piú bianchi che grigi, le spalle larghe, i lineamenti marcati e gli occhi azzurri, duri. Dava l’impressione di forza controllata, come se la violenza interna fosse stata temperata, affilata e poi saldamente imbrigliata. Sorrise inaspettatamente sorprendendo Meyer. – Se richiama, – disse, – rispondigli che siamo usciti.
– Divertente, – disse Meyer.
– Comunque, in questo momento non abbiamo bisogno che salti fuori di nuovo.
– Io ho proprio la sensazione che sia lui, – disse Meyer.
– Vedremo se richiama.
– Se è lui, – disse Meyer, – richiamerà .
– Mentre aspettiamo, cosa si sa di quel dannato scassinatore? – chiese Byrnes. – Se non lo prendiamo alla svelta, svaligerà tutti gli appartamenti di Richardson Drive.
– Kling è sul posto, – disse Meyer.
– Appena torna, voglio un rapporto, – disse Byrnes.
– E cosa faccio con il Sordo?
Byrnes si strinse nelle spalle. – Ascolta cosa dice e scopri che cosa vuole –. Sorrise di nuovo, sorprendendo di nuovo Meyer. – Forse vuole costituirsi.
– Già , – disse Meyer.
Richardson Drive era una strada laterale oltre Silvermine Oval. Nella strada c’erano sedici grossi condomini e, negli ultimi due mesi, una decina aveva ricevuto la visita dello scassinatore col gatto.
Secondo la mitologia poliziesca, gli scassinatori sono il fior fiore della razza criminale. Professionisti abilissimi, sono capaci di forzare una serratura in una frazione di secondo e senza il minimo rumore, entrare, fare sul posto una rapidissima valutazione degli oggetti di valore, ripulire tutto un appartamento con rapidità e destrezza, poi svanire nella notte senza farsi sentire. Secondo la tradizione, sono gentiluomini autentici, e ricorrono alla violenza solo se intrappolati o provocati in qualche modo. A sentire le storie dei poliziotti sugli scassinatori, non gli scassinatori tossici che di solito sono dilettanti spinti a rubare dalla disperazione, si direbbe che quel lavoro richieda un addestramento rigoroso, una volontà di ferro, un’enorme autodisciplina e un coraggio eccezionale. Non per niente la frase «avere un fegato da scassinatore» è entrata nell’uso comune provenendo dritta dal linguaggio poliziesco. Questo rispetto tinto d’invidia, questa specie di senso di inferiorità venne in piena luce quel pomeriggio del 15 aprile quando il detective Bert Kling parlò con il signor Joseph Angieri e sua moglie nel loro appartamento di Richardson Drive, numero 638.
– Bello e pulito, – disse e inarcò le sopracciglia in un’espressione ammirata. Si riferiva all’assoluta assenza di segni di scalpello sull’intelaiatura delle finestre, al fatto che i cardini erano in perfetto ordine, che non c’erano tracce dell’uso di tagliavetri o di leve. – Avevate chiuso tutte le porte e le finestre prima di partire? – chiese.
– SÃ, – disse il signor Angieri. Era sulla sessantina, indossava una camicia a maniche corte con colori che cavavano gli occhi e sfoggiava una profonda abbronzatura, tutte e due prese in Giamaica. – Chiudiamo sempre, – disse. – Bisogna farlo, in questa città .
Kling guardò ancora la serratura della porta d’ingresso. Un tipo di serratura impossibile da forzare con un grimaldello di plastica. E attorno non c’erano segni. – Qualcun altro ha la chiave del vostro appartamento? – domandò, chiudendo la porta.
– SÃ. Il portinaio. Ha una chiave di tutti gli appartamenti.
– Volevo dire oltre a lui.
– Mia madre ne ha una, – disse la signora Angieri. Era piccola, di qualche anno piú giovane del marito, e gli occhi si muovevano ansiosi nella faccia abbronzata. Kling capÃ. La donna si stava rendendo conto di essere stata derubata, che qualcuno aveva violato il suo spazio privato, qualcuno era entrato nella sua casa, l’aveva girata impunemente, aveva toccato le cose che le appartenevano, aveva portato via le cose che erano sue di diritto. Il fattore piú importante non era la perdita: i gioielli probabilmente erano coperti dall’assicurazione. Quello che la sconvolgeva era l’immaginazione. Se qualcuno era potuto entrare per rubare, che cosa avrebbe impedito a qualcuno di entrare per uccidere?
– È possibile che sua madre sia stata qui mentre voi eravate via?
– Perché sarebbe dovuta venire?
– Non lo so. Forse per dare un’occhiata…
– No, lo escludo.
– O per innaffiare le piante…
– Non teniamo piante, – disse Angieri.
– E poi mia madre ha ottantaquattro anni, – disse la signora Angier...