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Diario di un medico deciso a fare meglio

  1. 256 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Diario di un medico deciso a fare meglio

Informazioni su questo libro

Una fragile donna settantenne viene ricoverata perché «non si sente troppo bene». Si prendono cura di lei un grande chirurgo e un giovane assistente. Il giovane medico presto se ne dimentica. Il grande chirurgo invece, nonostante i molti impegni e i sette piani di scale che dividono il suo studio dalla stanza della donna, torna a visitarla più volte in un giorno. Così capisce la banale ma insidiosa malattia che sta per ucciderla. E la salva.
Nella vita di ciascun uomo esiste una Golden Hour, l'ora d'oro durante la quale chi è vittima di un incidente può essere salvato. In guerra un'ora dura solo cinque minuti. Medici e infermieri in prima linea, supplendo le carenze con l'ingegno, hanno allora ideato una pratica per dividere in più momenti l'intervento su un ferito grave così da farlo arrivare vivo in un ospedale attrezzato.
Lavarsi le mani può sembrare un gesto banale, scontato, quasi inutile. Eppure per un medico ricordarsi di farlo può anche significare, semplicemente, salvare molte vite.
C'è chi sostiene che la medicina, oltre che una scienza, sia anche una delle più sofisticate tecniche attraverso cui l'uomo si prende cura dell'uomo. Atul Gawande, medico chirurgo, ne è convinto e dimostra come ci siano tre condizioni semplici ma fondamentali per fare meglio in medicina, fin da subito. Servono scrupolosità, ingegnosità e voglia di fare la cosa giusta.
Gawande si interroga sulla propria professione, su cosa serve per essere bravi in un campo dove è tanto facile sbagliare, sull'importanza della motivazione personale. E lo fa raccontando le storie vere di medici e pazienti che nel suo diario diventano personaggi in carne ed ossa, ognuno con il proprio volto, la propria storia, mania ed esperienza. Racconta con chiarezza e insieme con calma passione, «in punta di bisturi», dell'importanza di piccoli gesti all'apparenza scontati come dell'impegno davanti a sfide impossibili e disperate. E non ignora le questioni etiche: fin dove può spingersi un medico e dove deve invece fermarsi? Quanto deve essere pagato un dottore e quanto risarcito un paziente vittima di un errore?
Questo è un libro che non solo racconta storie vere, ma è un libro che ci riguarda e che ci parla. Parla della nostra salute, dei nostri corpi, semplicemente delle nostre vite. In attesa dei grandi progressi e degli importanti risultati della ricerca scientifica, offre una calda e lucida riflessione su ciò che può essere fatto fin da subito. Con cura. «Con cura parla dei nostri errori, di come li facciamo e di cosa impariamo dopo averli commessi. Anche se ha come protagonista un medico, il suo messaggio è davvero universale: e contro ogni aspettativa, è un messaggio di assoluto, coinvolgente ottimismo. È un testo pieno di slancio e intuizione, dalla prosa scintillante, che si legge in un fiato».

The Independent

«Questo libro di Gawande sollecita tutti, medici e non, a fare meglio».

The New York Times

Domande frequenti

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2018
Print ISBN
9788806191467
eBook ISBN
9788858428368
Parte seconda

Fare la cosa giusta

Nudità

In Viaggio a Kandahar, il film che Mohsen Makhmalbaf ha girato in Afghanistan nel 2001, sotto il regime dei talebani, c’è una scena delicata e affascinante in cui a un medico, un uomo, viene chiesto di visitare una donna. Sono separati da una coperta scura che pende tra loro come un sipario. Dietro, la donna è coperta dal burka dalla testa ai piedi. I due non si parlano direttamente. Il figlio della donna, un ragazzino di sei o sette anni, fa da intermediario.
– Ha male allo stomaco, – dice.
– Vomita il cibo? – chiede il dottore.
– No, – dice la donna, in modo perfettamente udibile, ma il medico attende come se non avesse sentito.
– No, – gli dice il ragazzino.
Per effettuare le visite, nel sipario c’è un’apertura circolare di pochi centimetri. – Dille di avvicinarsi, – dice il medico, e il bambino obbedisce. Lei avvicina la bocca al foro, attraverso il quale lui guarda. – Dille di avvicinare un occhio, – dice lui. E cosí va avanti la visita. A tanto, evidentemente, possono arrivare le richieste di decenza.
Quando cominciai la pratica chirurgica, avevo idee piuttosto confuse sulla deontologia professionale. Negli Stati Uniti non esistono standard consolidati, le prospettive sono incerte, e la materia è gravida di rischi. Le visite mediche sono una cosa molto intima, e l’approccio del medico al corpo nudo – soprattutto se il medico è un uomo e il paziente è una donna – solleva immediatamente questioni di correttezza e fiducia.
Si direbbe che nessuno abbia scoperto l’approccio ideale. Un chirurgo iracheno mi ha raccontato la prassi delle visite mediche nel suo paese. Lui non ha esitazioni a far spogliare completamente una paziente se la visita lo rende necessario, ma dal momento che non è visto di buon occhio che medico e paziente di sesso diverso restino soli, la donna sarà sempre accompagnata da un parente. Le donne non si tolgono i vestiti né indossano un camice. Scoprono invece solo una piccola parte del corpo per volta. Solo di rado si chiede a un’infermiera di fare da chaperon: se il medico è una donna non è necessario, e se è un uomo, ci sarà un membro della famiglia a garantire che non accada nulla di sconveniente.
A Caracas, stando al racconto di un medico venezuelano, alle donne viene virtualmente garantita una chaperon per le visite senologiche e pelviche, a prescindere dal sesso del medico. «Cosí si evitano gli equivoci», mi ha detto il medico. Ma la chaperon deve appartenere allo staff sanitario. Cosí si fanno uscire i famigliari dall’ambulatorio, e si fa entrare un’infermiera. Se non ce n’è una disponibile o la paziente la rifiuta, non si effettua la visita.
Un’internista di Kiev mi ha detto che non le risulta che nel suo paese i medici ricorrano a una chaperon. Ho dovuto spiegarle cos’è una chaperon. Al che lei ha precisato che in Ucraina i famigliari, uomini o donne, vengono invitati a uscire dall’ambulatorio. Medici e pazienti indossano un’uniforme, la paziente un camice bianco monouso, il medico una giacca bianca. Usano sempre i cognomi, evitando qualunque confidenza che possa dar adito a equivoci. A suo avviso, tale comportamento è piú che sufficiente a stabilire un rapporto di fiducia e a impedire fraintendimenti.
A quanto pare i medici hanno molteplici opzioni.
Nell’ottobre 2003, ho fissato il mio orario di visite, e ben presto sono arrivati i primi pazienti. Mi resi conto che era la prima volta che mi trovavo veramente solo con i pazienti. Nessun supervisore nella stanza o in procinto di entrare; nessun brusio del personale del pronto soccorso al di là di una tenda. Solo il/la paziente e io. Ci mettevamo seduti. Parlavamo. Mi informavo sulle ragioni della visita, su precedenti problemi di salute, eventuali cure, anamnesi famigliare e sociale. Poi veniva il momento di dare un’occhiata.
Devo ammettere che ci sono stati momenti poco eleganti. Io avevo un’istintiva avversione per i camici. Quelli del nostro ospedale sono indumenti sgraziati, di tessuto sottile o di carta altrettanto sottile. Sembrano fatti apposta per lasciare il paziente inerme e al freddo. Per rispetto della loro dignità, decisi di visitare i miei pazienti con i loro abiti addosso. Se una paziente con calcoli biliari indossava una gonna non c’erano problemi, poteva togliersela per la visita addominale. Poi però ne capitava una in collant e abito intero e me la ritrovavo con il vestito arrotolato intorno al collo, le calze intorno alle ginocchia, e tutti e due lí a chiederci cosa diavolo stesse succedendo. Controllare un nodulo al seno era maneggevole, in teoria: la donna si slacciava il reggiseno e sollevava o sbottonava la camicetta. Ma in pratica era piuttosto bizzarro. Perfino il controllo delle pulsazioni femorali poteva essere difficoltoso. L’arteria femorale si palpa nella piega del pube e certe mutande non si possono tirar su abbastanza, ma anche abbassarle fino alle caviglie… be’, dovetti rassegnarmi a far indossare ai pazienti quei dannati camici, e senza dubbio lo chiedevo piú spesso alle donne. Quando ho domandato a un’amica urologa se fa indossare il camice agli uomini per una visita ai genitali o un controllo rettale, mi ha detto: No, basta che gli chiediamo di abbassare la lampo, sia tu che io.
Quanto alla presenza di una chaperon con le donne, non avevo fatto una scelta precisa. Mi rendevo conto che chiamavo sempre un’infermiera per l’esame pelvico mentre di solito non lo facevo per le visite senologiche. Per le visite rettali avevo un comportamento discontinuo.
Feci un’inchiesta tra i miei colleghi e ne ebbi risposte estremamente variegate. Molti mi dissero che chiamavano una chaperon per ogni tipo di indagine pelvica e rettale – «qualunque cosa al di sotto della vita» – ma raramente per le visite senologiche. Altri la chiamavano per le visite al seno e alla pelvi, ma non per i controlli del retto. Alcuni non la chiamavano in nessun caso. Un ginecologo mi disse che circa la metà dei medici maschi del suo reparto d’abitudine non ricorrevano alle chaperon. Termine che lui detesta perché sottintende che la diffidenza è inevitabile. Accetta comunque di far entrare un’«assistente» per le visite pelviche e senologiche. Una presenza che, dopo la prima visita, gran parte delle sue pazienti non considera piú necessaria. Se poi la paziente desidera che la sorella, il compagno o la madre restino durante la visita, lui non fa obiezioni, pur sapendo che un famigliare non ci tutela da un’accusa di scorrettezza. Poiché tuttavia le pazienti non sono tutti uguali, conta sul proprio acume per decidere se sia saggio far entrare un’infermiera come testimone.
Uno dei miei colleghi, che ha fatto una parte del tirocinio a Londra, trovava inspiegabile la discontinuità del nostro comportamento: – In Gran Bretagna, non avrei mai fatto una visita addominale a una donna in assenza di infermiera. Invece qui al pronto soccorso, quando ne chiedo una perché mi accingo a una visita senologica o rettale o al controllo di noduli inguinali su una donna, mi trovano stravagante, «Entra e procedi!» – mi dicono. – In Gran Bretagna, saresti matto o stupido a fare questo tipo di visite, o anche semplicemente il controllo delle pulsazioni femorali, specie su una donna giovane, senza una chaperon. Non ci vuole molto, bastano le rimostranze di una paziente: «Sono arrivata che avevo male a un piede e il medico ha cominciato a bazzicare intorno al pube» e ti ritrovi sospeso e indagato per molestie sessuali.
In Gran Bretagna i protocolli sono molto rigorosi: il General Medical Council, il Royal College of Physicians e il Royal College of Obstetricians and Gynaecologists specificano che a tutti i pazienti che si sottopongono a «visita intima» dev’essere offerto un/una chaperon, quale che sia l’appartenenza di genere del medico e del paziente. La presenza di una chaperon è vincolante quando una paziente deve sottoporsi a una visita intima e il medico è un uomo. La chaperon dev’essere membro dello staff sanitario e il suo nome viene registrato nella cartella clinica. Se la paziente la rifiuta e la visita non è urgente, viene rimandata a quando potrà essere effettuata da un medico donna.
Negli Stati Uniti, in assenza di analoghi protocolli, i pazienti non sanno bene cosa aspettarsi da noi. In ogni caso, qualche minima linea guida è stata fissata. La FSMB (Federazione degli Ordini statali dei medici) ha dichiarato che toccare i genitali o il seno per scopi non terapeutici costituisce violenza sessuale ed è un’offesa perseguibile. Lo stesso vale per i contatti orali con il paziente, l’incoraggiamento alla masturbazione in presenza del medico, e per la richiesta di prestazioni sessuali in cambio del proprio servizio. È considerato scorrettezza sessuale – che non implica contatto fisico ma è parimenti condannata – anche chiedere appuntamento a un paziente, criticarne l’orientamento sessuale, fare commenti sul corpo o l’abbigliamento del paziente, e mettersi a discutere le proprie esperienze e fantasie sessuali. Non posso dire che qualcuno mi abbia edotto in proposito, all’università, ma mi piace pensare che non fosse necessario.
Le difficoltà per i medici che si comportano correttamente nascono dal fatto che molte visite mediche sono intrinsecamente ambigue. Qualunque paziente può chiedersi: Ma era veramente necessario che il dottore mi toccasse lí? E quando il medico fa semplicemente l’anamnesi della storia sessuale del paziente, si può essere veramente certi del suo scopo? Il fatto che a tutti i medici sia capitato di arrossire o di vedere i propri pensieri prendere strade inopportune durante una visita medica ne svela la potenziale ambiguità.
Il clima di una visita ambulatoriale può mutare per una singola parola, una battuta, un commento su un tatuaggio inaspettato. Un chirurgo mi ha raccontato che una volta una giovane paziente aveva espresso la sua preoccupazione per un gonfiore a una «tetta», ma quando lui aveva usato lo stesso termine aveva mostrato un forte imbarazzo e poi aveva fatto reclamo. Una donna che conosco ha lasciato il suo ginecologo perché durante una visita si era lasciato sfuggire un commento ammirato sulla sua abbronzatura.
L’indagine in sé – il come e dove si tocca – è ovviamente il terreno potenzialmente piú vischioso. Se il paziente comincia anche solo a dubitare dell’operato del medico, c’è evidentemente qualcosa che non va. E allora, come dobbiamo comportarci?
Le ragioni per fissare standard professionali piú rigidi, piú uniformi, sono molte. La prima è proteggere i pazienti. Circa il 4 per cento dei provvedimenti disciplinari presi dagli Ordini statali dei medici contro i loro membri sono per violazioni di carattere sessuale. Un medico su duecento durante la sua carriera è indagato per scorrettezze sessuali verso i pazienti. In alcuni casi l’oltraggio si è spinto fino ad avere rapporti sessuali durante la visita pelvica. Nella maggior parte dei casi si trattava di medici uomini e pazienti donne, e di fatto sempre in assenza di una chaperon.
Una normativa piú chiara servirebbe anche a ridurre le false accuse a danno dei medici – in tali casi le chaperon costituiscono la migliore difesa – e a prevenire scorrettezze da parte dei pazienti. Da una ricerca del 1994 risulta che il 72 per cento delle studentesse e il 19 per cento degli studenti di medicina sono stati almeno una volta oggetto di approccio sessuale da parte di pazienti. Il 12 per cento delle ragazze erano state in qualche modo molestate.
Detto tutto ciò, eliminare le molestie e le accuse sembra una priorità sbagliata quando si indaga sul comportamento dei medici mentre esaminano il corpo del paziente. Non perché il problema sia infrequente – anche se le statistiche suggeriscono che lo sia – o perché sia impossibile la totale prevenzione delle scorrettezze, la tolleranza zero, ma perché le misure per una prevenzione totale assumono contorni inevitabilmente talebaneschi e rischiano di danneggiare i pazienti scoraggiando esami completi e in profondità.
La principale ragione per promuovere standard professionali piú rigidi è invece quella di accrescere la fiducia e la comprensione tra medico e paziente. L’informalità cui sono oggi improntati i servizi medici, con la sparizione dei camici bianchi e l’abitudine a darsi del tu tra medico e paziente, ha offuscato i chiari confini di un tempo. Se sono incerti i medici sul galateo in ambulatorio, perché non dovrebbero essere incerti i pazienti? Perché sorprendersi dei fraintendimenti? Abbiamo buttato a mare le vecchie consuetudini ma non siamo riusciti a rimpiazzarle.
Mio padre, che è un urologo, ha molto riflettuto su come evitare simili incertezze. Mi ha raccontato che ha sempre percepito la fragilità della sua condizione di straniero, di immigrato indiano che faceva il medico nella nostra piccola cittadina dell’Ohio. In mancanza di linee guida per rassicurare i pazienti sul fatto che il suo modo di operare è prassi normale in urologia, fa tutto ciò che può per evitare qualunque problema.
Intanto si presenta sempre in camice bianco e cravatta. È estremamente cortese. Anche se conosce e frequenta molti dei suoi pazienti, e non esita a parlare con loro di questioni private (argomenti che vanno dall’impotenza alle relazioni sessuali), mantiene un linguaggio strettamente professionale. Se una paziente deve togliersi la gonna, esce mentre si spoglia. Nel corso dell’intera visita si fa un punto d’onore di spiegare ciò che fa e perché lo fa. Se la paziente è distesa e deve abbassare di piú una cerniera o sbottonarsi un ulteriore bottone, non la aiuta. Indossa i guanti anche per le visite addominali. Se la paziente ha meno di diciotto anni, chiama un’infermiera, che la visita sia «intima» o meno.
Il suo metodo funziona. Ha molto lavoro. Non ci sono mai stati pettegolezzi. Da ragazzo conoscevo molti dei suoi pazienti e avevo l’impressione che si fidassero completamente di lui.
Ma non tutte le sue abitudini vanno bene per me. I miei pazienti hanno problemi sopra e sotto la vita, e avere una chaperon per ogni visita addominale di routine o per l’esame di un linfonodo ingrossato sotto un’ascella mi sembra assurdo. Uso i guanti solo per le visite ai genitali. Tuttavia ho cercato di emulare lo spirito delle visite di mio padre, decoro nel linguaggio, rispetto del pudore, accuratezza della visita. E via via che riflettevo sul suo esempio, anch’io ho fatto dei cambiamenti: adesso faccio entrare un’assistente sia per le visite pelviche sia per quelle senologiche e rettali. – Se per lei va bene, – dico, – chiamo Janice a farci da chaperon.
È spiacevole constatare come sia facile pregiudicare una carriera, in medicina. Arrivi con il tuo bagaglio di esperienza e tecnologia, e non t’immagini nemmeno che una semplice questione di forma può distruggerti. Invece l’aspetto sociale della professione si rivela importante quanto quello scientifico: meglio essere disinvolti o formali, reticenti o espliciti? E ancora: mostrarsi umili, sicuri di sé, attenti al denaro? Il nostro lavoro contro la malattia non comincia con interazioni genetiche o cellulari, bensí umane. È questo che rende la medicina cosí complessa e affascinante. Il modo in cui ogni interazione viene negoziata può essere determinante. Da essa dipendono la fiducia nel medico e l’ascolto del paziente, una diagnosi esatta e la giusta terapia. Ma non esistono formule perfette.
Pensate, per esempio, alla mia soluzione con la chaperon. Un’amica trentenne di Manhattan è andata da un dermatologo per via di un neo che la preoccupava. Il medico era sulla sessantina e assolutamente professionale. Al momento di esaminare il neo e verificare se ce ne fossero altri sotto il camice di garza, fece entrare una chaperon. Ovviamente per rassicurare la mia amica. Ma la chaperon, un’infermiera che stava a guardare mentre il medico ispezionava il suo corpo, la faceva sentire ancora piú a disagio.
– Era strano, – mi ha detto la mia amica. – L’idea stessa di chaperon sembra un allarme: Attenzione! questa è una situazione ad alto rischio, e per evitare controversie luiha-detto, lei-ha-detto, quest’infermiera se ne starà muta e immobile in un angolo! Finisce che ti senti ancora piú a disagio, si crea una tensione da allarme rosso che trasforma una normale visita medica in un cupo dramma vittoriano.
Viene da chiedersi se sia un bene o un male far entrare un’infermiera. Sono propenso a credere che faccia piú bene che male. Ma non è detto, non esistono statistiche in merito. Il che conferma che in ambito medico si presta scarsa attenzione alle relazioni umane e alle loro difficoltà. In quello che può apparire come un normale appuntamento di lavoro confluiscono innumerevoli cose, deontologia e denaro, etica e rabbia. Sono relazioni personali profonde, che implicano promesse, fiducia e speranza, il che fa di un corretto comportamento professionale qualcosa di piú di una questione di risultati e statistiche. Bisogna anche fare la cosa giusta, e decidere quale sia la cosa giusta può essere spaventosamente difficile. Fai entrare una chaperon oppure no? Se, visitando un paziente, trovi un neo che ti sembra preoccupante ma una seconda opinione ti smentisce, riconsideri la tua diagnosi oppure no? Quando hai tentato varie terapie e tutte sono fallite, continui a lottare o rinunci? Le scelte sono inevitabili. Nessuna scelta è perfetta, ma le nostre scelte possono essere migliorate.

Riconoscere i propri errori

Era un normale lunedí mattina al tribunale della contea di Cambridge, Massachusetts. In calendario cinquantadue udienze per cause penali e centoquarantasette per cause civili. Nell’aula 6A veniva processato Daniel Kachoul: tre accuse di stupro e tre di aggressione. Nell’aula 10B David Santiago veniva processato per traffico di cocaina e detenzione illegale di arma da fuoco. Nell’aula 7B era in corso l’istruttoria di un processo civile, Minihan versus Wallinger per incidente automobilistico. E nell’aula attigua, 7A, il dottor Kenneth Reed affrontava un processo per errore terapeutico.
Reed, dermatologo, specializzazione a Harvard e ventun anni di vita professionale, non aveva mai subito accuse del genere in precedenza. Quel giorno veniva sentito in merito a due visite ambulatoriali e una telefonata avvenute parecchi anni prima. Nell’estate del 1996, una donna di cinquantacinque anni, Barbara Stanley, si era rivolta a lui su indicazione del proprio internista per controllare un neo di mezzo centimetro, scuro e spesso, sulla coscia sinistra. In ambulatorio, con anestesia locale, Reed ne aveva prelevato la sommità per la biopsia. Pochi giorni dopo il referto del patologo diagnosticò con quasi assoluta certezza un tumore alla pelle: melanoma maligno. Al successivo appuntamento, Reed disse che bisognava asportare radicalmente. Il che significava asportare anche un margine di due centimetri di pelle sana. Preoccupato di eventuali metasta...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Introduzione
  4. Parte prima. Scrupolosità
  5. Parte seconda. Fare la cosa giusta
  6. Parte terza. Ingegnosità
  7. Postfazione. Consigli per diventare devianti positivi
  8. Ringraziamenti
  9. Il libro
  10. L’autore
  11. Dello stesso autore
  12. Copyright