Inarrestabile
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La mia vita fin qui

  1. 280 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Inarrestabile

La mia vita fin qui

Informazioni su questo libro

Florida, 1994. Un padre e una figlia scendono da un taxi scalcinato per bussare alle porte della famosa accademia di tennis di Nick Bollettieri. Vengono da un paese reduce dal crollo dell'Unione Sovietica, non parlano una parola di inglese e la bambina ha soltanto sei anni e una racchetta troppo grande per le sue braccia minute. Il padre, però, è certo che diventerà una campionessa, ed è disposto a tutto pur di far fruttare il suo talento. Quella bambina è Maria Sharapova, e a soli diciassette anni vincerà il torneo di Wimbledon sconfiggendo la storica avversaria Serena Williams. È il primo atto di una rivalità unica nel tennis femminile e l'inizio di una carriera costellata di trionfi. In queste pagine, per la prima volta, è Maria stessa a raccontarcela. Dai primi anni in Ucraina ai durissimi allenamenti sotto l'occhio vigile del padre manager, fino al successo planetario e agli scandali che non sono bastati a fermarla. Nel mezzo, una strabiliante serie di record e vittorie, che l'hanno resa una delle atlete piú amate e invidiate di tutti i tempi.

«Come si diventa numeri uno del tennis mondiale? Nella sua prima autobiografia, Maria Sharapova racconta in presa diretta l'epopea di una campionessa, l'origine della rivalità incandescente con Serena Williams e le radici della sua incrollabile determinazione».
The Guardian «Maria Sharapova non si è mai arresa, neppure quando i sospetti di doping e il biasimo unanime della comunità sportiva hanno minacciato di incrinare una carriera fin lí esemplare. Ha lottato e si è rialzata. Inarrestabile è il racconto di formazione di un'atleta unica al mondo, che ha saputo seguire la propria strada contro tutto e tutti».
Vogue

Domande frequenti

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2018
Print ISBN
9788806236694
eBook ISBN
9788858428580

Undici

L’anno del circuito professionistico si snoda attraverso le quattro stagioni. Parte in Australia a fine dicembre o ai primi di gennaio con uno o due tornei – per seguirli in tv in America bisogna mettere la sveglia nel cuore della notte – che preparano al primo Grande Slam, quello di Melbourne.
Il 2004 sarebbe risultato uno degli anni migliori della mia vita. Solo due anni prima, alla fine del 2002, ero classificata numero 186 del mondo. Alla fine del 2003 ero la numero 32. Stavo scalando il ranking nella direzione giusta e quell’anno avrei proseguito su quella traiettoria.
Iniziai la stagione con un ottimo risultato all’Australian Open, di gran lunga migliore del fiasco dell’anno precedente. Sconfissi al primo turno in due set Conchita Martínez Granados (questo sí che è un nome!) Ero entrata come testa di serie numero 28, ossia non tra le primissime, ma comunque in posizione tale da essere osservata.
Era la prima volta che partecipavo a un torneo del Grande Slam come testa di serie, invece che da wild card. Già allora il mio punto di forza erano la concentrazione e la determinazione, il mio sguardo d’acciaio. Potevano battermi costringendomi a muovermi in avanti o facendomi giocare una palla in piú, ma se mi guardavano negli occhi non c’era speranza. Quell’espressione in campo l’ho presa da Jurij.
La sede dell’Australian Open a Melbourne è bellissima. Il torneo inizia a fine estate, dopo il raccolto, e a volte da lontano arriva l’odore della sterpaglia bruciata nei campi e dal cielo piove una cenere impalpabile, portata dal vento, che ricorda la neve, sembra quasi un miracolo. Al secondo turno avevo ormai preso il ritmo, arrivavo sul posto quattro ore prima del match, andavo in campo a fare il riscaldamento, e poi mi vedevo con Jurij e il mio allenatore dell’epoca, Eric van Harpen.
Vinsi il secondo incontro in due set, battendo Lindsay Lee-Waters, di dieci anni piú grande di me – un secolo per il tennis. È strano questo sport, un continuo via vai, c’è chi arriva e c’è chi parte. Io ero una ragazzina agli esordi della carriera, avevo vinto qualche grande partita, ma il successo vero l’avevo ancora davanti. Io arrivavo, la mia avversaria invece era sul punto di andarsene.
In un batter d’occhio mi ritrovai al terzo turno, perdendo solo undici game in totale. Tutto stava andando per il meglio, come se quello che mi avevano insegnato Robert Lansdorp, Nick Bollettieri, Jurij Judkin e mio padre nelle ore passate sui campi lo avessi all’improvviso metabolizzato nelle braccia e nelle spalle, dando vita a colpi omogenei, piatti e tesi, rispondendo aggressiva e piazzando il servizio negli angoli. Forse arrivai a quel terzo turno un po’ troppo sicura di me e, quando è cosí, spesso l’avversaria ti rimette al tuo posto. In quel caso fu Anastasija Myskina, un’altra valida tennista russa. Aveva qualche anno piú di me e tra noi era in realtà la migliore in campo, anche se non ne aveva consapevolezza perché mancava di potenza esplosiva. Tuttavia aveva il senso del gioco, riusciva ad anticipare i colpi senza fatica, con naturalezza, sapeva rispondere a qualunque palla, anche la piú forte e profonda, rimettendola in campo con la massima precisione. Arrivai alla partita esaltata, con la sensazione di poter battere chiunque grazie alla mia potenza e all’intensità del mio gioco. Probabilmente ero troppo contenta, forse sottovalutai la mia avversaria, la sua tempra, la capacità di ribattere ogni palla. Vincere una partita di tennis è un po’ come ricevere l’illuminazione della fede: non basta impegnarsi, serve una grazia, che non va mai data per scontata.
Anastasija mi sconfisse in tre set: 6-4, 1-6, 6-2. Era un’atleta in ascesa, quello sarebbe stato l’anno migliore della sua carriera nel circuito. Andò a vincere al Roland Garros in primavera e si classificò numero 3 del mondo. Dopodiché iniziò il suo declino. In un certo senso io stavo arrivando mentre lei presto sarebbe andata via.
Ovviamente tutto questo non mi fu di nessun aiuto al momento della sconfitta, quando le cedetti l’ultimo punto e mi avviai mesta alla rete per stringerle la mano. Odio perdere e immagino che sia cosí per tutti gli atleti, non si impara mai ad accettarlo, né si dimentica, ti senti morire, e basta. Nel tempo ho messo a punto delle strategie per affrontare il dolore bruciante della sconfitta, partendo dall’«imparare dai propri errori». Ogni sconfitta ti insegna qualcosa: prima impari la lezione e dimentichi di aver perso, meglio è. L’ultima cosa da fare dopo una sconfitta è parlarne e continuare a ripetersi che è solo tennis, solo un gioco. Perché ovviamente non ci credi. È difficile mantenersi calmi quando si perde male, in quel momento la partita è tutto e la sconfitta è imbarazzante: ti osservano, ti giudicano, ti chiedono di spiegare cosa è andato storto. Cosí ti ritrovi davanti all’armadietto a pensare: «Cosa cazzo dico in conferenza stampa? E la mamma quando la chiamo, adesso o meglio dopo? Cosa mi metto, magari un cappellino per nascondere gli occhi gonfi di lacrime sotto la visiera? E che mi diranno i nonni per consolarmi quando telefoneranno, ossia fra tre minuti? Ancora gli dispiacerà per questa partita quando li rivedrò, tra due settimane? E devo chiamare la mamma, che cercherà inutilmente di tranquillizzarmi? Ci vorranno ore prima che mi passi». No, non è solo tennis, in quei momenti la sconfitta riguarda tutto e tutti e non riesci a non pensare a quello che dovrai dire e fare. C’è da prendere il biglietto aereo, perché hai finito e devi andartene, bisogna fare le valigie e sbrigarsi, ma non hai voglia di rientrare in hotel perché tutti ti conoscono e tutti sanno che hai perso e ti guarderanno con commiserazione, che è la cosa peggiore, mentre altri occhi saranno pieni di gioia per la tua sconfitta.
Riporto un brano tratto dal diario che tenevo in quei primi anni:
Col tempo ho trovato la cura adatta a me, la chiamo «shopping-terapia». Quando ti senti giú, non andare dallo psicologo, ma comprati un paio di scarpe, di quelle belle, e d’incanto le tue pene svaniranno. Perché dare 300 dollari a un analista quando con quella cifra puoi avere sempre con te un paio di scarpe stupende? Gente, un po’ di buon senso!
Forse la cosa piú importante sulla sconfitta e su come gestirla l’ho imparata dal comportamento di una persona che mi ha fatto un regalo inconsapevolmente. O forse consapevolmente, non si può mai dire. Fu in occasione di un torneo, non ricordo dove, e Kim Clijsters – una tennista belga che avevo sempre ammirato – nonostante fosse stata sconfitta presto, proprio all’inizio, non sembrava affatto a disagio. La incrociai fuori dallo spogliatoio e inizialmente distolsi lo sguardo, poi invece la fissai: non si sa mai come comportarsi in situazioni del genere. Questa volta ero io a provare compassione. Kim era diretta alla conferenza stampa, ossia nella fossa dei leoni. È famosa nel circuito per il suo carattere gioviale, è solare e sorridente, ma in campo si trasforma, diventa dura e feroce, una presenza fisica importante. Se c’è un’atleta simpatica a tutti è proprio Kim Clijsters, la classica brava ragazza che non farebbe del male a nessuno. Stava andando in sala stampa dopo aver perso al primo o secondo turno ed era calma e rilassata. Sembrava addirittura contenta! Penso fosse perché aveva avuto un bambino, era diventata madre: le esperienze fuori dai campi da tennis possono fare miracoli. È una questione di prospettive. La guardai piena di ammirazione e da allora ogni volta che ho perso ho ripensato all’atteggiamento ammirevole di Kim dopo la sconfitta. Mi ha insegnato che quando ti buttano a terra devi rialzarti sorridendo, come se nulla fosse.
Dopo la sconfitta tornai in Florida, avevo un paio di settimane per migliorare prima dell’avvio dei tornei statunitensi su cemento e le trascorsi in accademia ad allenarmi ore e ore, affilando le armi in vista delle successive competizioni. Fu allora che per la prima volta affrontai Serena Williams. Ero quasi sollevata, mi sembrava di averle girato attorno per anni. Avevo sentito parlare di Venus e Serena da mio padre fin da quando avevo sei o sette anni; a dodici le avevo viste giocare dal buco del casotto di legno di Bollettieri; a quattordici avevo guardato Serena in abito da sera dal mio posto al tavolo degli juniores al ballo di Wimbledon; ora la vedevo nell’unico modo e dall’unica prospettiva che conta, cioè dall’altra parte della rete di un campo da tennis. Fu al Miami Open, nell’aprile 2004. Arrivai in anticipo, come è tipico dei giocatori inferiori in classifica, e restai un po’ a guardarmi attorno. Poi arrivò Serena. Non si è mai preparati alla sua presenza in campo.
Qualche anno fa la mia amica Chelsea Handler venne a vedermi giocare alle Olimpiadi di Londra. Non seguiva il tennis, preferiva di gran lunga il suo bicchiere di Pimm’s a qualunque cosa accadesse in campo, ma quando Serena arrivò a giocare la partita per la medaglia d’oro – al cento per cento della forma – Chelsea la guardò e, rivolta al mio allenatore esclamò: – Ma che cosa si può fare contro questa qui? – È esattamente cosí che mi sono sentita entrando in campo contro di lei per la prima volta. «Che posso fare?» Innanzitutto di persona è molto piú possente di quanto appaia in tv. Ha braccia e gambe poderose, l’aspetto minaccioso ed è alta, altissima. Prendeva tutto il campo oltre la rete, se cosí si può dire, è questione di presenza fisica, di sicurezza, di personalità. A Miami sembrava molto piú grande di me. Io stavo per compiere diciassette anni e lei era già una donna adulta, esperta, la miglior tennista del mondo. Ancora oggi in sua presenza mi sento una bambina.
Appena inizi a giocare, capisci che devi fare i conti con la sua sicurezza, è lí che devi colpire se vuoi avere la minima opportunità di batterla. Certo, il suo servizio, i colpi da fondo e il movimento in campo sono insidiosi, ma è l’atteggiamento che ti batte. Serena guarda oltre la rete quasi con disprezzo, come se tu fossi una nullità. È la maschera che usa in partita, ma funziona, intimidisce. E poi c’è il suo carattere, impulsivo e imprevedibile, non teme di mettersi a urlare, di lanciare la racchetta, di far polemica con gli arbitri. All’inizio ti incuriosisce, poi ti irrita, in maniera forse intenzionale – lei si sfoga e le avversarie si infuriano; si comporta come se fosse sola in campo, l’unica persona che conta, mentre tu sei un ostacolo, un dosso artificiale, una nullità. È una mentalità che hanno molti grandi campioni, Serena piú di tutti. So per esperienza che il modo migliore di affrontare questo genere di persone è mantenere il controllo, mostrarsi assolutamente calmi, una cosa che li manda in bestia.
Serena vinse la partita, ma io mi resi conto che continuando ad allenarmi sarei arrivata vicino al suo livello, e forse riuscii a instillarle qualche dubbio. A tratti avevo avuto la sensazione di poter reggere la profondità, la potenza e la velocità dei suoi colpi; uno spettatore ignaro avrebbe avuto difficoltà in certe fasi della partita a distinguere l’esordiente dalla campionessa. Per me fu come affrontare una fobia. È questo che fanno i campioni: in parte puntano sul timore che incutono, una sorta di bolla che li protegge. Se si buca, tutto è possibile.
Partii per l’Europa qualche giorno dopo. Volevo allenarmi e abituarmi alla terra battuta prima che iniziasse la stagione europea. La Img mi organizzò una breve permanenza presso l’Accademia Ferrero di Villena, in Spagna. Alloggiati nei bungalow c’erano anche un paio di altri professionisti che si allenavano su quei campi, incluso l’eroe del posto, Juan Carlos Ferrero. In quelle settimane, guardando Ferrero in allenamento e fuori dal campo, il suo modo di parlare, di porsi, il gesto di scostare il ciuffo dagli occhi, mi presi una folle cotta per lui.
Ferrero – oggi quarantenne e ritirato dalle competizioni – era magro, non troppo alto, con una massa disordinata di capelli schiariti e lo sguardo caldo e birichino. Giocava a tennis da quando era troppo piccolo per sapere se davvero lo desiderava, come tutti noi, ma aveva un atteggiamento distaccato, era calmo, imperturbabile. Nella stagione precedente, l’edizione 2003, aveva vinto al Roland Garros. La foto scattata dopo aver conquistato il punto decisivo mi era rimasta impressa: esprimeva soddisfazione, gioia e sollievo. Quando vinci, finalmente ti liberi di tutta la tensione e dello stress, vivi il momento invece di essere proiettato nel futuro in attesa del prossimo colpo da ribattere. Devo aver visto la foto su una copertina in edicola, o su un giornale buttato dietro il sedile di un aereo. Ferrero aveva appena vinto il match, la palla probabilmente rotolava ancora pigra fuori dall’inquadratura, verso l’avversario sconfitto, Martin Verkerk. Juan Carlos, in ginocchio, guarda verso il cielo come a ringraziare chiunque ci sia lassú a vegliare sui tornei del Grande Slam. Il suo modo di esultare mi colpí. Imito sempre i gesti delle persone che ammiro, non lo faccio apposta, mi viene spontaneo, forse è un modo per ringraziarle. Nel 2004 Ferrero aveva ventitre anni e io sedici, in molti Paesi una relazione tra noi sarebbe stata illegale, ma che dire? Al cuore non si comanda. Non lo perdevo mai di vista, lo osservavo andare e venire nascosta dietro le tende della finestra del mio bungalow. Il grosso problema era che Juan aveva una ragazza! Magari era la persona piú simpatica del mondo, ma come potevo non considerarla di ostacolo alla realizzazione del mio sogno? Quando li vedevo assieme a scambiarsi tenerezze tornavo bruscamente alla realtà: non c’è cosa piú stupida delle infatuazioni adolescenziali.
Jurij non ne sapeva nulla. Ovviamente quando ebbi occasione di parlare con Ferrero, fui educata, timida e goffa, ma lui doveva aver capito. In seguito scoprii che in realtà tutti all’accademia spagnola sapevano. Devo averlo seguito ovunque come un cagnolino. Apprezzai il suo contegno, fu gentile e serio con me, facendomi sentire adulta e importante, ma anche lasciandomi intendere che non c’era storia.
Quella primavera avevamo in calendario parecchi tornei minori, che miravano a farmi guadagnare sicurezza, tempismo e resistenza in previsione dell’Open di Francia. Una sorta di overture. Si arriva a Parigi in maggio, ossia nel periodo migliore dell’anno per godersi la città. Gli spazi del Roland Garros sono un sogno, il mitico stadio dall’atmosfera intima, il verde acceso dei banner che circondano il campo centrale in contrasto con la terra rossa, gli spalti affollati. Entrai come testa di serie numero 19. Le prime due erano Justine Henin e Serena Williams. Justine aveva vinto a Parigi l’anno prima; sulla terra battuta era una delle migliori tenniste di tutti i tempi, se non la migliore: non c’era palla che non fosse in grado di ribattere. Mi faceva diventare pazza con quella sua capacità di rispondere con precisione a tutti i miei colpi perfetti.
Non era alta né potente, ma in quel torneo non influiva, l’Open di Francia non privilegia la potenza, come lo U. S. Open e persino Wimbledon. A Parigi contano fitness e finesse. Se il tempo è secco, e la terra è dura e fredda, il gioco è veloce e la potenza può influire, ma appena pioviggina o c’è un minimo di umidità la terra battuta la assorbe e il campo diventa fangoso e lento, la superficie si fa molle, le palle perdono potenza e la terra trattiene anche i colpi piú forti e piú piatti. Giocare in quelle condizioni è solo questione di tenacia e di esperienza, i professionisti che sono cresciuti su questo terreno ne percepiscono il ritmo e sanno quando arrestare la corsa e iniziare a scivolare, eccellono quando piove, o ha piovuto, o pioverà, una situazione che normalmente si presenta almeno una volta nel corso di un torneo. L’Open di Francia mette in difficoltà anche i grandi campioni. Jimmy Connors, John McEnroe, Martina Hingis, Venus Williams, nessuno di loro ha mai vinto al Roland Garros.
Al primo turno sconfissi in due set, cedendo solo tre game, Barbara Schwartz, un’austriaca dotata di un rovescio mancino a una mano che non era esattamente una passeggiata. Il secondo turno? Un’altra vittoria in due set, stavolta contro l’italiana Rita Grande. Persi solo due game. Tutto il lavoro fatto all’accademia in Spagna stava dando i suoi frutti. Mi sentivo piú forte di quanto fossi mai stata prima su quella superficie. Il terzo turno fu un po’ piú difficile, affrontai una russa, Vera Zvonarëva. Avrei potuto vincere in due set ma nel gioco della mia avversaria c’era qualcosa che mi metteva a disagio, mi dava la sensazione che la partita sarebbe potuta andare avanti fino al terzo set. Vinsi di nuovo in due set al quarto turno contro la tedesca Marlene Weingärtner, nota soprattutto per la straordinaria partita contro Jennifer Capriati all’Australian Open 2003; dopo essere stata sotto di due set: 6-4, 4-1, in qualche modo era riuscita a vincere, segnando il suo momento d’oro.
Cosí, per la prima volta in un Grande Slam, ero arrivata ai quarti di finale, dove avrei affrontato Paola Suárez, un’argentina sveglia e tosta, che nel circuito ha ottenuto molte vittorie. Suárez era 1,73, quindi svettavo su di lei, ma, come ho detto, sulla terra battuta…
Nel frattempo, Max era venuto a Parigi e in Img c’era molta eccitazione, perché per me poteva essere l’anno giusto per avere buoni risultati nei tornei del Grande Slam e salire in classifica. Avevo diciassette anni e due sole partite mi separavano dalla mia prima finale di uno Slam. Tutte le grandi – Serena Williams e Amélie Mauresmo, Lindsay Davenport e Venus Williams – erano state eliminate. Potere della terra battuta! Per un attimo sembrò che mi si aprisse una grande opportunità.
La sera prima della partita Max si trattenne con mio padre al bar dell’albergo.
– Dimmi la verità, Jurij, Maria può vincere sul serio la partita di domani?
Sospirando, Jurij si strinse nelle spalle, deciso a smorzare l’entusiasmo di Max. Mio padre è infatti convinto che farsi troppe illusioni sia deleterio.
– Se quando ci svegliamo domani in cielo non c’è una nuvola forse, dico forse, qualche possibilità c’è.
Suárez aveva molta piú esperienza di me. Con la pioggia i campi in terra diventano lenti, ci vuole piú potenza per far volare la palla, mentre la mia unica possibilità era che il terreno mi consentisse un gioco veloce. Cosí la mattina della partita mi svegliai alle 5 per andare in bagno e tornando a letto scostai le tende per dare un’occhiata al tempo. Indovinate un po’, pareva che ci fosse u...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Inarrestabile
  4. Prologo
  5. Uno
  6. Due
  7. Tre
  8. Quattro
  9. Cinque
  10. Sei
  11. Sette
  12. Otto
  13. Nove
  14. Dieci
  15. Undici
  16. Dodici
  17. Tredici
  18. Quattordici
  19. Quindici
  20. Sedici
  21. Diciassette
  22. Diciotto
  23. Diciannove
  24. Ringraziamenti.
  25. Inserto fotografico
  26. Il libro
  27. L’autore
  28. Copyright