Dopo il buffet freddo, a base di uova ripiene, prosciutto, tosti, caviale, acquavite e champagne, che il segretario politico era solito consumare, nel salone delle feste, prima della seduta, N si presentò per primo nella sala di riunione. Da quando era entrato a far parte del consesso supremo si sentiva al sicuro soltanto in questa sala, anche se era solo ministro delle poste, e i francobolli per la conferenza della pace erano piaciuti ad A, come sapeva per sentito dire dalla cerchia intorno a D e, con maggior attendibilità, da E; ma i suoi predecessori, benché le poste a quei tempi avessero una posizione ancor piú subordinata in seno al meccanismo statale, erano scomparsi senza lasciar tracce, e anche se C, il capo della polizia segreta, lo trattava con molta gentilezza, non era consigliabile indagare sui dispersi. Prima di entrare nel salone delle feste e prima di entrare nella sala di riunione N era già stato perquisito, la prima volta dal tenente colonnello dall’aria sportiva che lo faceva sempre, la seconda volta da un colonnello biondo che N non aveva mai visto; il colonnello che lo perquisiva le altre volte era calvo e doveva essere in ferie, o l’avevano trasferito, o dimesso, o degradato, o fucilato. N posò la borsa sul tavolo centrale e si sedette. L gli si sedette accanto. La sala era lunga e non molto piú larga dello stesso tavolo. Le pareti erano rivestite di legno bruno fino a metà altezza. La parte scoperta delle pareti e il soffitto erano bianchi. I posti a sedere venivano assegnati secondo la gerarchia del sistema. A sedeva a capotavola. Sopra di lui, sulla parte bianca della parete, era appesa la bandiera del partito. Di fronte a lui, l’altro capo della tavola restava vuoto, ed è lí che si trovava l’unica finestra della sala. Era una finestra alta, arcuata in alto, divisa in cinque scomparti e senza cortine. B D F H K M sedevano (visti da A) lungo il lato destro del tavolo, dirimpetto a loro sedevano C E G I L N, accanto a N sedeva ancora P, il capo dei gruppi giovanili, e accanto a M il ministro dell’energia atomica O, tuttavia P e O non avevano diritto di voto. L era il piú anziano del consesso e, prima che A assumesse la direzione del partito e del paese, svolgeva lui le funzioni che ora spettavano a D. L, prima di diventare rivoluzionario, faceva il fabbro. Era grande e largo di spalle, senza aver messo su grasso. Il suo volto e le sue mani erano rozzi, i suoi capelli grigi erano ancora folti e tagliati corti. Non si era sbarbato. Il suo abito scuro faceva pensare al vestito della festa di un operaio. Non portava mai la cravatta. Il colletto della sua camicia bianca era sempre abbottonato. L era popolare nel partito e presso il popolo, si erano create delle leggende intorno alle gesta da lui compiute durante l’insurrezione di giugno; ma quei tempi erano cosí lontani che A lo chiamava «il monumento». L era considerato giusto ed era un eroe, e cosí il suo calo non era un crollo spettacolare ma uno sprofondarsi progressivo in seno alla gerarchia. Il terrore di una denuncia lo minava. L sapeva che un giorno o l’altro sarebbe caduto. Come i due marescialli H e K era spesso ubriaco, persino alle sedute del segretariato non si presentava piú sobrio. Anche adesso puzzava di acquavite e di champagne, ma la sua voce rauca era calma, e i suoi occhi acquosi e iniettati di sangue avevano uno sguardo ironico: «Compagno, – disse a N, – ormai siamo liquidati. O non è venuto». N non rispose. Non ebbe nemmeno un sobbalzo. Si fingeva indifferente. Forse l’arresto di O era una voce, forse L si sbagliava, e se L non si sbagliava, forse la situazione di N non era disperata come quella di L, ch’era responsabile dei trasporti. Quando qualcosa non funzionava nell’industria pesante, nell’agricoltura, nel rifornimento dell’energia convenzionale o atomica (e qualcosa che non funzionava c’era sempre), la responsabilità si poteva sempre addossare anche al ministro dei trasporti. Guasti, ritardi, arresti. Le distanze erano considerevoli, i controlli assai lenti.
Entrarono D, segretario del partito, e il ministro I. Il segretario del partito era grasso, massiccio e intelligente. Portava un abito di taglio militare ispirato a quello di A, secondo alcuni per servilismo, secondo altri per derisione. I aveva i capelli rossi ed era gracile. Dopo la presa del potere da parte di A era stato procuratore generale, un tipo molto risoluto. Durante la prima grossa «purga» riuscí a far ratificare le condanne a morte contro i vecchi capi rivoluzionari, ma commise un errore. Su desiderio di A pretese la pena di morte anche per il genero di quest’ultimo, e quando A intervenne inaspettatamente a perdonare all’ultimo istante suo genero, questi era già stato fucilato, una svista che non solo costò a I la carica di procuratore generale, ma – peggio ancora – lo portò al potere. Venne nominato membro del segretariato politico, cioè inserito nella piú comoda di tutte le liste di fucilabili. Aveva raggiunto una posizione dove gli si poteva far la festa solo per ragioni politiche, e di ragioni politiche se ne trovavano sempre. Nel caso di I esistevano già. È vero che nessuno credeva che A volesse davvero salvare suo genero. Ad A giunse tutt’altro che sgradita la fucilazione del marito di sua figlia (la quale già allora andava a letto con P); solo che adesso A aveva una scusa ufficiale per liquidare I, il giorno che avesse voluto farlo, e siccome non si era mai lasciato sfuggire un’occasione per liquidare qualcuno, ormai I lo si dava per spacciato. I lo sapeva e si comportava come se non lo sapesse, anche se con poca abilità. Anche adesso. Cercava in maniera troppo palese di nascondere la sua insicurezza. Stava raccontando, al segretario del partito, di una rappresentazione del balletto di stato. In ogni riunione I parlava di balletto e faceva sfoggio di espressioni coreografiche, specie da quando aveva dovuto assumersi anche il ministero dell’agricoltura, benché, come giurista, di agricoltura non ne sapesse molto. Per di piú il ministero dell’agricoltura era ancor piú insidioso di quello dei trasporti, e a lungo andare danneggiava chiunque, perché in agricoltura il partito faceva fatalmente fiasco. I contadini erano ineducabili, egoisti e pigri. Anche N odiava i contadini, non in se stessi ma in quanto costituivano un problema insolubile che faceva alzar bandiera bianca ai pianificatori, e siccome ogni sconfitta era un pericolo mortale, N odiava doppiamente i contadini, e l’odio gli faceva persino comprendere l’atteggiamento di I: chi aveva mai voglia di parlar di contadini? Solo F, ministro dell’industria pesante, ch’era venuto su in un villaggio e, come suo padre, aveva fatto il maestro rurale e possedeva una mezza istruzione imbastitagli alla bell’e meglio da una scuola magistrale campagnuola, che sembrava un contadino e parlava come un contadino, parlava di contadini in pieno segretariato politico, sfoderava barzellette sui contadini che facevano ridere lui solo, citava proverbi contadineschi che lui solo capiva, mentre il dotto giurista I, che lottava tutto il santo giorno coi contadini e andava in bestia per la loro ottusità, pur di non dover parlare di loro snocciolava le sue storielle coreografiche annoiando tutti quanti, piú di ogni altro A, che chiamava il ministro dell’agricoltura «la nostra ballerina» (prima lo chiamava «il fornitore dell’aldilà»). Ciononostante N disprezzava l’ex procuratore generale, la cui grinta da leguleio lentigginoso gli riusciva insopportabile. Secondo lui quell’uomo si era trasformato troppo presto da boia dinamico in pavido leccapiedi. Invece N ammirava la condotta di D. Nonostante tutto il suo potere in seno al partito e la sua grande intelligenza politica, certo «il cinghiale», come lo chiamava A, sentiva anche paura, se la notizia dell’assenza di O dovesse rivelarsi esatta, però si dominava. D non perdeva mai la sua disinvoltura. Anche in mezzo al pericolo, il segretario del partito restava calmo. Tuttavia la sua posizione era incerta. L’arresto di O (ove non fosse solo una mera diceria causata dalla sua assenza) poteva preludere a un attacco contro D, perché nel partito O dipendeva da D, però poteva anche preannunciare la caduta dell’ideologo ufficiale G, di cui O era considerato il protetto: che la liquidazione di O (se si fosse verificata) fosse una minaccia sia per D che per G, in sé era possibile ma assai poco probabile.
L’ideologo ufficiale G era già entrato nella sala di riunione. Era goffo, portava dei polverosi occhiali senza orlatura e teneva inclinata da una parte la testa professorale dalla zazzera bianca. Era un ex professore ginnasiale di provincia: A lo chiamava «il santo del tè». G era il teorico del partito. Era astemio, un asceta col colletto alla Robespierre, un ossuto introverso che anche d’inverno portava i sandali. Se il segretario del partito D era un uomo vitale, un gaudente e un dongiovanni, nell’ideologo G ogni passo era calcolato e non di rado sboccava nell’assurdo e nel sanguinario. Quei due si contrastavano, ostili. Invece di completarsi, si danneggiavano a vicenda, si tendevano trappole, c...