Il punto però è che la paura può tornare in qualunque momento.
Per la depressione, secondo me, non esiste la remissione totale.
Puoi imparare a convivere con le fluttuazioni dell’umore, sapere che molto probabilmente il nero passerà , impari molte strategie per distrarti e canalizzare altrove l’attenzione, impari la pazienza.
Ma sai anche che c’è qualcosa dentro il tuo corpo. Qualcosa dentro la tua testa. Qualcosa che a seconda di come lo immagini può essere solido e avere una forma, oppure al contrario essere un vuoto, un buco. Un buco in cui, da un istante all’altro, senza preavviso, puoi tornare a precipitare.
Non è possibile trascorrere la vita a misurare al millimetro ogni passo e ogni gesto, allora devi provare a vivere. Vai avanti. A volte ti immobilizzi, con il terrore in bocca, le gambe che non reggono. La Ragna è lÃ, aggrappata alla tua schiena, la bocca agganciata al tuo midollo. Ti succhia anche se non te ne accorgi. Di te si nutre, di te si riempie, di te fa strage.
Poi qualcosa, da dentro o da fuori, ti spinge e ricominci a muoverti.
Per mesi dimentichi. A volte per anni. Impari a stare in equilibrio, come pattinare sul ghiaccio o camminare su un filo teso a decine di metri d’altezza. Ci sono tanti trucchi e trucchetti, possono funzionare per sempre oppure solo per un po’. Le strategie vanno costantemente manutenute e monitorate; all’occorrenza, mutate. Ma niente può darti la certezza che non tornerai a cadere. Che la Cosa, l’Altro da te, che però sei sempre tu, non tornerà .
Per me, è tornato.
Il buco, lo strappo, la cellula impazzita, il mostro bavoso, il lupo nero, l’ombra ghignante dietro la porta, il babau nascosto nel cespuglio in fondo al giardino, il fantasma che striscia sul pavimento della soffitta.
Avevo un bambino.
Era stato dentro la mia pancia per nove mesi e adesso era uscito e il mio corpo non si riprendeva e la mia testa bruciava. Volevo solo dormire, ma era un sonno chimico, quello al quale ero costretta. La cosa piú dolorosa del mondo da sopportare? Un dente in pulpite acuta. Cosà mi sentivo, anche se non era un dente a battermi in testa.
Ogni tre ore il bambino doveva mangiare e giustamente piangeva.
Io invece volevo essere vuota. Muta. Silenziosa. Volevo smettere di sentire il suo pianto, le sue richieste. A volte chiudevo a chiave la porta. Lasciavo che fosse il padre a occuparsene.
I biberon e il latte in polvere li hanno inventati apposta per correggere le manchevolezze della natura. La mia.
Benedico il latte in polvere, gli sterilizzatori, i biberon con il succhiello graduale.
Benedico il Dostinex che blocca la montata lattea, due pillole che un’infermiera giudicante mi aveva imboccato con disprezzo subito dopo il parto mentre io giravo lo sguardo dall’altra parte e nessun banale e previsto senso di colpa mi pervadeva, ma solo un grande sollievo, perché dopo tutte quelle ore di sofferenza finalmente il mio corpo era di nuovo da solo: svuotato, tagliato, ricucito, disinfettato e sterilizzato.
Il bambino l’avevo visto uscire da me, secondi conficcati come schegge nella mia memoria, il suo corpo contratto e letteralmente blu incastrato tra le mie gambe, nel mio taglio ancora – dopo il bisturi, le spinte coi gomiti sulla pancia, dopo la ventosa conficcata a secco – troppo stretto. Aveva gli occhi chiusi e sembrava morto. Toglietelo, urlavo, fatela finita.
Mi avessero detto che avrei potuto coltivare un bambino in un batuffolo di cotone, come un fagiolo, al posto che nel ventre, l’avrei fatto dal primo giorno.
L’istinto primario è la sopravvivenza.
La resistenza a ciò che potrebbe ucciderti.
E un bambino può ucciderti.
Erano passati due anni.
Ogni mattina l’urlo che si levava dalla sua gola mentre io stavo dormendo strappava i miei sogni e me li faceva dimenticare. Mi violentava e mi voleva possedere intera. Io ero sua. Tutto il mondo era suo. La fame, la sete, il sonno, il gioco.
Il mio quotidiano addio alla vita, sussurrato in punta di labbra e soffiato col fumo della prima sigaretta accesa fuori dalla porta, lui legato nel suo seggiolone che urlava «mamma-aaa» sbattendo la tazza di plastica contro il bordo del vassoio.
La catena intorno al mio collo.
I ceppi.
Le corde.
Ma anche le forbici a portata di mano. Il coltello. Il salto nel vuoto.
Non è andata cosÃ.
Questa è immaginazione.
Immaginazione nera.
Parole.
Mi sono fermata per tempo.
Le parole mi hanno salvata, ancora una volta.
Ogni volta che sentivo di non farcela, posavo il bambino urlante nella culla e accendevo l’aspirapolvere. Quel suono lo calmava, e calmava me.
Anche se la prigione nella quale mi trovavo in quel momento era reale: vivevo in un posto di montagna, una casa arroccata in cima a una salita con una pendenza di novanta gradi, mesi e mesi di ghiaccio e neve, isolamento, solitudine. Problemi economici, lavoro fermo, incertezze su incertezze, da tutti i punti di vista. La memoria di quelle giornate si è cancellata dalla mia mente. Non ricordo quasi nulla, solo che ne sono uscita viva. Ne siamo usciti vivi.
Quando il bambino si addormentava mi sedevo per terra e contemplavo la mia prigione.
La prigione aveva le sbarre bianche e azzurre come il lettino del neonato. Un mondo di plastica trasparente e animaletti multicolori. Soffice, profumata, anallergica, antiacaro e antisoffoco.
Stavo seduta al centro di quella piccola stanza con una parete dipinta di azzurro polvere e cercavo di fare un esercizio di meditazione che mi aveva insegnato il chirurgo plastico prima dell’intervento. Visualizzavo la stanza dal di fuori, e me stessa inginocchiata al suo centro sopra un tappeto di gommapiuma colorato con le lettere e i numeri disegnati. Ancora piú in alto, la stanza scompariva, io scomparivo e ora vedevo la casa che ci conteneva, me e la stanza. Una piccola casa bianca con le imposte rosse, seduta in cima a una collina circondata da boschi tutti bianchi di neve. Mi alzavo ancora e sopra la nebbia finalmente vedevo la corona di monti, e il mare in lontananza.
La piccola casa era sparita: una distesa di nebbia, acqua e terra dove si nascondevano piccole case identiche a questa, o quasi. In ognuna di queste case immaginavo una stanza con le pareti rosa o azzurre, un fasciatoio con la superficie imbottita, una cassettiera gonfia fino a scoppiare di pagliaccetti colorati, bavagli e pacchi di pannolini.
Piccole bolle di gioia e calore in un mondo cupo e spaventoso.
Ecco, piccolino, ciò che non sarà mai piú, e dunque goditelo adesso: pannamontata, tuttifrutti, plastica trasparente e versetti allegri, odore di latte e crema allo zinco, shampoo antilacrime e morbida spugna naturale.
Per voi cuccioli abbiamo imparato a creare mondi-bolla perfetti. Come le palle di vetro con dentro la neve: tutti diversi eppure tutti uguali. Tutti ugualmente inverosimili. Lo sappiamo benissimo che le bolle scoppiano, anche se non vogliamo dirvelo.
Prima del bambino avevo smesso di pensare alla morte. Ora ero tornata sull’orlo del precipizio, in bilico su uno sperone di roccia proteso nel nulla sopra il quale cercavamo di sopravvivere entrambi: il bambino con l’ostinazione della vita appena nata che pretende di esistere, io con la forza di volontà che giorno dopo giorno, nonostante la fatica sovrumana, nel buio, mi spingeva a fare ciò che doveva essere fatto. Nutrire, accudire, lavare, riscaldare, cullare, pulire, ascoltare, sollevare, rimettere giú. Lo avevo desiderato, era arrivato senza sforzo, dopo pochi mesi di tentativi, lo avevo partorito, era mia responsabilità , dovevo farcela a ogni costo.
Le parole che scrivevo su un quaderno mi bastavano a buttare fuori la paura. Scrivevo frasi irripetibili, la rabbia si condensava sulla pagina e mi abbandonava.
Avere un figlio è avere paura.
Prima di dormire non potevo fare a meno di chinarmi sulla sua carrozzina e sentire il respiro caldo sulla mia pelle. Ogni volta, con il terrore di non ritrovare quel fiato sottile che odorava di latte.
Da subito, la sua vita mi era sembrata fragilissima e minacciata.
Aveva rischiato nei primi minuti di vita.
Aveva rischiato a poche settimane, quando una vespa lo aveva punto sul collo ed eravamo dovuti correre in ambulanza a un pronto soccorso lontanissimo dove ci avevano trattenuti per la notte. La rabbia, nei momenti concitati in cui attendevamo i soccorsi, mi aveva impedito di provare dolore, solo un pugno in pieno petto e la sensazione di non poter mai piú tornare a respirare normalmente. La stessa sensazione violenta di quando il nostro vicino aveva bussato alla porta per dirmi che la gatta Rina era morta.
Stavo lavando dei bicchieri, non lo dimenticherò mai. Non si dimentica mai la cosa idiota che si sta facendo quando ci raggiunge la notizia che qualcuno cui volevamo bene è morto.
C’erano i sacchi della spazzatura davanti alla porta e per quello non riuscivo ad aprirla. Lo sguardo liquido e buono di quell’uomo mi ha frantumato il cuore. Prima ancora che parlasse, avevo già capito.
Qualche ora dopo, ho guardato il mio compagno dalla finestra, tenendo il bambino in braccio. Scavava una fossa sotto al noce. Il corpo della gatta non ho voluto vederlo. Non ho mai visto il cadavere di nessuno dei miei gatti. Eppure, solo un anno prima avevo attraversato la città a piedi, in un freddo giorno di pioggia, per andare a salutare il mio amico Andrej. Il suo corpo freddo nella camera mortuaria di via Albertoni, composto come in vita, quel ragazzo dinoccolato e sempre in movimento, non era stato mai.
Una volta, prima di quell’estate del 2012, non urlavo di paura o di dolore. Ora i miei pugni colpivano i muri e le unghie si ficcavano dentro la carne viva.
Da quando il bambino era nato io non avevo piú pace nemmeno nel sonno. Appena aprivo gli occhi era la prima cosa alla quale pensavo e il primo pensiero era: sarà ancora vivo? Forse succede la stessa cosa a tutte le madri.
Non so però se succeda a tutte di chiedersi: e io sarò ancora viva, domani?
Prima, non lo sapevo cosa fosse, un neonato.
O meglio, era un’entità astratta che associavo a un liquido bianco di nome latte – ma che latte vero non era, dato che si trattava di una mistura di polvere e acqua sterilizzata oppure di un invisibile spruzzo che usciva dal seno della madre – ai pannolini, ai pagliaccetti di ciniglia pieni di bottoni, allo strazio di un pianto sommesso e continuo e a gorgheggi che non mi ispiravano nessuna tenerezza. Quando capitava che qualche amico neogenitore mi chiedesse se volevo prendere in braccio il figlio neonato, mi schermivo finché era possibile farlo senza risultare sgradevole, poi mi rassegnavo a quei pochi minuti di terrore. Il fagotto informe di cenci mi veniva deposto in grembo e le mie braccia si anchilosavano in un tentativo di presa che non risultava affatto semplice, come da sempre sentivo dire sarebbe dovuto accadere. Restavo rigida e contratta per qualche minuto, un battito di emozione subito spazzato via dall’improvviso desiderio di accendermi una sigaretta, grattarmi il naso, accavallare le gambe. Aspiravo quell’odore che mescolava latte mal digerito, pasta Fissan, pipà e detersivo cercando di non scalpitare mentre attendevo che il quarto d’ora accademico finisse. Quando me lo toglievano di dosso, senza nemmeno accorgermene mi ritrovavo a scrollarmi i vestiti per liberarli dai residui di qualcosa, e quando finalmente la circolazione dei miei arti si ripristinava ero pronta ad andarmene. La visita era finita, il dovere compiuto: ero libera.
Da un figlio proprio è piú difficile liberarsi, tocca abituarsi.
A mio figlio ho dovuto abituarmi.
Mi sentirò in colpa per questo? Non ci ripenserò mai piú? Non lo so. So solo che l’odore del suo corpo non era affatto un odore familiare. Dovevo imparare a riconoscerlo volta per volta, abituarmi a quel corpo-altro-da-me che si addormentava al mio fianco e respirava il suo respiro, sognava i suoi sogni, pativa le sue rabbie. La fatica che provavo nell’accudirlo era cento volte piú grande della gioia che provavo nel condividere le sue scoperte. La sua voce era il richiamo del padrone e mi si schiantava tra le scapole come una mannaia. Mamma. Mamma. Era passato un anno. Ora si afferrava ai bordi del lettino con le mani grassocce, lanciava il ciuccio per terra, piú lontano che poteva, e con un lampo di malizia negli occhi piagnucolava, poi, quando si stufava, decideva di fare sul serio e mi chiamava. Perentorio,...