Bella mia
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Bella mia

  1. 192 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Informazioni su questo libro

Ritrovarsi alle prese con un adolescente taciturno e spigoloso che è quasi uno sconosciuto, inventarsi madre quando quell'idea era già stata abbandonata da tempo. È ciò che succede a Caterina, la protagonista di Bella mia, quando Olivia, la sorella gemella che sembrava predestinata alla fortuna, rimane vittima del terremoto dell'Aquila, nella lunga notte del 6 aprile 2009, lasciando il figlio Marco semiorfano. Il padre musicista vive a Roma e non sa come occuparsene, perciò tocca a Caterina e alla madre anziana prendersi cura del ragazzo, mentre ciascuno di loro cerca di dare forma a un lutto che li schiaccia. Ma è in questo adattamento reciproco, nella nostalgia dei ricordi, nella scoperta di piccole felicità estinte, nei gesti gentili di un uomo speciale che può nascondersi la forza di accettare che il destino, ancora una volta, ci sorprenda. Bella mia è un romanzo di grande intensità che parla con un linguaggio scarno ed essenziale dell'amore e di ciò che proviamo nel perderlo. Ma soprattutto della speranza e della rinascita: la rinascita di una città squassata dal sisma e la rinascita ancora piú faticosa della fiducia nella vita.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2018
Print ISBN
9788806237998
eBook ISBN
9788858427972

1.

Siede al suo posto con la testa capellona sul piatto, il vapore del brodo gli dilata i brufoli e piega i peli lunghi e sottili che spuntano senza progetto in attesa di diventare barba. Dal rumore delle posate credo ci stia lavorando, invece mangia troppo poco. Rimesta a lungo con il cucchiaio e lo porta alla bocca semivuoto. Evita i nostri occhi, sa che lo guardiamo e gli contiamo le proteine ingerite e quelle che lascia sul fondo.
Mastica silenzio.
Non riesco ad amarlo tutto, questo ragazzo. Alto, secco, un corpo di linee spezzate e mai curve, una debolezza improvvisa nel disegno delle gambe, appena sotto il ginocchio. La nonna lo tratta sempre da bambino, non so come regolarmi, io. È un adolescente, a volte sembra meno.
Provavo per lui una facile tenerezza quando era una creatura dai boccoli scuri e le labbra a cuore, allora possedeva in abbondanza la grazia necessaria ai piccoli per la continuazione della specie. Lo tempestavo di baci nei pomeriggi sfiniti che me lo davano in custodia. Sapeva di cucciolo, adesso gli capita di lasciarsi dietro l’aspro delle ascelle o una persistenza di capelli grassi mentre si sposta muto. Se toglie la maglietta, è un paesaggio di costole in rilievo da un lato, vertebre dall’altro. Si curva, assume la postura di chi ha appena ricevuto una pallonata nella pancia. Di spalle non sempre lo riconosco da lontano, è cresciuto cosí in fretta.
Ci troviamo intorno a questa tavola ricostruita che non appartiene a nessuno di noi. Ciascuno aveva la propria, la nonna vedova nella sua casa di paese, io in centro città e lui con la mamma non distante; loro due erano tornati a vivere qui da un anno e mezzo, quando è successo. Ora stiamo insieme, noi tre soli nell’appartamento assegnato. È nostro nipote, mio e di mia madre.
Non avevamo bisogno del terremoto. Ognuno possedeva già i suoi dolori. Mia sorella però era contenta di essere rientrata con il figlio, un ripiego accettabile, diceva. Si riappropriava dei luoghi, delle relazioni sospese, del tempo rallentato. Addolciva il distacco subíto.
Le domeniche pomeriggio d’inverno prendevamo il caffè da nostra madre sedute sotto il lampadario basso della sala da pranzo. Ci viziava con il cioccolatino trovato come per caso accanto alla tazzina fumante, piú tardi la ciotola di frutta sbucciata tesa da una mano invisibile, il pretesto di dover raccogliere i panni in cortile per liberare le confidenze a due.
Quando non usciva con gli amici veniva anche lui, attaccato alle cuffie. Ci isolava. Cosí fa adesso certe mattine, se perde l’autobus e lo accompagno in macchina. Adopera la musica che si versa nelle orecchie come filo spinato tra me e lui. A quell’ora è forse piú vulnerabile, piú attento a difendere la distanza. Sta tutto dentro il suo giaccone, alza il bavero, ispessisce il panno e si rende irreperibile. Guarda ostinato fuori, o l’orlo dei pantaloni e le scarpe. Si regge fino a sbiancare le nocche, per non essere proiettato verso di me dalle curve a destra. A quelle contrarie si appiccica al vetro con la faccia e la spalla, tiene disponibili solo gli spigoli dalla mia parte, l’anca, il gomito, casomai mi sbilanci io nella sua direzione. Di fronte alla scuola il saluto quasi non lo sento, ma chiude la portiera con insospettabile delicatezza.
Alcuni giorni fa ci siamo incontrati davanti al portone, lui con lo zaino e io con le buste pesanti della spesa. Mi precedeva di qualche passo, ha bofonchiato un mezzo ciao di schiena e lasciato aperto prima di salire. Ma poi, scaricata la sua zavorra al piano, è venuto giú per le scale ad aiutarmi, ha preso il sacchetto di patate e la confezione dell’acqua minerale che tenevo con un indice ormai cianotico. Gli ho detto grazie, nessuna risposta.

2.

Dio ha soccorso mia madre fin dal primo momento, è entrato dentro di lei con la potenza della sua voce a suggerire un senso allo strazio. Le ha trovato anche il coraggio di cercare qualcuno che stampasse gli annunci funebri, la follia di farli affiggere in due o tre punti dell’anello praticabile intorno al centro storico. Nulla doveva mancare a sua figlia, nella morte.
Ci passavo davanti in auto, certi giorni, piena di vergogna nel vederla scritta sul cemento grigio. Mi sono fermata una sera, ho tentato con l’unghia l’angolo del manifesto, ma era incollato forte, non voleva staccarsi. Ho desistito quasi subito. Con il palmo aperto ho accarezzato il nome, vocali e consonanti, era mia sorella.
Si deteriorano molto lentamente quei fogli appiccicati. Prima perdono il lucido della colla, poi l’inchiostro prende a sbiadire e uno spigolo superiore forma un’orecchietta. Lí lavorano di concerto il vento e la pioggia, insinuandosi tra il muro e la carta, rovesciano il lato bianco sul testo, lo coprono. Una mattina non c’era piú niente.
Mia madre lo invoca, il suo Dio, e si consola. Nella mia rozza incredulità immagino di riconoscerlo sulla Terra e trascinarlo, per il manto celeste che gli disegnano i bambini sul quaderno di catechismo, in una visita guidata agli elementi del disastro. Lei prega con fervore discreto, per la morta e per i vivi. Il nostro ragazzo è abbastanza gentile con la nonna, la guarda anche, e solleva un poco gli angoli della bocca in una prova di sorriso quando lei gli parla.
Usciamo tutti e tre al mattino, uno va a scuola, io al lavoro, l’altra riordina e poi prende l’autobus per il cimitero. Porta una borsa piuttosto capiente, con l’attrezzatura che ritiene necessaria alla cura delle tombe, un prodotto per la pulizia e un panno in microfibra. I fiori li compra alla bancarella davanti all’ingresso, ci lascia mezza pensione. Ogni giorno per lei è il 2 novembre. Compie gli stessi gesti meticolosi, butta le gerbere vecchie, in realtà ancora fresche, e le sostituisce con altre nuove, di colore diverso, le aggiusta nel vaso con morbide dita perché il mazzo si presenti bene. Lucida la pietra bianca, il sorriso nella foto che ha voluto mettere. A intervalli quasi regolari si volta impotente verso la nostra vicina di casa, accasciata giú in fondo sul marmo che chiude la figlia.
Aveva sei anni la notte del terremoto.
Mio padre è in un altro settore, non c’era posto vicino a lui. Mia madre lo tralascia un po’, il lutto piú recente lo ha oscurato nel suo cuore. Gli concede qualche giorno di polvere sul ritratto, le corolle s’inchinano alla forza di gravità prima di essere rimpiazzate.
Alcune domeniche l’accompagno. Resto in disparte, mentre lavora. A tratti devo proprio allontanarmi, per una specie di nausea. Se l’ampiezza o la velocità dei suoi movimenti supera una certa soglia, mi viene il mal di mare. Non le dico nulla, bastano pochi passi indietro. La lascio alla solita occupazione, ne ha bisogno. Solo all’inizio ho protestato debolmente, per i manifesti, la fotografia sulla lapide. Esce dal cancello come appagata e si ferma qualche minuto con la fioraia, da tempo si danno del tu.
– Domani mattina presto dovrebbero arrivarmi le gerbere rosa, che faccio, te lo lascio un mazzo?
– Sí, è da parecchio che non te le portano, come mai?
– Non lo so, non si capisce niente con questi fornitori. Ma domani è quasi sicuro, te le metto da parte.
– Allora ne prendo un po’ di piú, cosí cambio i fiori anche da mio marito, gli si stanno seccando.
– Se compri due mazzi c’è lo sconto. Vai a fare la spesa con questo freddo?
Sí, di solito va al mercato, nei giorni feriali. Verdura e frutta di stagione per noi, quelle dei contadini, e dopo via a casa a preparare il pranzo, con l’autobus delle undici e mezza, che poi non ce ne sono piú.
Si è abituata all’appartamento, lo usa per quello che serve. All’inizio la puzza di nuovo era insopportabile anche per lei. Nell’arco di un mese lo ha impregnato con gli odori delicati di cucina sana. Quando siamo venute, piú di due anni fa, sapevamo già di trovare lo spumante del Governo in frigorifero. Il mio primo gesto è stato di aprire la bottiglia senza scuoterla, ruotando il tappo tra pollice e indice per non farlo saltare. Poi l’ho vuotata nel lavandino, tenendola con il collo basso, proprio sul foro di scarico. A tubo ubriaco ho gettato il vetro nella pattumiera. Mia madre mi guardava rispettosa seguendo tutti i movimenti.
Qualche anziano delle piastre quattro e cinque prova a coltivare l’area sterrata intorno alle C.A.S.E.1, semina nel giusto periodo, avvia un orto, ce ne sono alcuni in fila verso la strada, rettangoli precisi. Nella stagione del raccolto i pensionati scendono piú o meno alla stessa ora, si parlano tra le rispettive piante di pomodori, commentano il clima e mostrano al dirimpettaio l’attacco dei parassiti sulla buccia del frutto. Li osservo la domenica mattina, la piú crudele della settimana, fumando una sigaretta alla finestra. Sono cosí lenti, compresi tra i vegetali e la foschia leggera che trasuda dalla terra agitata. Per le scale spio i colori degli ortaggi nei cesti, mentre risalgono per consegnarli alle mogli. Mi meraviglia la loro fedeltà al suolo traditore.
D’autunno spazzano le foglie con metodo, anche quando per dispetto il vento le riporta subito a grattare con i margini accartocciati il calcestruzzo del piazzale. Sanno distinguere le occupazioni utili dalle inutili, le alternano nello sforzo costante di riempire il tempo. Per la neve usano le pale leggere di adesso, in plastica, con la bocca larga. Lavorano espirando nuvole di vapore, il freddo paralizza il groviglio di rughe incise sui volti arrossati dai disturbi cardiaci.
Mia madre non presta il suo pollice verde a questo posto, tanto ce ne andremo, dice, e le dispiacerebbe abbandonare la grazia di Dio cresciuta, cosí la chiama. Allora fioriture di gerani sul nostro balcone estivo e niente di piú, che quelli potremo portarli via. Gli somministra l’acqua quotidiana, rimbocca il terriccio o stacca le parti secche. Mandano profumo solo se toccati.
Non vuole abituarsi al quartiere provvisorio, la vedo attenta a calibrare le relazioni con i vicini per non stringerle troppo. Ma si rivolge con premura riservata e pietosa alla donna che sopravvive alla sua bambina, se a volte alza la testa dall’abisso.
L’alloggio ha tre vani, una camera l’ho ceduta a Marco quando è venuto a stare da noi due anni fa, l’altra è per me e mamma. Lei tiene lindo e in ordine, ma mostra il distacco di chi aspetta con pazienza irreale di aggiustare la casa al paese. È uno strano sogno in una persona non piú giovane, dice che lo deve a papà, la sua famiglia abitava lí da generazioni e lui aveva ristrutturato da solo, prima di sposarsi. Le ricordo cauta che papà è mancato da tanto, non sa del terremoto, non saprà dell’eventuale Ricostruzione. Che c’entra, lui da lassú vede tutto, risponde severa, con lo sguardo di quando le ho detto che non mi sarei cresimata. Dopo un po’ si siede e quasi chiude gli occhi, riapre invece il vecchio portone trattato con l’olio e la pezza, entra nell’odore vago di muffa dell’ingresso angusto e posa il piede sul primo gradino della scala impervia che porta sopra, dove strillano le voci di noi gemelle, quella di Olivia piú acuta e gioiosa. Eravamo tutti vivi, allora.
1. Complessi Antisismici Sostenibili ed Ecocompatibili.

3.

Incrocio una delle pattuglie che presidiano il perimetro della Zona Rossa e proseguo per qualche isolato, tra i rari passanti della mattina. Poi non c’è nemmeno bisogno di spostare la transenna, mi appiattisco contro il muro ed entro nell’ombra del vicolo proibito. Cammino in salita, con il fiato già grosso. A tratti arrivano zaffate di legname marcio, dai puntelli ancora intrisi della pioggia notturna. Quando svolto per via Mezzaluna, con la coda dell’occhio scorgo un movimento scuro e peloso, forse un animale di piccola taglia sgattaiolato all’improvviso. Per raggiungere il mio vecchio laboratorio devo costeggiare la casa che ha perso la facciata e mostra gli interni residui, conserve e pacchi di pasta in cucina, nel bagno lo specchio rotto attento alle variazioni del cielo cubista, l’armadio spalancato sui vestiti che resistono addosso alle grucce e si lasciano stingere le maniche dalle insistenze del sole. Un interruttore senza muro oscilla nel vuoto, sospeso al suo cavo. Sale la nausea, la controllo. È quel dondolio leggero, basta distogliere lo sguardo, andare oltre.
Lavoravo al piano terra di un palazzo adesso inagibile, categoria E. Apro il lucchetto gelato che tiene insieme le due metà del portone, ma poi devo forzare l’anta in apparenza piú cedevole con le mani, e non basta, con la spalla, il ginocchio, finché supero l’attrito del noce contro il pavimento. Lo stridore è enorme nell’enormità del silenzio. D’istinto allungo la mano a premere il pulsante sulla destra, la luce non può accendersi. Muovo qualche passo guardingo, aspettando di abituarmi alla penombra. Le scarpe spostano rumori di cocci e polvere, la respiro. Trovo l’unica finestra a memoria e stavolta gli scuri rispondono docili.
Non sono mai tornata qui, dopo il terremoto. Quando ho deciso di riprendere l’attività altrove, ho mandato qualcuno a caricare il forno e poco altro, l’indispensabile. In una fabbrica artigianale di Castelli ho ricomprato i semilavorati da dipingere, e poi i pennelli nuovi, la cristallina e i colori, anche un po’ di lustri. Al mercato in Piazza d’Armi ho preso una grossa bagnarola di plastica per preparare lo smalto e un lungo cucchiaio di legno per miscelarlo.
Sono salvi solo i pezzi finiti e imballati negli scatoloni, eccoli là in fondo, potrei portarli via e vendere il contenuto. Dalle mensole che occupano intere le pareti sono invece caduti quasi tutti gli oggetti, scivolando lungo i piani inclinati dalla scossa. A terra le linee discontinue tracciate dai cocci riproducono preciso ma ristretto il contorno dello stanzone. Da un lato ci sono i frantumi dei biscotti, piú avanti le bottiglie smaltate che asciugavano e dalla parte opposta, già pronti per la cottura, i piatti con il galletto e i vasi da farmacia con i decori del Cinquecento. Quello che avevo fatto è perduto.
Raccolgo un frammento e leggo sotto una bacca la mia firma sottile interrotta alla E. Poi, come un piccolo miracolo, trovo una campanella volata illesa dentro uno degli zoccoli di gomma. Ci soffio sopra e la ruoto piano seguendo da vicino i dettagli della greca a fiori. Era per la Pasqua del 2009. Controllo che tintinni, con quel minimo batacchio. Il suono gentile funziona da sveglia, sto perdendo tempo, non sono venuta per questo. La infilo in borsa e cerco i disegni.
Le cartelle sono al centro del tavolo, accanto ai barattoli e alle prove di colore sui mattoni di scarto. Uno di questi si è spostato fino al bordo del ripiano e si tiene in bilico, mezzo dentro e mezzo fuori. Lo riporto al sicuro con gli altri e resta la sua scia pulita tra polvere e polvere. I disegni sono in buono stato sui fogli ondulati dall’umidità, potrò usarli ancora. Solo in qualche punto l’inchiostro è leggermente sbavato. Sto per uscire, con le cartelle sotto il braccio, ma poi cedo alla tentazione di riprendermi la vecchia salopette a macchie variopinte che usavo q...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Bella mia
  4. 1.
  5. 2.
  6. 3.
  7. 4.
  8. 5.
  9. 6.
  10. 7.
  11. 8.
  12. 9.
  13. 10.
  14. 11.
  15. 12.
  16. 13.
  17. 14.
  18. 15.
  19. 16.
  20. 17.
  21. 18.
  22. 19.
  23. 20.
  24. 21.
  25. 22.
  26. 23.
  27. 24.
  28. 25.
  29. 26.
  30. 27.
  31. 28.
  32. 29.
  33. 30.
  34. 31.
  35. 32.
  36. Postfazione
  37. Ringraziamenti
  38. Il libro
  39. L’autrice
  40. Della stessa autrice
  41. Copyright