1. L’oppressione fascista.
Gli ebrei in Italia, alla vigilia dei grandi rivolgimenti politici e militari che si svolsero l’8 settembre del 1943 e nelle decadi successive, costituivano una comunità di 32 802 persone, una piccola e quasi impercettibile minoranza, se non fosse stato che, dal 1936, il regime fascista aveva acceso su di essa i riflettori e l’aveva fatta diventare “una grande questione”. Un cosiddetto problema ebraico fu strombazzato e gridato tramite i media allora a disposizione: stampa e editoria. Agli ebrei furono attribuite malefatte non commesse e lanciate considerazioni lesive della loro dignità, in una campagna di stampa volta a proporre la loro presenza come un danno per la nazione. La campagna, ben orchestrata dal governo, era stata l’astuta preparazione all’emanazione del complesso legislativo antiebraico denominato «Provvedimenti per la difesa della razza italiana», le cui prime battute furono, il 5 settembre 1938, il Regio decreto legge sull’espulsione degli ebrei dalla scuola e, il 7 settembre, il Regio decreto legge sull’espulsione degli ebrei stranieri dal suolo italiano. Nei mesi successivi, altri articoli di legge uscirono a raffica, colpendo gli ebrei nei loro diritti fondamentali al lavoro, all’istruzione, alla loro capacità giuridica, nel diritto /dovere di servire la patria con il servizio militare, nello scegliersi un coniuge, e molto altro.
Presto non restò loro che abbandonare il Paese o adattarsi alla nuova politica del governo: professionisti esercitarono lasciando che altri firmassero i loro lavori; avvocati divennero piazzisti; notai divennero negozianti; medici operarono di frodo in studi altrui; addetti alla pubblica amministratore divennero venditori di cravatte. Da questa tragica situazione si salvarono gli addetti al commercio; solo ai piccoli commercianti ambulanti, numerosi a Roma, fu tolta la licenza. Gli insegnanti di ogni ordine e grado, dopo aver perso le cattedre, furono assunti dalle comunità ebraiche delle principali città, che istituirono in fretta e furia scuole per ebrei espulsi in massa dalle scuole statali. Il beffardo risultato fu l’opposto di quello auspicato dal regime: le scuole ebraiche, sorte dal nulla, contarono su un corpo insegnanti di alto livello proveniente dalle scuole pubbliche e dai ranghi universitari e costituirono isole felici di circolazione di idee e di alta spiritualità culturale.
Le famiglie ebraiche medie impiegatizie, non commercianti, potendo contare solo sui loro risparmi, si impoverirono presto. Era una vita dura e umiliante che, in due anni, dal 1938 al 1940, indusse 6000 ebrei a lasciare il Paese ed emigrare verso altri lidi, per lo piú verso le Americhe o, potendolo, verso la Palestina, allora sotto mandato britannico.
La legge prescriveva anche che gli ebrei che avevano acquisito la nazionalità italiana dopo il 1o gennaio 1919 non avessero piú diritto di goderne. Questa legge, particolarmente odiosa, fece diventare stranieri in patria migliaia di immigrati da paesi dove vigeva l’antisemitismo e che si erano stabiliti qui da noi acquisendo regolare cittadinanza secondo principî generali.
Inoltre, gruppi cospicui di ebrei stranieri fuggiti da pochi anni dai loro paesi nazificati o sotto influenza tedesca si trovavano in Italia di passaggio in attesa di visti per Paesi terzi. Se provenienti da Germania o Austria, viaggiavano senza mezzi perché erano stati costretti ad abbandonare i propri beni prima della partenza. Avevano inoltre scarsa conoscenza della lingua italiana, erano privi di notizie sull’andamento della crisi internazionale e di informazioni sui passaggi navali.
Il compito dell’assistenza agli stranieri venne assunto da varie persone, illuminate guide dell’ebraismo italiano. A Milano, su iniziativa di Raffaele Cantoni1, fu costituito un Comitato assistenza ebrei in Italia (COMASEBIT)2, la cui direzione fu assunta da Renzo Luisada e Umberto Nahon. Il comitato, che funzionava senza l’autorizzazione del governo, cadde in sospetto e fu sospeso il 15 agosto 1939. Dopo la sua chiusura, uno dei profughi tedeschi, Bernardo “Berl” Grosser, formò un comitato clandestino nell’appartamento del signor Fabiszkievicz. I collaboratori, Enrik Schlaph, Friedmann e Grosser stesso, si recavano in casa dei profughi per sentire le loro necessità e venire loro in aiuto. Un modo per soccorrere i profughi, come fece Cantoni nella seconda metà del 1939, fu di ottenere dal console francese a Milano visti provvisori per recarsi in Francia con lo scopo di arruolarsi nella Legione straniera3. Inoltre, per opera del comitato milanese, si organizzarono spedizioni clandestine di profughi da Ventimiglia alla costa francese con motobarche, o anche via terra4.
Dopo la chiusura forzata del comitato, fu l’ufficiale rappresentanza degli ebrei italiani, l’Unione delle comunità israelitiche italiane (UCII) a creare nel proprio seno, alla fine di dicembre del 1939, una delegazione istituita per risolvere i problemi degli ebrei stranieri profughi nel nostro Paese, bisognosi di assistenza, spirituale quanto materiale. Il nome del nuovo comitato fu Delegazione assistenza emigranti, meglio conosciuta con il suo acronimo, DELASEM (è da notare che nel nome non compariva la parola ebrei, forse per prudenza, o forse in ossequio a una richiesta del governo stesso). Aveva il compito di facilitare l’emigrazione della massa di ebrei stranieri che si trovava sul territorio italiano e di porgere agli stessi tutta l’assistenza necessaria per il tempo in cui, in attesa di emigrare, fossero costretti a rimanere in Italia. Questi obiettivi erano in linea con il desiderio del governo di liberarsi degli ebrei stranieri presenti nel Paese ed evitare cosí, tra l’altro, che pesassero economicamente sull’Italia. Nonostante le leggi antiebraiche vigenti, la DELASEM ricevette dunque dal governo un consenso che le permise una sostanziale autogestione, libertà di movimento e contatti internazionali con analoghe istituzioni all’estero, cose non comuni per quell’epoca. Aiuto finanziario fu chiesto infatti alle organizzazioni ebraiche di soccorso internazionali: la HIAS (Hebrew Sheltering and Immigrant Aid Society), la sua branca europea HICEM (HIAS - Jewish Colonization Association - United Jewish Emigration Committee) e il Joint (American Jewish Joint Distribution Committee)5. Il primo contingente di migranti assistito dalla DELASEM era di 3000 persone, costituito da polacchi, rumeni, tedeschi e austriaci, contingente destinato ad aumentare con il peggiorare della situazione internazionale.
La DELASEM aveva vocazione puramente assistenziale: finanziava il soggiorno dei profughi, trovava camere d’affitto o pensioni a poco prezzo, aiutava a sdoganare i bagagli, informava sui Paesi disponibili ad accogliere immigranti, assisteva nelle pratiche di emigrazione, forniva vestiario, libri, buoni pasto, consigli relativi ai visti di ingresso in Paesi terzi. L’attività fu frenetica e impegnò i suoi funzionari allo stremo6.
La sede centrale fu stabilita a Genova, città portuale, dove molti profughi erano già affluiti in attesa di imbarcarsi verso le Americhe. Il gruppo dirigente era formato dall’allora vicepresidente dell’UCII, avvocato Lelio Vittorio Valobra, delegato dall’Unione stessa e coadiuvato da uno staff di funzionari: Enrico Luzzatto Pardo come segretario generale, Berl Grosser come vicesegretario, Federico Baquis come tesoriere, e poi Raffaele Noah, Elio Piazza, Harry Klein7. In ognuna delle comunità ebraiche fu nominato un rappresentante locale e un segretario. Questi sono i principali: a Milano, Mario Falco titolare, Alberto Nizza segretario; a Torino, Emanuele Montalcini titolare, Giulio Bemporad segretario; a Modena, Gino Friedmann titolare, Salvatore Donati e Aldo Conegliani segretari; a Trieste, Giuseppe Fano titolare, Carlo Morpurgo segretario; a Bologna, Mario Finzi titolare e segretario. La sede piú importante fu quella di Roma, che poteva sviluppare contatti con ministeri e funzionari di alto livello: il titolare era Gustavo Volterra e il segretario era Settimio Sorani8.
Gli interventi in favore dei profughi furono molteplici: sussidi in denaro, distribuzione di indumenti, aiuto nel trovare pensioni o stanze in affitto a poco prezzo, assistenza medica, assistenza all’infanzia, assistenza religiosa con fornitura di libri di preghiere, azzime per la Pasqua ebraica9.
Inoltre, occorreva tenere i contatti con le autorità italiane alle quali, continuamente, si dovevano chiedere favori e permessi. I contatti epistolari e personali del presidente dell’Unione, Dante Almansi, con il ministero degli Interni erano pressoché quotidiani10. Occorreva inoltre lanciare campagne di raccolta fondi presso persone generose e ancora abbienti. Fra di esse non è da dimenticare l’ingegner Carlo Schapira di Milano, sostenitore della DELASEM e finanziatore di un’altra organizzazione assistenziale ebraica milanese animata dall’ingegnere lituano Israel Kalk, denominata «Mensa dei bambini»11.
Dal punto di vista finanziario, il totale degli importi raccolti e distribuiti dalla DELASEM, nel corso del 1940, ammontò alla ragguardevole cifra di 4 500 000 lire, di cui 2 000 000 circa raccolti tra gli oblatori italiani e 2 500 000 ricevuti da organizzazioni assistenziali straniere. Le...