Dieci anni io. Quaranta tu, credo. Cinque passi di distanza, di piú non mi avvicino perché c’è sangue sull’asfalto. Acqua sporca, detriti e il tuo sangue, che mischiato alla pioggia sembra meno denso.
«’O sangue fa bene a terra», diceva nonna Rusenella.
Con la pompa dell’acqua, ’a cannola, pulivamo il selciato dal sangue del maiale appeso ai ganci. La terra avida ingoiava tutto, mentre il corpo scuoiato della bestia, ancora caldo, emanava un vapore che saliva lentamente verso il cielo colore del piombo.
Era un’occasione di festa nella casa in campagna dei miei nonni paterni, era Natale.
Qui invece non c’è niente da festeggiare. Qui la terra non assorbe il liquido rossastro che trabocca e arriva ai miei piedi.
Una donna magra passa veloce e si fa il segno della croce, Padre-Figlio-e-Spirito-Santo. Poi sparisce. Andava di fretta, ma ha trovato il tempo per un gesto di pietà . Un morto è comunque un morto.
– È caduto a llà ’ncoppa.
L’uomo anziano che è qui di fianco a me indica con il bastone il punto esatto. Dice che sei caduto dal quinto piano. Alzo la testa e vedo l’impalcatura su cui ti sei arrampicato. Mio padre lo ripete sempre che le impalcature dei muratori sono una tentazione forte per i ladri.
– Vuleva trasà dinto a quell’appartamento, ha fatto nu passo sbagliato, ed è caduto abbascio, – continua il vecchio sdentato senza rivolgersi a nessuno di preciso, asciugandosi la fronte con un fazzoletto liso.
Quanto dura una caduta dal quinto piano?
Una volta dai fustini del Dash uscivano in regalo dei paracadutisti di plastica. Appena mia madre apriva il cartone, infilavamo le mani dentro e scavavamo nel detersivo. Veniva fuori una busta trasparente sporca di sapone. Salivo fino in cima al mio palazzo e lanciavo il mio paracadutista dalla finestra delle scale al quinto piano: ci impiegava un po’ prima di arrivare al suolo.
Tu però non avevi il paracadute, ci avrai impiegato molto meno di un minuto. Cinque secondi al massimo. Sono stati sufficienti per capire che stavi per morire? È probabile che non ti sia neppure accorto del volo. Per la paura, e anche per la novità . D’altra parte un uomo non sa come si comporterà , una volta finito nel vuoto.
Il braccio destro dev’essersi spezzato, altrimenti non potrebbe stare piegato in quel modo. Anche la tua testa ha una posizione strana, ha fatto un giro quasi completo. Il volto è gonfio, non riesco a capire se hai gli occhi aperti. Quei frammenti bianchi poco distanti devono essere i tuoi denti, il sangue continua a uscirti da un orecchio.
Un’estate andai in colonia con i miei fratelli, quella per i figli degli operai iscritti alla cassa edile di Napoli – mio padre lavorava ancora per la ditta Merolla, prima che fosse licenziato –, e un giorno giocando a calcio scivolai malamente sulla terra nuda. Ero un discreto mediano, ma quell’entrata sull’attaccante mi riuscà male.
Vedendo il segno che hai sulla fronte penso a quella mia ferita, un dolore che ricordo ancora. Anche la tua carne si è aperta, mischiandosi alle pietruzze minuscole e ai frammenti d’asfalto, ma tu non hai sentito il dolore che ho sentito io. Tu non senti piú niente.
Se il Dio di cui parla don Umberto ha ragione, ora potresti essere sospeso a pochi metri dal suolo a guardare il tuo sacco di carne. Forse stai vedendo anche me. Non proprio me in particolare, nemmeno mi conosci. Stai guardando questo gruppetto di persone che ti osserva incuriosito. Ma no, non è cosà probabile. Starai pensando alla tua famiglia, non certo a noi. Forse sei già volato da loro. Cerchi di trattenerli a casa, di non farli uscire, non vuoi che ti ricordino cosÃ. Un corpo martoriato, vuoto e rotto, un cencio di carne e ossa.
Alzo di nuovo la testa e guardo su. Ci sono ancora nuvole in cielo. La luce è abbagliante, mi copro gli occhi. Ti cerco. Anche solo un’ombra, una sfocatura, una piega di luce. Un uomo non può morire nella completa indifferenza della natura. Ma non vedo nulla, solo grigio e cielo insensibile. Ho un lieve giramento di testa. Conto fino a dieci facendo finta di niente. Uno, due, tre… sto già meglio. Nessuno si è accorto del mio malessere. Nemmeno io.
– Buono ce sta, accussà se impara, – dice un uomo con un camice bianco. – Io ’o saccio a chisto! Ha fatto chiagnere a nu sacco ’e gente! – Parla ad alta voce, per essere sicuro di farsi sentire dal vecchio sdentato che è là vicino a lui. – Spaidermà n! ’O chiammaveno Spaidermà n.
– Ah! Aggio capito mo chi è! ’O marjuolo!
– Isso! – conferma l’uomo mentre si pulisce le mani unte sul camice già sporco di grasso. – Era na samenta! – aggiunge. Poi ritorna verso una bottega che dev’essere la sua macelleria.
L’uomo anziano alza le sopracciglia. Poi, barcollando sul suo bastone, va ad appoggiarsi a un muretto poco lontano.
Spaidermà n. Dunque ti conoscono, sanno chi sei. Mio padre invece lo chiamano Capa janca, perché anche se non ha ancora quarant’anni ha già tutti i capelli bianchi. Lo chiamano pure ’o Cafone perché viene dalla campagna, precisamente da Monteruscello, vicino a Pozzuoli. E siccome Pianura è piú vicina a Napoli, i pianuresi si sentono piú civili di quelli di Pozzuoli, che oltretutto hanno un accento molto particolare. Per dire io dicono gljÃe. Mio padre si è un po’ ripulito perché mia madre viene da Bagnoli, che è ancora piú vicina a Napoli rispetto a Pianura, quindi per quelli di Bagnoli sono quelli di Pianura i cafoni. Insomma, solo chi è nato a Napoli non è cafone.
Crescendo e viaggiando, imparerò che il cerchio non si chiude nemmeno a Napoli. Quelli piú a nord in genere non sono cafoni affatto, o comunque lo sono di meno. Tuttavia imparerò anche che non esiste un Nord assoluto. Quando credi di essere arrivato in cima, capisci che ci sarà sempre qualcuno piú su, meno cafone e piú civile di te.
In ogni caso tu, Spaidermà n, sei morto da cafone di Pianura.
Arriva un Califfone col motore truccato e tre ragazzini in sella. Fanno un giro della strada, poi rallentano a pochi metri da dove sei caduto. Hanno brutte facce.
Quello piú piccoletto scende dal motorino e si sporge sul tuo corpo per guardarti meglio. – È isso! – dice. Poi rimonta in sella.
Gli altri due ridono platealmente, il Califfone fa ancora un giro. Il piú grande di loro, quello che era alla guida, mette il motorino sul cavalletto e si sdraia sul sellino con le gambe allungate sul manubrio. Si accende una sigaretta. Fuma lasciando uscire il fumo dai denti stretti. Avranno pochi anni piú di me ma si atteggiano già come se fossero i padroni della strada.
Al piccoletto spunta appena la peluria sul labbro superiore, è fermo a gambe larghe e guarda dritto verso di te.
– Uà , e che fine che ha fatto! – gli sento dire.
– Na fine ’e mmerda!
– Faceva tanto ’o scienziato, e mo sta llà ’nterra ca me pare na guallera moscia!
Ridono sguaiatamente, si sbracciano.
– Che strunzo! – aggiunge il terzo. Poi, non contento, urla: – Spaidermà ! Che morte a strunzo!
Si spingono l’un l’altro. Finché quello piccoletto perde l’equilibrio e va a sbattere contro il motorino, che rovina per terra. Il capo con un balzo riesce a rimanere in piedi e a non perdere la sigaretta, poi rincorre il piccoletto che se la dà a gambe. Quando lo raggiunge lo colpisce con un calcio al volo dritto in mezzo alle palle. Il piccoletto si piega, si contorce. Il capo, soddisfatto, ritorna al motorino gettandosi alle spalle il mozzicone. Il piccoletto raccoglie una grossa pietra e la lancia verso di lui. Lo manca di poco. Il capo si gira di scatto, stringe la lingua tra i denti. Vorrebbe inseguirlo di nuovo, ma stavolta il piccoletto ha piú vantaggio. Allora gli mostra qualcosa che tiene infilato sotto la maglietta, nei pantaloni.
Il piccoletto avanza spavaldo verso di lui allargando le braccia. – E famme vedé, ja! – urla. – Famme vedé che sei capace ’e fà !
Io mi spavento, mi allontano. Mi confondo in mezzo a quella piccola folla. Con la coda dell’occhio, mi accorgo che il capo ha riabbassato la maglietta e sorride sornione.
– Maronna e che puzza che fa quella discarica, io ogni vota che ce passo me sento ’e vummecà .
– Overamente. ’A sera soprattutto, t’acchiappa all’altezza dâ vocca dô stommaco… E nisciuno fa niente!
A parlare sono due signore grassocce che stringono tra le mani buste colme di verdura. Tengono la voce bassa in segno di rispetto, ma il tono è comunque lamentoso.
– Diceno, fanno, ma che devono fà ! Chilli so’ tutti na maniata ’e fetienti!
– E quanno ce ’a portano chiú ’a Madonna ’e Lurdés qua a Pianura? Cu sta puzza ’e munnezza che ce sta!
– Ma quanno avessa essere l’evento?
– Dice ’o preveto che i lavori alla grotta so’ quasi finiti, ma io nun ce credo.
– Vabbuò, ma ’a Madonna capisce tutte cose.
– SÃ, ma ’o scuorno che ce avimma mettere, nun ce pensi?
– Tieni raggione… Comunque, te dicevo che devi provare a non friggerle le mulignane pe’ ’a parmiggiana.
– E comme ’a faccio?
– Grigliata, viene buona ’o stesso e fa pure dimagrÃ! ’O dice ’a signora Francesca a Canale 21!
La tua morte non è la notizia del giorno, forse non sei nemmeno l’unico morto di oggi, figuriamoci il piú interessante. Non sei una novità per il Far West. Cosà chiamano Pianura. Regolamenti di conti, sparatorie in pieno giorno, morti ammazzati e lenzuola bianche chiazzate di sangue a coprire tutto. Non sei uno di quelli su cui piangere disperatamente urlando: «Maronna, me l’hanno acciso!» Un criminale vero, magari morto giovane. Uno di quei benefattori del popolo che tra un omicidio e l’altro dispensa favori al suo seguito di sciacalli.
Si può avere pietà per te, Spaidermà n, ma non ammirazione. Tu sei soltanto un ladro di appartamenti. Solo chi fa paura merita rispetto da queste parti, e quei tre sul Califfone l’hanno capito bene. Già stanno preparando con dovizia di particolari il loro commovente funerale.
Per me è diverso, ho solo dieci anni e tu sei il mio primo morto. Avrei voluto restarti ancora un po’ accanto, invece sono scappato quand’è arrivato il Califfone. Il timore è uno dei sette doni dello Spirito Santo, lo sapevi? L’ho imparato al catechismo.
Non riesco mai a ricordare quali sono gli altri sei, proprio non mi entrano in testa. Sarà per il fatto che don Umberto, dall’altare della chiesa di San Giorgio, insiste sempre sul timore: quello per lui è il piú importante. In ogni caso non mi sono comportato da bravo cattolico, perché ho provato anche rabbia, disprezzo e invidia.
La verità è che io sto imparando da te un altro sentimento, Spaidermà n, qualcosa di nuovo, a cui non so dare ancora un nome.
Il giorno in cui farò il provino per entrare in una scuola di teatro mi ricorderò di te. Saranno passati una decina d’anni dalla tua morte.
Quella mattina stavo prendendo un treno per Roma, e Roma è molto piú a nord di Pianura. Lo è ancora di piú se è la prima volta che ci vai e hai in testa l’idea di allontanarti per sempre da Napoli.
Prima di partire, mentre il treno era ancora fermo in stazione, guardavo chi c’era sulla mia s...